La verità non esiste. Esistono tante verità diverse. Anche ne “Il dubbio”. - THE VISION

C’è un momento esatto in cui si comincia a dubitare. Non succede mai in modo eclatante. Il dubbio è un leggero spostamento cognitivo, che si insinua nella nostra struttura mentale e nella nostra immagine della realtà, fessurandola. È il tono con cui qualcuno ci risponde, una parola usata al posto di un’altra, una pausa di troppo, un oggetto lasciato da qualche parte. Una frase mancante. Il dubbio è un leggero ma irrimediabile spostamento. Nasce nelle crepe, fino a rischiare di distruggere qualsiasi cosa. Mettendo in crisi il nostro stesso esame di realtà e quindi come uno specchio riflesso incrinando anche chi dubita, con una sorta di doppia azione.

Nel film Il dubbio, di John Patrick Shanley, disponibile su Paramount+, non c’è sangue, non c’è un crimine dimostrato, non c’è neanche una scena che dica con chiarezza che sia successo qualcosa. Eppure, c’è un silenzio così preciso da far male, un silenzio che inchioda e che trasforma ogni gesto in prova e ogni omissione in sospetto. Padre Flynn – interpretato da un incredibile Philip Seymour Hoffman – è un prete progressista, carismatico, che sembra voler spostare la Chiesa verso qualcosa di più umano e moderno. La suora Aloysius Beauvier – nientemento che Meryl Streep, vestita del nero più pesante che si possa immaginare – invece è l’opposto: rigida, severa, determinata a scovare il male, proprio in quei posti più reconditi in cui si annida. E poi c’è la giovane sorella James – interpretata da Amy Adams –, che sembra aver visto qualcosa, forse però niente, forse troppo.

È lei a instillare la prima goccia. Non sa spiegare bene cosa sia successo tra il prete e uno studente – l’unico afrodiscendente in una scuola bianca, il più fragile tra i già vulnerabili – ma quella goccia si insinua in una struttura già scricchiolante. Aloysius prende una sensazione e la trasforma in missione. Ma la verità continua a sfuggire. Eppure, lo spettatore continua a cercarla. Oscillando da un estremo all’altro del tensore che regge le due visioni del mondo incarnate da questi personaggi, chiedendosi quanto il proprio pregiudizio, nato dall’esperienza personale e dalle idiosincrasie di ciascuno influenzi la sua visione della realtà, degli altri, anche solo di un film. Perché abbiamo bisogno di sapere, non tanto per condannare o assolvere, ma per smettere di stare in bilico. Per avere il conforto che una verità, e che una realtà univoca, possa esistere. Ma purtroppo non è così. Non lo è mai, e se lo sembra è solo per caso, per fortuna, o per miopia, riduzionismo.

Le storie che non ci dicono tutto infatti sono le uniche che assomigliano davvero alla nostra esistenza. La verità non esiste. Esistono tante verità diverse. E la realtà è un continuo amalgamarsi di fattori. La verità non è qualcosa che si rivela, e spesso non si dimostra nemmeno. A volte dobbiamo semplicemente imparare a convivere con verità contrastanti, contraddittorie, oppure con la condizione di non sapere. Anche se capita di confondere la verità col nostro voler aver ragione, con la necessità appunto di confermare le nostre credenze, in modo che il nostro sistema di valori non crolli, e insieme a lui noi stessi e il nostro senso di identità. Qualcosa di simile accade anche in Your Honor, la serie con Bryan Cranston visibile sempre su Paramount+. Anche in quel caso, un padre – non un prete, stavolta, ma un giudice – si trova davanti a qualcosa che non può accettare: il figlio ha investito e ucciso il figlio di un boss mafioso. E da quel momento, l’unica cosa da fare sembra essere mentire. Negare tutto. Tradire tutto quello in cui ha creduto fino a quel giorno: la giustizia, l’imparzialità, l’etica. C’è una scena in cui il giudice dice: “Non ho scelta”. Ma la verità è che la scelta c’è sempre. E allora anche in quel caso si insinua il dubbio: qual è la cosa giusta da fare? È peggio proteggere tuo figlio o lasciare che venga ucciso per un’idea di giustizia? Spesso la cultura occidentale ci fa crescere con l’idea che la verità possa avere un effetto salvifico. Ma Il dubbio ci mostra che a volte nemmeno essere nel giusto ci salva. E Your Honor, nello specifico, ci mostra che il giusto non sempre coincide con il bene. Che a volte per comportarsi nel modo migliore è necessario essere più pragmatici che idealisti, sforzarsi insomma di contenere in sé gli opposti del mondo.

