
Nonostante il periodo di crisi – economica, sociale, relazionale, politica – che stiamo vivendo, in cui sembra non ci resti più molto da perdere, ho la percezione che a livello collettivo resti inespresso un desiderio che è sempre molto difficile da formulare: il nostro bisogno di consolazione, di sapere che tutto, o almeno una parte, a un certo punto andrà meglio. Ciò avviene anche, lo capisco, proprio in virtù degli eventi traumatici che ci accadono attorno, come un meccanismo di difesa che ci impone di non lasciarci guardare davvero. Come scrive la drammaturga francese Yasmina Reza in Felici i felici, infatti, tra tutti gli imperativi che possiamo pretendere dalle persone che abbiamo attorno “Consolami!” è il più difficile, perché sembra che non sappiamo più accogliere le debolezze dell’altro, così come mostrargli le nostre. E soprattutto perché è un rischio non da poco quando non concepiamo la possibilità di affrontare anche le nostre emozioni negative, nell’obbligo alla positività in cui siamo immersi.
Eppure, mi sembra, che ci sia stato un momento, durante la pandemia di Covid-19, in cui siamo riusciti a verbalizzare questo desiderio. Forse perché la paura e l’isolamento erano più grandi di ogni cosa. Ed è proprio a questa sensazione che mi ha rimandato Grand Theft Hamlet, il documentario interamente diretto da Pinny Grylls e Sam Crane all’interno del videogioco Grand Theft Auto Online, dove cercano di mettere in scena una versione originale dell’Amleto di Shakespeare, disponibile in esclusiva streaming su Mubi. Quasi un paradosso se pensiamo al contrasto con la violenza dell’ambiente che caratterizza il gioco, o forse proprio perché il suo essere pervasiva sembra rendere la missione impossibile, e quindi il bisogno di raggiungere a tutti i costi l’obiettivo estremamente disperato, umano, sincero.
È il gennaio 2021 quando il Regno Unito è appena entrato nel terzo lockdown, durante la pandemia di coronavirus, e tutti i teatri, come in Italia, sono costretti a chiudere. Sam Crane e Mark Oosterveen, due attori, non riescono a vedere che un futuro cupo davanti a loro. Prima di quel momento, raccontano di aver vissuto con il massimo dell’ottimismo: Oosterveen lavorava tra teatro, televisione e cinema; Crane era stato appena scritturato per una parte in grado di cambiargli la vita nella produzione londinese di Harry Potter e la maledizione dell’erede; e sua moglie, Pinny Grylls, si trovava di fronte a promettenti prospettive di carriera. Con il prolungarsi della chiusura, Mark, che vive da solo, si sente sempre più isolato, mentre Sam è in preda al panico su come riuscire a mantenere la famiglia. Per sfogare la frustrazione e trovare un po’ di consolazione, fanno quello che abbiamo fatto in molti in quel periodo: si immergono cioè nel mondo virtuale, trovando un palliativo alla mancanza di connessioni del mondo fisico.
Nel loro caso, più che i social, è il videogioco Grand Theft Auto Online, tanto violento quanto ampio da esplorare e visivamente stimolante. Rubano auto, sparano a sconosciuti, guardano il mare da una scogliera o passeggiano calmi tra distese di fiori selvatici. Poi, mentre i loro avatar cercano di evitare di essere colpiti, mutilati o pestati nel tipico stile di GTA, correndo attraverso il paesaggio urbano di Los Santos – la quasi-Los Angeles in cui si svolge il gioco – si imbattono per caso nell’anfiteatro abbandonato del Vinewood Bowl e da lì nasce un’idea: mettere in scena Amleto all’interno del gioco, documentando la realizzazione dell’obiettivo grazie all’esperienza di Grylls. Per farlo, serve reclutare altri giocatori per interpretare i vari ruoli, con i loro outfit e nickname stravaganti, mentre si muovono in quel mondo sospeso recitando le battute nei propri microfoni. “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia per la sua ora sul palco e poi non se ne sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e furore, senza significato”, recita Mark questa volta dal Macbeth prima di venire colpito da una raffica di proiettili. Ed è un inizio perfetto.
Il risultato è involontariamente esilarante, caotico e imprevedibile, ma anche estremamente originale e capace di toccare tematiche molto personali e attuali. L’idea di convincere i giocatori di Grand Theft Auto a fare qualsiasi cosa che non sia rapinare e uccidere è di per sé già un’impresa, e Grand Theft Hamlet riesce a catturarla in tutta la sua violenta assurdità. Le prove vengono regolarmente interrotte da giocatori armati di lanciarazzi o da poliziotti che crivellano di colpi gli attori mentre cercano di recitare monologhi intensi. Los Santos incentiva comportamenti devianti che Sam e Mark non possono mettere in pausa né evitare, quindi possono solo imparare ad adattarsi agli imprevisti. Il documentario riesce così a bilanciare una delle tragedie più cupe di Shakespeare con un’inaspettata comicità. La violenza intrinseca a GTA porta per esempio alla brusca interruzione di una prima prova quando un altro giocatore virtuale lancia un razzo contro il palco. “Se posso chiedervi gentilmente di evitare di uccidervi a vicenda,” commenta Crane con tono impassibile. Ed è sicuramente la prima volta che una prova di Amleto viene interrotta da un alieno nudo che non smette di scaccolarsi e borbottare di droga, o dall’intero cast che precipita da un dirigibile nel bel mezzo del terzo atto. “The show must go on” assume totalmente un nuovo significato e lo stesso vale per l’idea che tutto il mondo è un palcoscenico. Come dice uno degli interpreti principali, questo è Shakespeare con un budget da un miliardo di dollari.
