“Hanami” ci ricorda che partire non sempre significa non avere a cuore ciò che si lascia dietro - THE VISION
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Nonostante le narrazioni politiche attuali che demonizzano il fenomeno migratorio, ma solo quando non siamo noi a partire, spostarsi, trasferirsi, cambiare luogo non è mai sbagliato, è un movimento innato. Anzi, la migrazione ha costituito – e costituisce tuttora – un aspetto fondamentale, strutturale e costitutivo della specie umana e della sua evoluzione perché modificando l’ambiente e le abitudini finiamo per cambiare le pressioni selettive presenti e future e, quindi, per garantirci condizioni di vita migliori. Le forme del migrare mutano, ma sono sempre esistite: immigrati ed emigranti, schiavi e salariati, stranieri e barbari, profughi e deportati, commercianti e viaggiatori. Libertà di partire, diritto di restare. Libertà di migrare altrove, diritti umani in patria. Eppure nella società contemporanea si assiste a una sempre maggiore disparità nella distribuzione anche della libertà di trasferirsi in altre zone del mondo rispetto a quella di origine. In questo senso vengono meno entrambi i diritti, di migrare e di restare: il primo diventa una forzatura, al secondo non è possibile adempiere. Eppure partire, per quanto sia una tematica sempre più strumentalizzata, non è sempre un atto semplice per chi lo compie. A volte ci libera, ci permette di espanderci, altre volte ci toglie qualcosa, richiede una trasformazione. E non solo in noi, ma anche in chi resta. Ed è proprio questa una delle sensazioni più potenti che emerge da Hanami, film di Denise Fernandes premiato per la migliore regia al concorso Cineasti del presente dell’ultima edizione del Festival di Locarno e che sarà proiettato venerdì 21 febbraio alle 20:30 al Cinema Godard di Fondazione Prada, a Milano. Alla proiezione seguirà anche una conversazione tra la regista e Daniela Persico, membro del comitato di selezione del Festival di Locarno.

C’è una scena, verso l’inizio di Hanami, in cui Nana, la protagonista, si trova su una spiaggia insieme ad altri bambini della sua età, mentre un gruppo di volontari gli racconta la storia delle tartarughe marine, una specie in cui sono soprattutto le femmine a essere grandi migratrici. Tornano sempre sui lidi in cui sono nate, per deporre le uova. Per farlo, però, devono superare diversi ostacoli, come imparare a riconoscere la differenza tra una medusa e una busta di plastica, perché anche se a cacciarle possono essere solo orche e squali, la più grande minaccia per la loro vita, senza troppe sorprese, siamo noi esseri umani. Se ci riescono, tornano sempre. E i loro cuccioli affronteranno le stesse sfide delle madri. È un ciclo che a Nana risuona molto, perché dalla remota isola vulcanica su cui si trova, anche sua madre, come una tartaruga, se n’è andata poco dopo la sua nascita, alla ricerca di una vita migliore. Così Nana, come in un rituale sacro, viene passata da subito di mano in mano, attraverso una lunga catena di donne. È un gesto che rivela tutto l’amore, la cura e l’energia femminile che accompagneranno questa bambina nella sua crescita, anche se lontana dalla madre. E non sono solo le donne: Nana, come ognuna di loro, viene abbracciata dall’isola stessa, che nel film di Fernandes è una presenza tangibile e accudente, tenera e dura, capace di influenzare e riflettere le emozioni di chi la abita.

