“La grande abbuffata” è ancora la metafora nauseante del consumismo corrotto della nostra società - THE VISION

Omar Palermo era uno youtuber di quarantadue anni. Il suo canale, YouTubo Anche io, ha più di 800mila iscritti e un totale di 88 milioni di visualizzazioni ai suoi video. Nell’agosto del 2021, dopo una lunga sparizione che ha portato la grande schiera di fan a domandarsi dove fosse finito, si è scoperto che Omar Palermo era morto di infarto. YouTubo Anche io era un canale in cui si vedeva una persona sovrappeso che mangia senza sosta qualsiasi tipo di alimento. Decine di merendine, chili di gelato in vaschetta, “il pollo di rinforzo” era il suo grande cavallo di battaglia, pietanza che consumava interamente dopo aver finito un’abbuffata di dolci. Le cause della morte di Palermo non sono state chiarite del tutto, ma il lento suidicio, volontario o involontario che fosse, di questa persona che ha usato YouTube come se fosse un tavolo e i suoi spettatori come se fossero centinaia di migliaia di commensali si può ancora osservare sulla piattaforma. 

Non è un caso isolato, tutt’altro. Esiste una vera e propria galassia di content creator che basano la loro intera carriera sulla pubblicazione di video in cui si ingozzano di cibo fino a scoppiare – il termine tecnico è mukbang, una parola coreana – sulla falsariga di storici programmi come Man Versus Food, ma con una componente solitaria molto più disturbante e incontrollata, oltre che domestica. Nel 1973, Marco Ferreri racconta nel suo film più celebre qualcosa di molto simile al fenomeno mukbang, in una versione lungimirante e profetica del rapporto tra l’uomo contemporaneo e il cibo. La grande abbuffata, lungometraggio che divise la critica e che ha superato qualsiasi ostacolo temporale rimanendo un film di culto della cinematografia italiana, assume un nuovo significato se lo si guarda con la luce del presente. E la cosa più interessante è che la stratificazione dei suoi significati – nonostante partano da un’idea di base piuttosto semplice, un suicidio collettivo praticato con un’abbuffata senza fine – diventa sempre più fitta mano a mano che passano gli anni. 

Il primo livello di lettura di La grande abbuffata, produzione italo-francese che venne presentato alla ventiseiesima edizione di Cannes, è quello legato alla noia e all’insoddisfazione ingorda dei suoi protagonisti. Già il cast di questo film si presenta come una composizione di personalità e di voci emblematica per gli anni in cui è stato girato: Michel Piccoli, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret. Quattro volti centrali, simbolici di un’epoca appena conclusa, ossia quella dello splendore cinematografico di Italia e Francia; non è casuale, infatti, che tutti e quattro conservino i loro nomi anche nel film, sottolineando la sovrapposizione tra personaggi e personalità pubbliche ben note agli spettatori del tempo, nonché a quelli contemporanei. La trama de La grande abbuffata si articola in modo centripeto: tutto spinge verso una progressiva chiusura nei confronti del mondo fuori che lentamente svanisce, così come svaniscono anche le peculiarità sociali ed economiche che ogni personaggio porta con sé.

Ognuno di loro, infatti, trascina all’interno di un set chiuso, ambiente che ricorda una messa in scena teatrale, la villa dentro cui cresce il tiglio di Boileau, il proprio bagaglio etico ed estetico, in un fine teleologico che conduce alla morte scelta in modo deliberato. Ugo Tognazzi – che nel ruolo di Ugo porta una sua reale passione, quella della cucina – interpreta il proprietario di un ristorante: durante le giornate in cui i protagonisti non interrompono mai il consumo di cibo, si cimenta in opere culinarie che confinano con l’architettura per la loro complessità. Marcello Matroianni invece, interpreta il ruolo di un pilota Alitalia, e anche lui, come Tognazzi, porta in scena un tratto tipico del suo carattere pubblico, quello che lo vuole grande appassionato di donne e di sesso. Michel Piccoli è invece un produttore televisivo divorziato e appassionato di danza classica, mentre Philippe Noiret è un magistrato che vive in un rapporto simbiotico con la sua balia. Il punto che lega questi quattro personaggi, oltre al desiderio di morte che li porta a ritrovarsi in quella villa, è lo spirito cinico e allegro, surreale, con cui affrontano l’incontro, in un climax di disperazione che si maschera di risate grottesche e angoscianti.

Cibo e sesso passano così dall’essere sottofondo dell’incontro, scandito da una colonna sonora con un motivo che tiene il tempo del racconto, al fagocitare gli stessi protagonisti divorandoli nei loro vizi. L’ambiente casalingo si trasforma in una versione decadente e volgare di un banchetto petroniano come la cena di Trimalcione del Satyricon e la sensazione del gonfiore e della pesantezza che li trascina in questa performance macabra di goduria riempie le stanze fino a farli scoppiare, anche letteralmente, come nel caso di Michel, che viene stroncato da un attacco di flatulenze. L’unico apporto esterno arriva dalla presenza di una maestra, Andrea, una donna giunonica e godereccia che si assume il ruolo di aiutante sia a livello gastronomico che sessuale: come sottolinea il critico Goffredo Fofi nell’analisi del film, i personaggi femminili di Ferreri, a differenza di molti altri suoi colleghi del tempo, non sono mai rappresentati con misoginia o distacco. Andrea diventa infatti una figura centrale per la conclusione della missione collettiva, godendo a sua volta del tripudio luculliano e opulento in cui i quattro decidono di affondare la propria esistenza infelice e insoddisfatta senza però sprofondare nel baratro della morte.