C’è una scena, verso la fine del film, in cui la suora finalmente affronta il prete. È un confronto che non è né tribunale né confessione: non c’è una sentenza, non c’è una catarsi. C’è solo un muro, e due esseri umani che si guardano senza riuscire a raggiungersi. Lui dice: “Non puoi provarlo”. Lei risponde: “So che è vero”. E noi non sappiamo. Noi restiamo lì, in quella sospensione. Eppure, non riusciamo a smettere di guardare. Di interrogarci, di far oscillare le nostre supposizioni, tra paure e speranze. In tutta la brutale onestà del non sapere appunto, e dell’accettarlo. Una sorta di epoché in questo modo che invece ci spinge a essere sempre più schierati, polarizzati, tranchant, ad avere un’opinione su tutto, anche quando di quell’argomento non sappiamo niente, perché magari non ci interessa, o perché per avere un barlume di idea in merito dovremmo studiarlo per anni. E invece no: se non prendi posizione, se non dici la tua, anche se “tua” non è, smetti pian piano di esistere, diventi invisibile, oppure non sarai mai “la persona più interessante della stanza”. E quindi fingiamo: fingiamo di sapere le cose, fingiamo di esserci costruiti una solida opinione su qualcosa, fingiamo di avere le idee chiare, di sapere chi siamo, di sapere dove sta la verità. Quante volte d’altronde, senza nemmeno farci caso coscientemente, iniziamo una discussione dicendo “La verità è che”. Ma la verità è che nessuno ci capisce nulla, nemmeno chi si sforza strenuamente per farlo.

La verità, allora, è che dobbiamo accettare la pluralità delle verità. E la condanna, a volte, di non poter essere oggettivi, scientifici – anche perché il metodo scientifico si fonda proprio sul dubbio. Di osservare il mondo in maniera inevitabilmente parziale e distorta dal fatto stesso di essere noi stessi, dei corpi separati dagli altri, con delle lenti deformate dal tempo, dall’eredità genetica, dall’ambiente, dal caso. Dobbiamo capire che guardiamo il mondo con degli strumenti del tutto parziali, smussati, imperfetti, fallaci e mendaci, solo così, capendo che tipo di distorsione subiscono le scene che noi cogliamo, potremmo sperare piano piano di riuscire a scorgere dei dettagli più esatti, più a fuoco, capaci di emergere dalla nebbia, consapevoli che la realtà non è mai tutta bianca o tutta nera. 

Anche Waco, su Paramount+, è una storia di zone grigie. Il protagonista, David Koresh, non è un personaggio da difendere. È un predicatore con deliri messianici, che tiene donne e bambini dentro un ranch in Texas, armato fino ai denti, convinto di essere la reincarnazione di Cristo. Ma se la sua figura è indubbiamente discutibile, nemmeno le forze dell’ordine sono eroi: l’FBI spara, mente, negozia male. Il confine tra vittime e carnefici si sgretola scena dopo scena. E il dubbio anche in questo caso cresce: chi ha provocato davvero il massacro? Cosa succede quando l’autorità si scontra con la fede, e nessuno vuole cedere? Come dice uno dei sopravvissuti: “A un certo punto, non sapevo più in chi credere. Ma sapevo che crederci mi faceva sopravvivere”. Certo, perché credere in qualcosa – di buono, di vero, di giusto – è una pulsione atavica dell’umano. Il dubbio non è solo una questione morale. È qualcosa che riguarda la nostra identità. Chi siamo, quando non possiamo più fidarci di nessuno? Quando anche Dio sembra stare dalla parte sbagliata? Quando ciò in cui credevamo si svela, perde la maschera, mostra tutte le sue crepe?

In queste opere non c’è un mostro, ma la mostruosità del nostro bisogno infantile di certezze, di sicurezze, di semplicità. E anche Evil, su Paramount+, si inserisce in questo filone, parte da questa premessa. La serie segue una psicologa, un prete e un esperto di tecnologia che cercano di distinguere ciò che è scientificamente spiegabile da ciò che è demoniaco. Ma più vanno avanti, più tutto si confonde. Il male non ha una forma precisa. È nei dettagli. Nell’ambiguità. Nell’inconscio. E alla fine, anche loro – come noi – restano con più domande che risposte. Il dubbio, in questo senso, non è solo un disagio. È una forma di resistenza. È ciò che ci salva dal fanatismo, dalla condanna cieca, dalla giustizia fatta di certezze assolute che rischiano di farci prendere degli abbagli deleteri. Ma è anche ciò che ci condanna all’inquietudine, al sospetto, all’ossessione continua per la verità, in maniera quasi nevrotica.

C’è una frase a effetto che torna più volte nel film di Shanley: “La certezza è un bene pericoloso”. È una frase potente, retorica, ma che sintetizza perfettamente tutta la storia, e la lotta che mette in scena, fatta di una sottile linea di confine che continua a spostarsi, a seconda delle tensioni che subisce. Viviamo in un’epoca che chiede posizioni nette: sei a favore o contro. Ci stai o non ci stai. O bianco o nero. Ma la verità – quella che ci riguarda davvero – è quasi sempre una sfumatura. Come diceva Cartesio, “Il dubbio è l’inizio della conoscenza”. Ecco perché Il dubbio è un film tuttora necessario. Perché non ci consola. Non ci dice come dobbiamo sentirci. Non ci dà un colpevole. Ci dice che la realtà ci chiama a metterci in discussione, e a mettere in discussione il mondo, solo così ci sarà possibile esercitare davvero, a pieno, e consapevolmente il nostro piccolo libero arbitrio, essere responsabili di ciò che facciamo. Il dubbio ci lascia con un grande senso di incompiuto, di peso, che però assomiglia alla libertà, quella libertà che si ha solo quando si smette di fingere che ci sia una sola rassicurante verità possibile.


Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Il dubbio” – il film di John Patrick Shanley con Meryl Streep, Amy Adams, Viola Davis e Philip Seymour Hoffman – e gli altri contenuti esclusivi.

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