Uno dei personaggi più interessanti de I Soprano, serie televisiva considerata all’unanimità come caposaldo del genere, è Christopher Moltisanti. Il nipote del protagonista, il boss Tony Soprano, incarna la linea diretta con la successione del potere all’interno della famiglia mafiosa del New Jersey: il legame di sangue, prima di ogni altra cosa, è l’elemento che unisce il passato con il futuro. Moltisanti, che rispetto allo zio viene da una generazione diversa, figlia della crisi dei valori familiari e unitari del passato – o almeno, così ci raccontano i protagonisti del clan mafioso che rimpiangono i vecchi tempi in cui si rispettavano padri e anziani – nutre delle ambizioni diverse, prodotte dall’ambiente in cui cresce, un’America in cui la mafia è rappresentata ed estetizzata grazie al grande cinema statunitense della New Hollywood. Il suo vero sogno, infatti, non è tanto diventare il boss forte e inscalfibile che dovrebbe essere Tony Soprano – che in realtà vive una crisi interiore talmente forte da ricorrere alla psicoterapia, motore narrativo della serie – ma, piuttosto, rappresentarsi come tale: Moltisanti, infatti, sogna di fare lo sceneggiatore di film sulla mafia italo americana.
Il rapporto tra la criminalità organizzata e il cinema è un tema complesso, e l’uscita del film Iddu – L’ultimo Padrino, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con il dibattito a seguito che ha generato – la mancata proiezione al cinema di Castelvetrano, le contestazioni sulla attendibilità del racconto – ne è un’ulteriore prova. È complesso perché tocca diversi punti, etici ed estetici, ed è parte integrante della narrazione mafiosa stessa; nel bunker di Matteo Messina Denaro, c’era appeso un poster de Il Padrino. Così come un personaggio de I Soprano incarna la pulsione verso la spettacolarizzazione e il riconoscimento dal mondo esterno, inteso come extra-criminale, ancora oggi il modo in cui si può attingere da un racconto di realtà per plasmarlo in un racconto di finzione genera una serie di interrogativi. È giusto dare eco a chi invece dovrebbe essere emarginato o ricordato solo in termini negativi? Raccontare un personaggio come Matteo Messina Denaro, soprattutto con un’interpretazione davvero ben riuscita come quella di Elio Germano, è un modo per rafforzare il suo immaginario o per demolirlo? Sono quesiti legittimi, dal momento che qualsiasi interlocuzione dialettica con l’arte presuppone uno scambio tra realtà e finzione che determina il senso stesso della rappresentazione. E sono domande che Iddu ha fatto riemergere, all’indomani della sua uscita, soprattutto per il fatto che si tratta di un film liberamente ispirato al personaggio del boss di Castelvetrano, latitante fino al 2023 e morto pochi mesi dopo la cattura.
Credere che sia l’arte a ispirare la realtà e non viceversa è un modo piuttosto miope di intenderla, che si tratti di un romanzo fantasy, un cartone per bambini o un lungometraggio che si basa su alcuni elementi biografici di un personaggio pubblico e controverso. Qualsiasi critica che parta da un’analisi materialista del testo deriva dal presupposto che tutto ciò che viene raccontato attinge dal reale, determinato dalle contesto storico, economico e sociale in cui viene concepito, al di là dei giudizi di valore sulla bontà o sulla cattiveria che si può intravedere in un personaggio. Ciò non significa che la scelta di raccontare la mafia non possa determinare la sua glorificazione, a livello di percezione dello spettatore o della criminalità stessa, anche quando i presupposti non sono quelli di esaltarla. Nel caso di Iddu però, più che sul tema dell’esaltazione, del racconto fedele o della manipolazione di una storia reale in cui sono coinvolte persone, vive e morte – o meglio, uccise – la sensazione è che la vicenda di Messina Denaro, reinterpretata in chiave romanzata, serva a qualcos’altro. Non è la criminalità organizzata a fare da protagonista, ma il male in sé. Il male come aporia, come elemento inestirpabile dall’umanità, sia nelle sue manifestazioni più esplicite che in quelle sommerse, inspiegabili e sotterranee, tenute nascoste da un nascondiglio e taciute dall’omertà.
La storia di Iddu, infatti, si struttura su due livelli di racconto. Da un lato abbiamo la classica contrapposizione di bene e male che avviene tra le istituzioni e la criminalità organizzata, nonché forse la parte più debole del film perché ricorda un topos già abbondantemente sfruttato nel cinema e nella televisione. L’ispettrice che ha come missione quella di catturare il boss e che si scontra non solo con l’impossibilità di farlo per la potenza della rete creata da Messina Denaro ma per gli ostacoli interni alle istituzioni stesse è un personaggio ricorrente del genere. Dall’altro, invece, ed è qui che il film diventa interessante, soprattutto nella forma in cui i registi hanno scelto di raccontare Matteo Messina Denaro e il mondo a lui circostante nella latitanza e nell’assenza, abbiamo il personaggio fittizio di Catello Palumbo, interpretato da Toni Servillo, ex sindaco del paese, appena scarcerato dopo anni di reclusione per concorso esterno in associazione di tipo mafioso.
