“In a Violent Nature” mostra l’animalità dell’umano insita in ognuno di noi - THE VISION
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Da sempre il cinema horror ci mette in contatto con ciò che non vogliamo vedere, e che pure ci attrae irrimediabilmente, come ogni cosa proibita, dal sesso alla violenza. Ci obbliga a immergerci nella perversione, e in tutte le nostre paure ataviche, molte delle quali veri e propri tabù ancestrali. I temi sono molti, dall’ombra, al doppio, al mostruoso al perturbante, con esiti più o meno violenti, più o meno splatter, che ci portano a riflettere sul lato oscuro dell’umano, sulle sue forme, sui suoi istinti e sulle sue dinamiche. Una delle tipologie della narrazione horror è la possessione, che attinge a tutto un filone di opere letterarie gotiche che mescolano religione e occultismo e che viene riportata in auge al cinema con Rosemary’s Baby di Roman Polański nel 1968, all’interno di una cornice realistica, mostrando come il male più efferato possa manifestarsi ovunque. Ma nel decennio successivo – tra bambini demoniaci e orribili reincarnazioni – fondano le basi di molte altre caratteristiche del genere che confluiscono sapientemente in In A Violent Nature, esordio del regista Canadese Chris Nash presentato al Sundance che verrà proiettato il 31 gennaio alle 20:30 al Cinema Godard di Fondazione Prada, insieme a un altro lungometraggio horror, Animale di Emma Benestan, presentati da Manlio Gomarasca, all’interno della rassegna di genere Nocturna.

Con In a Violent Nature Nash realizza uno slasher disturbante e perverso, che si può definire a tutti gli effetti un “horror d’essai”, per qualità di composizione dell’immagine, dialoghi, colonna sonora e montaggio, in cui la dilatazione temporale non è mai retorica o smaccatamente di genere, e l’adrenalina non viene fatta salire con le solite trovate, anche se il film si inserisce pienamente nel genere, attingendo a piene mani dalle sue caratteristiche formali tipiche, ma con intelligenza, facendole proprie, e quindi originali e interessanti. Fin dalle primissime inquadrature del bosco, in cui avviene tutta la vicenda “dell’omicida dei pini bianchi”, è chiaro come questo sia uno slow movie, caratterizzato da un’estetica minimalista, long take, e dall’attenzione al dettaglio.

Tornando agli anni Settanta, Brian De Palma, nel 1976 con Carrie – Lo sguardo di Satana, adattamento dell’omonimo romanzo di Stephen King, mostra quanto sia possibile approfondire l’esplorazione psicologica anche all’interno di questo genere. E due anni dopo John Carpenter, con Halloween – La notte delle streghe (tra i film indipendenti che ebbe maggior successo nella storia del cinema), introduce il topos dei ragazzi uccisi da un super assassino, elemento che poi caratterizzerà il genere slasher. In questo periodo, infatti, prendono forma quelli che sono diventati gli attuali stilemi del genere. Ma al di là della nascita dei vari sottogeneri, la svolta più radicale rappresenta la scelta di assumere un protagonista negativo. Se nel cinema horror classico – discendente diretto della letteratura (tra Dracula e Frankenstein) – il mostro non era effettivamente un essere del tutto umano, o era qualcosa di non-più-umano, ora diventa un essere umano a tutti gli effetti, ma impazzito, accecato dalla vendetta o letteralmente assetato di sangue, senza freni, trasfigurato. Il mostro, insomma, non è qualcosa di sconosciuto e “alieno”, ma una deviazione insita nell’umano stesso, ed è questo che genera quel senso di tremendo perturbante.

