Sebbene nel 1999 il New York Times l’abbia definita “la più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo”, la serie tv I Soprano mi è stata per molto tempo indifferente. Conoscevo diversi fan delle avventure di Tony e famiglia, sapevo anche dell‘ultimo episodio dal dibattuto finale non finale, ma l’idea di mettermi a guardare l’ennesima saga sulla mafia italo-americana non mi aveva neppure sfiorato.
Da Il Padrino di Francis Ford Coppola, a Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, senza contare la tradizione del film gangster americano anni Trenta, il filone legal e quello commedia, mi sembrava si fosse già detto tutto il possibile sulle storie della malavita. Richard Gambino ha definito, nel suo Blood of My Blood: The Dilemma of the Italian-Americans, la “fascinazione degli americani per la mafia” non tanto come la ricerca del brivido della violenza, quanto l’idea di ordine della famiglia, vista come un gruppo capace di proteggere i suoi componenti: era per questo che, in una società confusa e incerta, in cui la maggior parte delle persone si sentono impotenti e sconfitte, il genere mafia story continuava a fare presa.
“Questo è l’omaggio che il resto dell’America paga alla magnificenza italo-americana: ci hai resi mitici,” scriveva Bill Tonelli, direttore di The Italian American Reader, per il New York Times nel 2001. Pochi anni dopo, George De Stefano era tornato sul tema e nel saggio An Offer We Can’t Refuse ne esplicitava anche lo stereotipo. Più che una mitizzazione si trattava di una romanticizzazione del fenomeno mafioso, una sorta di umiliazione autoimposta: “Spesso sono gli stessi italoamericani che scrivono, dirigono e recitano in questi film e programmi TV,” faceva notare De Stefano, “il che rende gli stereotipi italo-americani diversi da quelli su altri gruppi”. The Sopranos, sempre per De Stefano, si differenziava dagli altri. Presentando come tema centrale il declino della mafia e il personaggio di Tony come l’incarnazione tragicomica del classico padrino, I Soprano, a venticinque anni dalla loro comparsa televisiva (il primo episodio fu trasmesso dalla HBO nel gennaio 1999), hanno ancora molto da dirci, non solo sul modo in cui pensiamo al crimine organizzato di stampo italo-americano, ma anche sul motivo per cui valori di appartenenza, lealtà e controllo della propria vita si traducano ancora, per molte persone, nell’usare a proprio vantaggio le persone, senza farsi scrupolo di commettere dei crimini.
Tony Soprano non è solo un altro “cattivo ragazzo” le cui scelte vanno comprese perché non poteva fare altrimenti, un po’ come accadeva con l’eroe tragico per eccellenza, Michael Corleone. Non è neppure un “bravo ragazzo” sul genere di Henry Hill che lavora sporco, ma per guadagnarsi qualche extra per la famiglia mentre gli altri aspettano il sussidio di disoccupazione. Tony è un ipocrita violento piuttosto consapevole di esserlo. È il capo che ha guadagnato il proprio rango con astuzia, menzogne, tradimenti, dimostrando più volte di essere spietato. Più capace di empatia con delle anatre o con un cavallo che con una donna, Tony sfrutta e ridicolizza chiunque, manipola persino la moglie e i figli, uccide parenti, colleziona amanti, si concede ogni tipo di lusso e di vizio, esercita il suo ruolo fino alla fine. Questo però non lo rende mai completamente soddisfatto o felice perché desidera disperatamente una sola cosa, che non ottiene mai: sentirsi amato.
Giocando con un’altra tradizione televisiva americana, quella del padre di famiglia, lo sceneggiatore David Chase ha creato un personaggio estremamente intrigante perché scisso tra il ruolo di gangster spregevole molto somigliante ad Al Capone nella versione di De Niro e quello di Dan Conner, l’amorevole e ironico papà della serie Pappa e ciccia. A interpretarlo, James Gandolfini, morto a Roma nel 2013 all’età di 51 anni. “Avrebbe potuto rendere Tony incredibilmente malvagio,” ha spiegato Alan Sepinwall, critico televisivo di Rolling Stone e autore con lo stesso Chase e Matt Zoller Seitz di The Sopranos Sessions, “e sarebbe sembrato lo stesso un uomo qualunque che deve gestire dei problemi familiari”.
La capacità interpretativa di Gandolfini, il lavoro di sviluppo del personaggio, sono evidenti sin dall’episodio pilota, in cui Tony si mostra come l’uomo d’onore che comanda il New Jersey, ma non se stesso. Vorrebbe essere Gary Cooper, il prototipo americano dell’uomo forte, ma non lo è. Come tutti, si sente condannato a recitare una parte pur di essere accettato: quella del temuto capo-mafia. Ma in realtà, si sente un “clown triste” ed è attanagliato da ansia, depressione e forti attacchi di panico.