Nana è una bambina sensibile, soggetta a febbri alte. Il processo di guarigione la spinge verso l’entroterra dell’isola di Fogo per incontrare una guaritrice che può aiutarla. Il viaggio – come ogni viaggio – è anche una sorta di portale: avvicinarsi al vulcano significa avvicinarsi a una terra affascinante che risveglia la sua immaginazione, permettendo alla storia di entrare in uno spazio più magico e surreale, in cui fantasia e realtà si intrecciano e si alternano alimentandosi reciprocamente. Nel diventare adolescente, Nana cambia come cambia la storia, diventando più lineare e realistica. La ragazza deve confrontarsi con i “ritorni”, tra cui quello della madre, che sollevano nuovi interrogativi e rendono più incisivi quelli già presenti. Mentre Nana cresce e le persone che sono partite dall’isola vi rientrano, infatti, la domanda che la tormenta da sempre si fa più pressante: dovrebbe restare o partire? La risposta, nella sua semplicità, è sorprendente, perché nelle dicotomie con cui siamo abituati ad analizzare il mondo tendiamo a cancellare la realtà dell’esperienza umana: partire non sempre significa non amare, e restare non necessariamente vuol dire non sognare. Il film, infatti, pur essendo profondamente legato alla poesia della vita quotidiana e allo spiritualismo di Capo Verde e di gran parte dell’Africa occidentale, affronta anche il problema concreto di vivere in un luogo che non è necessariamente in grado di sostenere la realizzazione di alcuni sogni con facilità.

Attraverso gli occhi di Nana, Fernandes omaggia la terra d’origine dei propri genitori:  un luogo magico, dove i limiti imposti all’agricoltura dalla scarsezza di precipitazioni e la difficoltà di diversificare l’economia hanno spinto gli abitanti a emigrare in altre parti dell’Africa, in Brasile, negli Stati Uniti, così come nei Paesi europei. “Crescendo in Europa, ho notato che Capo Verde veniva spesso omesso dalle mappe del mondo a causa delle sue piccole dimensioni”, racconta la regista. “Ho avuto la sensazione di provenire da un paese che non esisteva al di fuori delle mura di casa mia”. Hanami è così il tentativo di rendere visibile ciò che fa fatica a emergere, che resta al di fuori dello sguardo e delle conoscenze più tradizionali. Per questo la pellicola nasce soprattutto dalle storie e dalle esperienze che sono universali nella vita di molti capoverdiani. Spesso, chi parte sogna di tornare e chi resta sogna di partire. Lasciare il proprio luogo, infatti, è sempre più spesso una forzatura, a volte un desiderio, certo, ma ciò che ci muove è anche la necessità di sognare più in grande, di trovare contesti migliori, di poter dare un futuro non solo a noi stessi, ma anche a chi lasciamo indietro, per motivazioni che sono più grandi di noi. Il viaggio, in questo senso, diventa una prova di fedeltà più che di distacco. Chi parte non dimentica le proprie radici, ma impara a portare con sé la propria storia, adattandola a un nuovo contesto.

Esplorando temi legati alla crescita, al dilemma dell’emigrazione e al legame con il proprio Paese, Hanami amplia i confini, rendendoli eterei, al contrario di come sono nel mondo in cui viviamo, sempre rimarcati e ben definiti. Lo fa a partire dal titolo stesso, Hanami appunto, una parola giapponese con cui esprime il desiderio di far incontrare mondi diversi ma che in questo caso è anche un ossimo, considerate le lunghe siccità che colpiscono Capo Verde. Il termine, infatti, è composto da hana (花), “fiori”, e mi (見), che sta per “guardare”, “osservare”, e significa letteralmente “guardare i fiori”, sottintendendo la millenaria tradizione nipponica dell’andare per parchi e giardini ad ammirare la struggente fioritura dei ciliegi. Un concetto che rimanda alla caducità degli anni che passano, delle scelte che si susseguono e della bellezza del mondo, così effimera che ci sembra sempre irraggiungibile. “È il suono di un altro mare”, dice Nana da adolescente mentre in una casa abbandonata porta all’orecchio una conchiglia trovata sul davanzale di una finestra. E forse sta tutto qua ciò che cerchiamo quando ci chiediamo “dove sia il mondo bello”, e come faccia a esserlo: accorgersi una mattina di un giorno qualunque che è in realtà ovunque, attorno a noi, nelle cose che abitiamo e in quelle che sono altrove e che forse, o forse no, un giorno potrebbero essere anche nostre.

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