“I dannati” ci mostra che spesso non siamo solo vittime o solo carnefici, ma molte cose nel mezzo - THE VISION
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Non è mai tutto bianco o tutto nero, si dice, ed è vero, la realtà è composta da moltissime sfumature di grigio. Durante la guerra di secessione americana, tra il 1861 e il 1865, questa zona grigia, appunto, era caratterizzata non tanto dai cosiddetti stati cuscinetto attraverso cui passava il confine che divideva Nord e Sud, Unione e Confederazione, ma da tutti quegli stati, al centro del continente, che semplicemente all’epoca non erano ancora Stati, tra cui il Montana, il più al centro e il più a Nord del Paese, al confine col Canada. È tra le sue montagne che Roberto Minervini ha ambientato il suo ultimo film, I dannati, con cui ha vinto il premio alla miglior regia all’ultimo festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard.

Minervini è grande regista, assolutamente sui generis, di documentari, e anche in questo caso, pur essendo al suo primo film totalmente di finzione, alcuni meccanismi del documentario ritornano. È evidente infatti che il film sia stato girato in maniera spontanea, come una lunga improvvisazione teatrale. Nell’inverno del 1862, in piena guerra di secessione, una compagnia di volontari viene inviata a perlustrare e presidiare le terre selvagge e inesplorate. Minervini ha fatto realizzare un set in Montana, per poi lasciare che gli attori si calassero nei panni dei loro personaggi, le divise dei soldati della guerra civile, appunto, per due mesi, seguendo psicologie e linee narrative, e immedesimandosi, vivendole. Per questo la pellicola, pur dallo stile peculiare, ha qualcosa della vita vera, di quegli sprazzi di senso abbacinanti che emergono dalla nebbia dell’abitudine, dalla monotonia dell’esistenza, sprazzi innescati dall’incontro con gli altri, in questo caso uomini, maschi, di diverse provenienze ed età.

I western, d’altronde, non sono cose da femmine. Nemmeno gli eserciti (la prima volta nella modernità in cui le donne presero attivamente parte in una guerra fu nell’esercito sovietico durante il secondo conflitto mondiale). Eppure in tante coi western ci siamo cresciute, perché li guardavano in tv al pomeriggio i nostri nonni. Ci siamo immedesimate in quegli uomini, abbiamo cercato di ispirarci ai tratti che preferivamo di quei personaggi. Film in bianco e nero, voci gracchianti, e quei panorami sconosciuti, che vedendo certe colline sarde con uno spruzzo di nuvole sul cielo turchese ustionante abbiamo poi subito ricordato come familiari. I western, dicevo, ci hanno cresciute. E molti western erano ambientati negli anni della guerra civile americana, che oggi, a pochi mesi dal voto, riportano l’attenzione su un Paese spaccato, come all’epoca; un paese in gran parte razzista e che appoggia le sue fondamenta sul colonialismo, nonché sul genocidio dei nativi, un paese fondato sull’allevamento e lo sfruttamento del bestiame (centrale in un altro grande film di Minervini, molto affine a quest’ultimo, Stop the Pounding Heart), così come sulla Bibbia, e sui suoi insegnamenti opprimenti e assoluti. Dio, in America, è ovunque. 

Come cantava Francesco De Gregori, altro italiano con gli occhi rivolti a ovest, nel 1976 (durante i nostri anni di piombo) in “Bufalo Bill”: “Il verde brillante della prateria / dimostrava in maniera lampante l’esistenza di Dio / del Dio che progetta la frontiera e custodisce la ferrovia”. I dannati si sviluppa intorno alla fede, religiosa e laica, a quante cose si possa credere, a quante illusioni è possibile resistere e rialzarsi, cosa ci muove, cosa ci spinge a mettere in gioco la nostra stessa vita, la cosa più preziosa che abbiamo, la proporzione tra singolo e gruppo, tra valori e cause. I dannati lo sono perché sono i primi (in avanscoperta), e gli ultimi al tempo stesso, quasi in una grottesca ripresa del famoso “Gli ultimi saranno i primi”. I primi sono dunque dimenticati nel nulla, i rinforzi hanno altre battaglie da combattere, sono lontani. I nostri sono soli, in attesa del pericolo, che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Non sono soldati esperti. Sono vinti, anche i più esperti, i più preparati, glielo si legge negli occhi. Sono uomini con una crepa, una fessura, che è impossibile non amare in maniera viscerale, sono perduti, hanno solo se stessi, aspettano che la vita si abbatta su di loro, senza pietà. Così simili agli animali, ai loro cavalli, ma anche ai lupi.

Minervini, anche nella finzione, continua a portare avanti la sua personale contronarrazione degli Stati Uniti. Affrontando con estrema purezza e semplicità l’assurdità della guerra, e della violazione del primo comandamento: non uccidere. E senza spostare di una virgola il suo sguardo. Dà vita così a un western introspettivo, intimo, in cui gli attori appaiono sul paesaggio, dietro di loro tutto è sfumato, sconfinato. La colonna sonora paradossalmente lascia emergere il silenzio invernale, pur essendo presente e mai didascalica, fino alla fine del film, una sorta di pensiero sonoro, di respiro sonoro, capace di trasportare emozioni tra la nebbia, gli alberi, la brina, le radici, tra gli spari degli schioppi. Questi uomini vinti, nel freddo, sperduti, di Minervini, sono uomini bellissimi, emozionanti, senza risposte. Uomini di fronte all’ambiguità del reale, alla sua immensa sfaccettatura, posti dinanzi alla loro piccola misura.

Questo film mi ha fatto venire in mente le parole di Primo Levi, in quel capitolo de I sommersi e i salvati intitolato proprio “La zona grigia”: “È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare”. In questo capitolo Levi affronta il coinvolgimento dei prigionieri del lager con i loro carnefici, le forme di compromesso attraverso cui alcuni sono riusciti a sopravvivere nel campo di sterminio. Lo scrittore critica la tendenza manichea a dividere tra bene e male, buoni e cattivi, vittime e carnefici, senza considerare tutte le forme intermedie della vita, della violenza, delle relazioni, che invece fanno il reale.

E mi sembra sia la stessa interrogazione portata avanti da Minervini e dai suoi attori. Vale la pena uccidere per imporre i propri ideali, per quanto giusti essi siano? Vale la pena fare la guerra? Quando spari a qualcuno, anche in risposta, stai facendo la stessa cosa, compiendo la stessa aggressione. Certo, si parla di legittima difesa, ma come conseguenza ha la morte di qualcuno. Non uccidere. Ce lo ha detto anche Dio. Ma è solo il quinto dei comandamenti. Prima, tra gli altri, onora il padre e la madre, le tue radici. Ma Dio, esiste? Per sperare di salvarsi, da questa assurdità del mondo, delle terre selvagge, l’unica cosa possibile pare essere l’avere una buona, mira, e quindi una buona vista, e di conseguenza sapersi orientare, anche quando non sembrano esserci punti di riferimento, esercitare la comprensione delle forme della natura, e poi – soprattutto – avere un buon compagno, leale, capace, di guardarci le spalle, o di aiutarci a salire una montagna, per andare oltre un crinale che sembrava irraggiungibile.

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