È per questo che cerca l’aiuto e il consiglio di una psichiatra, Jennifer Melfi, interpretata da Lorraine Bracco che, come altri 26 attori del cast de I Soprano, aveva già recitato una parte connessa all’universo della mafia. La dottoressa Melfi ascolta le risposte e le confessioni, e per un certo tempo è persino messa in dubbio: da un lato è affascinata dal suo paziente e dalla sua storia, dall’altro rifiuta le sue attenzioni anche quando un “amico” come lui farebbe assai comodo. Si sente in obbligo nei suoi confronti, ma come psichiatra, come italo-americana o come cittadina onesta? Mano a mano che la serie prosegue, tutti i personaggi, coinvolti a vario titolo nelle vicende criminali e familiari di Tony, sembrano chiedersi: è giusto vivere così? Fa bene a me e ai miei figli? Come mi giudicherà, se non la società, Dio? Cosa ci guadagno?
Questo genere di interrogativi è tipico di Carmela Soprano, la moglie del boss interpretata da Edie Falco – che si è meritata il tributo del New Yorker – sempre in bilico tra confermare lo stereotipo della donna di origini italiane sottomessa e ingioiellata e mimare quello della madre di famiglia indipendente e attenta al denaro. In realtà, tutti i personaggi de I Soprano sognano costantemente di essere altro, ma scoprono che anche quando hanno l’occasione di cambiare grazie al denaro guadagnato in attività non proprio pulite, la loro situazione non muta. Christopher Moltisanti, la leva più giovane del clan, vorrebbe fare lo sceneggiatore, ci riesce, ma questo non lo aiuta né gli fa cambiare vita e destino. Idem per la sua ragazza, Adriana La Cerva, che sogna di diventare produttrice musicale, o per Big Pussy Bonpensiero che vorrebbe essere un agente Fbi e immagina un ruolo da infiltrato. Persino Janice Soprano, la sorella di Tony, che è scappata di casa per inseguire il sogno hippie, non sposta se stessa di un millimetro in termini di emancipazione. Anche personaggi secondari come quello di Vito Spatafore, capomastro obeso e corrotto che nasconde la sua omosessualità, la cui storia è ispirata a un fatto realmente accaduto, pur avendone la possibilità non riesce a vivere una vita diversa: il problema non è, infatti, il suo orientamento sessuale represso ma il suo essere mafioso. Chiunque è infelice, anche chi è stato in carcere e ne è uscito socialmente ripulito, perché deve arrendersi all’ineluttabile: finché si resta nella dinamica mafiosa, finché si accettano le sue modalità e se ne condividono i vizi approfittando dei vantaggi si ritorna o si resta in famiglia e vale la regola de Il Padrino III: “Tutte le volte che ne esco, quelli mi ributtano dentro!”.
I Soprano ha cambiato le regole della televisione americana, ha segnato, anche e soprattutto in Italia, il passaggio dalle serie americane “bene di lusso” trasmesse in piena notte e a distanza di mesi, al binge watching da streaming. È stato uno dei serial preferiti dai telespettatori statunitensi, tra i più sottovalutati in Italia e di sicuro il più criticato dalle organizzazioni italo-americane. Ma più di altre opere, si è rivelata la serie che ha spogliato dall’epicità e dal mito la narrazione sulla mafia italo-americana, superando per certi versi anche i film pietra miliare del genere. I personaggi non sono macchiette che commettono orrendi crimini, parlano tra di loro in maniera sguaiata, mangiano ziti al forno e si sparano a vicenda per mantenere saldo il potere: sono invece dei miserabili perché hanno la consapevolezza che essere criminali o loro complici non migliora la loro esistenza, anzi, la rende claustrofobica. Le loro vite, a ben vedere, sono estremamente mediocri: non trovano soddisfazione sfuggendo alla legge o a un agguato di un clan opposto o facendo soldi senza essere in grado di goderseli. Possono dirsi placati solo in un momento di calma tra figli che crescono, mogli sempre meno innocenti, madri narcisiste, sorelle, fratelli, cugini e nipoti.
Le motivazioni e gli ordinamenti di Cosa Nostra sono subìti e spesso oscuri: i vecchi finiscono per dimenticare la storia anche se ne hanno fatto parte, come nel caso di Junior Soprano. Le nuove generazioni, pur vivendo nell’organizzazione, devono cercare informazioni online, come nella scena in cui Meadow, la figlia adolescente di Tony, si trova a spiegare di Al Capone e di John Gotti al fratello. Intanto, il loro padre, il boss feroce che si chiede costantemente dove sono finiti i bei tempi, in uno dei momenti cult della serie, non spara, non ammazza, non vince ma, come in un film di Fellini, sogna di essere un altro: l’anonimo signor Finnerty che vuole semplicemente tornare a casa. Perché non c’è niente di mitico o di bello, di epico, nell’essere un boss né ci si risparmia qualche pena: la vita da capo della mafia fa schifo, esattamente come la vita degli altri. E allora, tanto valeva essere onesti.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta l’11 aprile 2019