Anche Nash mescola tutti questi spunti, mettendo al centro della sua narrazione un morto vivente, Johnny, un bambino marcio, cresciuto da cadavere, reso tremendamente crudele dal mondo in cui è cresciuto, e che lo ha ucciso, che indossa quella stessa maschera che lo aveva terrorizzato a morte da piccolo (come un super-cattivo che sembra uscire dall’universo dei comics), instillando minuto dopo minuto nello spettatore il dubbio sibillino e ironico a un tempo che “in a violent nature”, non sia appunto il segno sotto cui è nato il mostro, destinato quindi a non poter essere nulla di diverso, ma l’ambiente in cui si è trovato, che lo ha portato a diventare un mostro, come reazione alla sua stessa grettezza, ignoranza, ingiustizia e crudeltà, spesso gratuita e insensata, la stessa che poi usano gli slasher per devastare le loro vittime.

Il tema dell’ambiente, e dell’habitat, viene simbolicamente sottolineato subito dall’ambientazione dell’horror in un bosco canadese, in Ontario, isolato completamente dal mondo. Ma anche questo topos viene trattato in maniera originale. Il bosco, infatti, invece che trasmettere paura, trasmette pace, è l’umano che lo popola che inquieta: le tagliole disseminate per catturare gli animali, gli scherzi e i flirt sguaiati del gruppo di amici che sono arrivati nei lodge per passare il week end. Il bosco è tranquillo, finché i ragazzi, appropriandosi di qualcosa che non è loro, risvegliano il cadavere di Johnny, che è davvero come un’enorme bambino assetato di sangue, che – a differenza di noi – sa bene ciò che vuole, ed è solo una cosa: il medaglione d’oro della sua mamma, tutto ciò che abbia mai avuto. La morte diventa il suo modo di giocare, indifferente al dolore del mondo così come il mondo lo è stato del suo. Raccontandone la sua storia intorno al fuoco, prima di “incontrarlo”, i ragazzi lo definiscono “slow”, lento, ritardato, e in effetti Johnny se ne cammina lento per i boschi, ma non lentissimo, ed è bellissimo vederlo di spalle, col suo cappuccio da pompiere, e tutta la tranquillità del mondo, mentre cammina e cammina e cammina per i boschi e i prati pieni di fiori al tramonto, per i suoi boschi, come fosse un orso, o una volpe, vittima anche lui dei cacciatori, anche se adesso il predatore è lui.

Non a caso, Nash ha sottolineato, che voleva realizzare una storia che sembrasse il più possibile un documentario naturale. Cercando di trasmettere davvero la sensazione, a differenza di molti horror, che il pericolo non sia vicino, quando evidentemente lo è. Proprio come succede ai turisti poco preparati e poco esperti quando vanno nei boschi, trattandoli (così come i loro abitanti, gli animali selvatici), come attrazioni e parchi giochi, messi lì come loro passatempo, oggetto da consumare. Continua Nash, “Quando si vedono dei turisti andare molto vicino agli orsi dicendo “Ma dai, non sta facendo niente. Va tutto bene”. E poi, all’improvviso quando l’orso si gira e ti attacca sei ovviamente ben lungi dall’essere preparato ad affrontarlo, perché non avevi idea di quanto potesse essere forte e brutale”. E questo perché lo consideravi un oggetto delle tue proiezioni (cosa che spesso facciamo anche con le altre persone), ignorandone la sua realtà. È proprio questo che emerge dal comportamento dei ragazzi, un continuo rimandare la gravità della situazione, non tanto per farsi coraggio, ma per procrastinare l’affrontare il problema, evitarlo il più possibile, minimizzandolo, invalidandolo, finché beh il problema non ti tira un’accetta in testa e ti fa a pezzi.