Per partecipare e inseguire il proprio sogno di recitare, senza particolari ostacoli, era sufficiente avere una connessione a Internet. Ed è proprio in questa fessura che entra tutta l’umanità di Grand Theft Hamlet. Alcuni giocatori scelgono di non ricoprire il ruolo di attori ma di aiutare gli altri nel raggiungere il proprio obiettivo, difendendoli con i propri avatar dagli attacchi improvvisi, mentre nei discorsi tra le prove e una sparatoria e l’altra un tema ricorrente che emerge nella pellicola è la spaventosa solitudine che molti hanno provato durante il lockdown, insieme a un senso di stagnazione e irrequietezza. Per un breve periodo, il progetto di Sam e Mark offre a tutti i partecipanti una tregua dal malessere sempre più costante. Oosterveen ammette per esempio, in modo molto sincero, che il progetto di realizzare Amleto nel videogioco è tutto ciò che ha, nessuna famiglia, nessun coinquilino; Sam e Pinny discutono della loro frustrazione riguardo a come il film sia diventato totalizzante, facendoli sentire in colpa per non trascorrere più tempo con i loro figli e tra di loro; Nora, uno dei personaggi che si unisce a loro, racconta di aver fatto coming out come persona trans e di trovare più facile la vita virtuale che l’oppressione del mondo fisico, ma anche di sentirsi proprio come il protagonista shakespeariano, alla ricerca della propria verità. Nell’era dei social media, infatti, internet è diventato contemporaneamente una via di fuga dal mondo reale e una sua diretta estensione. E se questa contraddizione ha frammentato molte delle nostre certezze e abitudini, anche in senso negativo, ha sicuramente aiutato a creare valide connessioni. Man mano che il mondo inizia ad aprirsi dopo la pandemia, però, è sempre più evidente come i confini tra mondi diversi – fisico, artistico, virtuale –, finora fusi fra loro, non possano dissolversi continuamente.
“Shakespeare fa continuamente riferimento al fatto che un’opera teatrale è una rappresentazione artificiale della vita, che siamo solo attori su un palcoscenico,” dice Grylls. “Sentivo che il mondo del gioco fosse un palcoscenico… stavamo indossando maschere, travestendoci da questi avatar, assumendo nuove versioni di noi stessi”. Il rimando al drammaturgo e poeta inglese non è solo nell’opera che dà il titolo a Grand Theft Hamlet, ma anche nella violenza della sua storia, molto simile a quella di GTA. L’opera di Grills, Crane e Oosterveen ci invita poi a riflettere sul modo in cui oggi si fa ancora fatica a credere nella possibilità di considerare i videogiochi come espressione artistica. “I videogiochi possono essere un adorabile stupido passatempo che riempie i vuoti delle nostre anime, una catarsi della violenza che ci circonda, un’esperienza psicoanalitica, un commento politico, un passatempo furbescamente bilanciato per fregarci soldi senza che ce ne accorgiamo troppo, una fonte di isolamento o di avvicinamento all’altro, sono un linguaggio nuovo e uno drammaticamente derivativo, con l’ansia perenne di confrontarsi col cinema ma pronto a scavalcarlo”, scrive il giornalista Lorenzo Fantoni nel saggio Vivere mille vite – Storia familiare dei videogiochi. “Nessun’altra forma di espressione dell’uomo è tanto interdisciplinare e drasticamente varia negli intenti quanto il videogioco, a cui si aggiunge spesso il sacro terrore di essere qualcosa a cui dobbiamo prendere parte”.
Grand Theft Hamlet mostra infatti anche come i videogames possono davvero essere una forma d’arte in evoluzione, in cui i limiti vengono continuamente superati. Lo fa interrogandosi innanzitutto su cosa siano realmente questi spazi, su come li utilizziamo oggi, su cos’altro potrebbero accogliere, sul come sia possibile trasportare ogni storia, anche le più antiche, dentro a questi mondi completamente nuovi, e se, in caso affermativo, avranno ancora senso. “Non potete fermare l’arte, bastardi!” urla a un certo punto Mark mentre entrambi vengono crivellati dai colpi di alcuni poliziotti e le prove sono interrotte dalla schermata di game over, con la scritta “Wasted” sopra l’inquadratura in bianco e nero dei loro cadaveri. E forse sta proprio qui la sintesi perfetta dell’originalità, del divertimento e della sperimentazione di Grand Theft Hamlet, del tentativo di cercarne l’essenza, della consapevolezza che il nostro bisogno di consolazione può essere una spinta generativa. Perché in fondo nessuno può davvero “fermare l’arte, bastardi”.
“Grand Theft Hamlet” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