Infelicità e insoddisfazione, frustrazione e noia, sono ovviamente le cause principali che portano questi amici alla decisione di compiere un suicidio condiviso. Le ragioni personali, attribuite a vari fattori, come un divorzio o un rapporto problematico con l’altro sesso, un’eccessiva libido insaziabile o una depressione, sono quelle che ci fornisce il regista come quadro immediato di ciò che avviene nella villa della Grande abbuffata. Ciascuna di queste ragioni però, per quanto soggettive e legate a trame individuali che ci vengono accennate all’inizio del film e che poi si sviluppano componendo la personalità dei protagonisti, rappresenta anche una metafora della società all’interno di cui si muovevano. La critica di Marco Ferreri alla sovrabbondanza borghese, così tanto arrovellata su sé stessa e sui suoi problemi da potersi concedere una morte per eccesso, invece che per sottrazione, è evidente in ogni gesto dei suoi personaggi. 

L’inizio degli anni Settanta, ossia il decennio in cui da dopo la seconda guerra mondiale cominciano a esserci le prime recessioni dopo vent’anni di crescita – ciò che in Italia si traduce negli anni di piombo – e dopo le contestazioni di fine anni Sessanta, è il periodo che segue la grande festa del boom economico. La società del consumo affonda le sue radici in quel preciso momento in cui il risveglio del benessere pervade non solo l’Italia, ma tutto il mondo occidentale, in una smania di possesso e di spreco che era possibile solo in quella precisa finestra di tempo. Non è un caso, infatti, che gli anni Sessanta sono anche gli anni delle contestazioni allo stesso modello borghese che dominava, non solo da un punto di vista economico ma anche sociale, con le rivendicazioni femministe e giovanili che affiancano le lotte operaie. La doppia faccia della ricchezza occidentale, da un lato quella illusa di non avere limiti e proiettata verso un futuro radioso, dall’altro quella della coscienza collettiva che si oppone ai vecchi modelli di sfruttamento e di subordinazione che consentivano solo a un certo tipo umano di godere di tanta abbondanza. Un tipo umano che, non a caso, coincide esattamente con i quattro amici raccontati da Ferreri, tanto stanchi del loro avere tutto che preferiscono non avere nulla.

La forza delle immagini di La grande abbuffata rimane vivida a distanza di cinquant’anni non solo perché racconta con una metafora precisa il disagio della sovrabbondanza e dello spreco, che si concretizza in una visione grottesca e nauseante. Il senso di sazietà che spinge i protagonisti a ingozzarsi fino alla costipazione mortale è in qualche modo sovrapponibile anche ad altri aspetti della società sia passata che contemporanea: la corruzione politica, l’alternanza di classi dirigenti che sembrano avere come unico scopo quello di divorare le risorse economiche e sociali di cui dispone il nostro Paese. “È tutto un magna magna”, si dice nelle conversazioni da bar, attribuendo alla politica il ruolo di consumatore privilegiato e ingordo di ciò che si crea all’interno di un sistema in cui il cittadino vive passivamente il ruolo di spettatore intorpidito. Non è un caso che il parallelismo con il cibo, e la disuguaglianza con cui si dispone delle risorse, sia che si tratti di piatti a tavola che di beni pubblici, abbia una corrispondenza retorica così immediata. 

L’elemento più recente di analisi che si aggiunge a La grande abbuffata, e probabilmente non l’ultimo, è quello che ci riporta a personaggi come Omar Palermo. Se negli anni Settanta era la classe dominante, borghese e colta, a fare del cibo uno spettacolo mortale, nel presente questa cosa si è ribaltata. “In Italia spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi”, ha dichiarato il ministro Lollobrigida in una delle sue numerose uscite di dubbia credibilità. Piuttosto, se fino a un certo momento della storia dell’uomo erano le classi meno abbienti a soffrire la fame, e dunque la sovrabbondanza era associabile solo a chi poteva disporre di quantità così ingenti di cibo da poterlo sprecare, oggi la situazione è molto diversa. Il consumo costante e capillare delle merci, non solo alimentari, prodotte a basso costo e con scarsa qualità, ha fatto sì che anche il cibo diventasse l’emblema del benessere occidentale diffuso. Il fenomeno dei content creator che utilizzano quantità enormi di alimenti per potersi esibire di fronte a una telecamera è direttamente collegato al consumo di cibo spazzatura: challenge con nuggets di pollo, litri di Coca Cola, quintali di dolci industriali. La democratizzazione dell’abbondanza, proprio quella raccontata da Marco Ferreri, ha come conseguenza diretta non la redistribuzione di ricchezza e di qualità, oltre che di coscienza non solo di classe ma anche della propria salute, ma la diffusione di una cultura del consumo immediato e perenne. Se prima erano i borghesi annoiati ad avvelenarsi nell’eccesso, oggi possiamo vedere chiunque mangiare fino a stare male in un rito anestetico e in una celebrazione del cibo che non ha mai raggiunto vette simili tra programmi televisivi a tema, serie televisive, mito dell’alta cucina e ristorazione che si espande a macchia d’olio in tutte le città. La grande abbuffata di Marco Ferreri, vista da questo punto di vista, sembra una profezia perfetta e inquietante.

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