In questa analisi naturalista che permea tutta la pellicola – girata in un formato come l’Academy Ratio, come Elephant di Gus Van Sant, molto amato da Nash e a cui dice di essersi ispirato per questo film, ma anche Asteroid City di Wes Anderson – tutto ruota intorno al concetto di predazione in eccesso, un comportamento predatorio che si manifesta quando gli animali uccidono un numero maggiore di prede rispetto al soddisfacimento delle loro necessità alimentari del momento. Tale comportamento è stato osservato in diverse specie di animali predatori come volpi, lupi, coyote, cani, gatti, corvi, orsi, e anche nell’essere umano (già, anche noi siamo predatori, anche se non ci piace pensarlo). Per far sì che si manifesti questo fenomeno è necessaria la presenza di prede in abbondanza, così come di particolari condizioni ambientali e di situazione. Per esempio, se la popolazione della preda è in una fase di massima densità numerica, il predatore può rivolgere la sua attenzione a molti individui giovani e inesperti oppure che versano in condizioni di difficoltà, o si trovano in ambienti artificiali come per esempio recinti con animali impossibilitati alla fuga o pascoli liberi: in questi casi il predatore si trova a disposizione prede facili, che favoriscono l’attivazione di questo meccanismo di caccia. Ogni uccisione andata a buon punto rappresenta un rinforzo positivo per il predatore, e se si verifica una situazione anomala, in cui le fasi di ricerca ed inseguimento risultano troppo facili o addirittura assenti, il predatore è stimolato a attuare l’uccisione in maniera ripetitiva. Questa è semplice etologia, fa venire i brividi, vero?

Il film ci mostra l’animalità dell’umano – che nonostante ci impegniamo tanto a negare, è insita in ciascuno di noi. Ma quello che soprattuto si nota – e ci stupisce – è che la morte pacifica il bosco da tutte le vritti, le tensioni che gli umani si portano dentro, dai loro comportamenti meschini, dai sentimenti, dai desideri, dalle abitudini, dalle piccole violenze, dal sesso, dalle prese in giro, dai giochi di potere, dai soprusi, dall’ingoranza, dalle dinamiche di attrazione e dai flirt, dalle gelosie, dai ruoli. Dopo che Johnny ha ammazzato il bosco torna tranquillo, quieto, la morte, per quanto violenta, riporta pace, silenzio, elimina stupido chiacchiericcio, rumore di fondo. Quello che succede è che se è impossibile empatizzare con l’omicida, l’omicida in questo caso non ci dà fastidio, speriamo quasi, anche se siamo terrorizzati, che la maggior parte di questi esseri umani venga fatta fuori, perché non è neanche in grado di vedere oltre la punta del proprio naso, e questo sì che porta a un sacco di dolore evitabile. Alla fine Johnny, sembra davvero essere paragonato a un orso, sembra non essere “altro” che un orso, e ci si chiede se faccia “meno” paura un cadavere di un essere umano sventrato da un animale, oppure il cadavere di un animale ucciso un uomo, o il cadavere di un essere umano sventrato da un altro essere umano, se a farci paura sia la morte violenta, o la sua possibilità.

E alla fine l’essere umano – anzi, la donna, dato che non è un caso, pensando a tutto il filone dell’eco-femminismo e comunque la portata “rivoluzionaria” che oggi incarna l’educazione femminile in contrapposizione ai comportamenti che ancora vengono reiterati dall’uomo – dal ciglio della strada guarda nel bosco, smette di fuggire dall’orrore (in una scena onirica che ricorda la fuga di Biancaneve dal castello nel bosco, che ci ha segnati in tempi non sospetti della nostra infanzia più di qualsiasi horror temo), dopo averlo guardato in faccia (o meglio, averne visto la maschera, la sagoma), si arrende alla possibilità di poter morire, al terrore che genera in noi l’idea di poter morire. Sembra allora che questo enorme terrore e dolore mai detto, la sofferenza generata dall’assurdo del mondo, dal suo caos, dalla sua complessità ingestibile, dalla sua aleatorietà, venga accettato, insieme all’esistenza della violenza del mondo, precipiti dentro di noi, e insieme agli ultimi fotogrammi, proprio come durante alcune pratiche contemplative, ci si arrenda a esso, accogliendolo invece di rifuggirlo.

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