La corrispondenza epistolare tra il boss e l’ex politico, che avviene esclusivamente attraverso i famosi pizzini che Messina Denaro usava per comunicare con l’esterno, vivendo di fatto come un recluso, non ripercorre fedelmente la vera storia di corrispondenza tra il criminale e Antonio Vaccarino, nome del sindaco di Castelvetrano che fu realmente coinvolto nella vicenda di Cosa nostra. Tuttavia, la verosimiglianza, in questo specifico tratto di Iddu è del tutto secondaria: il vero tema, a mio avviso, è infatti quello profondo e inconscio dell’ereditarietà della missione paterna, che nel caso di Matteo Messina Denaro, coincide perfettamente anche con una missione di malvagità. “Il pupo”, così come viene chiamato il boss, è il simbolo del suo rapporto con il padre ormai morto, un reperto archeologico prezioso che indica lo splendore del passato e che fa da staffetta tra le generazioni che si alternano, custodendo il messaggio che si portano di padre in figlio. Il potere, attraverso la violenza e il sacrificio anche degli innocenti – non a caso in un flashback il piccolo Messina Denaro sgozza un agnellino per suo padre – si porta avanti ad ogni costo. Ma Matteo Messina Denaro ha interrotto questo flusso, rifiutando di essere genitore a sua volta, restando per sempre figlio, o “pupo”, appunto.
In una sorta di rivisitazione dell’Amleto, che non a caso viene citato da Catello, ciò che Iddu ci racconta è un dramma shakespeariano che si consuma tra il passato e il futuro di una famiglia che ha fondato il suo potere sul male più puro e cieco. Un male così forte da interrompere persino la continuità familiare col rifiuto di paternità da parte del boss, una scelta che lo lascia senza eredi nel suo delirio di onnipotenza. Il male, infatti, si impara, si eredita e funge da codice interpretativo della realtà, tanto da costringere alla latitanza il protagonista – in un paradosso ontologico per cui Messina Denaro esiste senza esistere – pur di non rinunciarvi. “La malvagità appartiene all’uomo”, dice la canzone di Colapesce, parte della colonna sonora del film da lui scritta: credere che il male sia qualcosa di estraneo o qualcosa che si impossessa di noi è un errore. Matteo Messina Denaro, così come raccontato da Iddu, vive emozioni umane, esattamente come noi, dal dolore per la perdita di suo padre al calore nel trovare una figura sostitutiva in Catello. Ciò non lo rende migliore, giustificabile, perdonabile, al contrario, ciò rende il male con cui ha agito ancora più forte e devastante, proprio perché non viene da un diavolo o da qualche creatura immaginaria, ma da una persona.
Vista così, la storia di Iddu assume una prospettiva universale. Del paese in cui vivono i protagonisti, infatti, non si vede quasi nulla, il silenzio e la distanza dominano nell’atmosfera rarefatta di una Sicilia che non ha niente a che vedere con la rappresentazione cinematografica ed edulcorata di cui spesso è oggetto. Abusivismo, desolazione e ostilità sono elementi centrali del paesaggio, sia umano che geografico, e nel paese di Matteo Messina Denaro diventano la rappresentazione concreta del predominio mafioso. Le uniche tracce di bellezza, ossia i reperti storici di un antico passato di splendore, le vediamo all’interno di un museo che preserva artificialmente ciò che di buono può essere passato da un luogo che sappiamo essere Castelvetrano ma che potrebbe essere qualsiasi altra dimensione in cui a dominare sono stati la violenza, la prevaricazione e la paura.
È giusto chiedersi se è lecito parlare di personaggi come Matteo Messina Denaro in chiave cinematografica, così come è lecito porsi questa stessa domanda per qualsiasi personaggio o fenomeno legato alla criminalità organizzata, mafia, camorra o altro che sia, che si alimenta anche grazie al racconto di sé. Se Christopher Moltisanti, personaggio di finzione, aveva intuito il potenziale meta-narrativo dell’appartenenza a un mondo parallelo fatto di leggi e valori che esulano dai doveri e dall’etica del mondo civile, anche nella realtà boss e mafiosi sono stati spesso oggetto di rappresentazioni che, oltre a raccontarli, sono diventati simboli di ritorno per le loro stesse narrazioni di potere e sopraffazione spietata. Da questo punto di vista, per quante libertà si possa prendere un film come Iddu, credo che non ci sia il rischio di alimentare nessuna mitologia, anche postuma, di un personaggio che non va assolutamente dimenticato, per dovere nei confronti della storia. “La realtà è un punto di partenza, non la destinazione”, dichiarano i registi all’inizio del film: Iddu non è un documentario né un film biografico, ma un racconto di finzione che indaga ancora più a fondo in un pozzo di malvagità tristemente vera.