Ricordo molto bene il momento in cui nelle sale cinematografiche è arrivato Il gladiatore: avevo circa otto anni e nei mesi successivi, non appena fu disponibile la versione in DVD, divenne una delle mie ossessioni. Potrei dire, cavalcando un meme recente, che il mio Roman Empire è stato sin da molto piccola l’Impero Romano, nello specifico quello ricreato da Ridley Scott, con la voce profonda di Luca Ward che doppia Russell Crowe, le lunghe scene di battaglie, la saggezza di Marco Aurelio, interpretato da Richard Harris, di lì a poco primo Silente nella saga di Harry Potter, la follia dello straordinario Commodo di Joaquin Phoenix, i Campi Elisi, le mani che accarezzano il grano e la colonna sonora diventata sottofondo di qualsiasi spot evocativo. A godere dello straordinario spettacolo storicamente impreciso del regista britannico di capolavori come Alien e Blade Runner, inutile dirlo, non c’ero solo io ma milioni di persone che, fomentate dalle due ore e mezza di combattimenti nelle arene e dalla trama politica e familiare dell’Antica Roma, in un periodo della storia in cui i kolossal di questo tipo avevano un impatto molto diverso sul mondo, hanno fatto sì che Il gladiatore diventasse una pietra miliare del cinema epico.
Questa premessa è fondamentale per mettere subito le cose in chiaro: film come Il gladiatore e registi come Ridley Scott, a prescindere dai gusti, dalle critiche e dalle proprie opinioni nei confronti di certi generi cinematografici, non sono solo eventi che trascinano il grande pubblico ma anche degli spartiacque nella cultura di massa. Sono prodotti che trasudano lo spirito del tempo in cui sono stati concepiti, realizzati, e in cui sono diventati parte dell’iconografia collettiva di un dato momento, che in questo caso coincide con una espressione hollywoodiana che precede un momento di svolta: l’11 settembre, la crisi del 2008 e tutti i cambiamenti politici e culturali che hanno modificato non solo il corso della storia statunitense ma anche quello della percezione che ne abbiamo come spettatori. In altre parole, oggi nessun regista sarebbe in grado di fare un altro Gladiator, perché oggi non esistono le condizioni materiali affinché un film del genere, con relativo impatto, possa essere girato. Ci si chiede, allora, ventiquattro anni dopo la sua uscita, come mai le sale siano ancora una volta piene per un film di Ridley Scott che parla di un gladiatore che si ribella all’imperatore romano di turno e che prende un pugno di terra dell’arena prima di cominciare a combattere.
Secondo critici e storici che hanno analizzato il secondo Novecento da un punto di vista della sua produzione culturale, dagli anni Ottanta in poi siamo entrati nell’era del postmoderno. Superate le fasi storiche del moderno, dalle rivoluzioni industriali alle rivoluzioni nucleari, l’uomo del tardo capitalismo è entrato nella fase della riproduzione non più solo degli oggetti ma anche della realtà: cinema, fotografie, televisione. L’enorme ammasso di prodotti culturali che abbiamo realizzato (e a cui abbiamo accesso grazie soprattutto a internet negli ultimi quindici anni), uniti allo spirito del tempo degli anni Ottanta mosso dalle istanze neoliberiste thatcheriane e reaganiane del “there is no alternative”, hanno innescato quel senso di mancanza di futuro tipico del presente: la storia si ferma, lo stato attuale delle cose – economico, sociale, psicologico – è l’unico possibile, e così anche l’industria culturale non può fare altro che ripiegarsi su sé stessa, attingendo a un eterno ritorno di personaggi, storie e immagini che sono già state raccontate, piuttosto che inventarne di nuove. Oltre alla questione ideologica però, c’è anche una questione pratica, ossia quella legata alla proprietà intellettuale di diverse opere, e all’esigenza di doverle rimettere in scena periodicamente per non perderne i diritti, come succede con tutti i classici Disney, destinati a diventare live action. Tutti questi elementi messi insieme fanno sì che da diversi anni a questa parte la sensazione diffusa è che ovunque ci giriamo ci troviamo di fronte a un deja-vu. Programmi televisivi che ritornano – non ultimi, La talpa e La Corrida appena rientrati nel nostro palinsesto dopo anni di assenza –, generi musicali che pescano vecchi sample, capi d’abbigliamento che tornano in auge e, soprattutto, un secco di sequel, prequel e reboot.
Basta guardare ai film più visti degli ultimi anni: Top Gun: Maverick, Indiana Jones, Fast and Furious, Spiderman, per citarne alcuni, e lo stesso Barbie, se ci pensiamo, altro non è che la versione live-action di un gioco che esiste da decenni, così come il film evento Wicked, che è la versione cinematografica di uno spettacolo di Broadway. In questo contesto, il sequel de Il gladiatore si inserisce nella casella nostalgia postmoderna, mescolata a un senso di sicurezza economica a livello di incassi che deriva da una scommessa vinta in partenza – chi non vorrebbe vedere cosa succede dopo la parola “fine”, soprattutto se è la fine di un personaggio come Massimo Decimo Meridio? – e, non ultimo, a un’espressione dell’epica contemporanea. Se il primo Gladiator infatti precedeva il crollo dei valori occidentali come erano stati intesi soprattutto negli anni Novanta, in un momento di enorme prosperità economica per gli Stati Uniti, il secondo sembra voler cavalcare, seppur in modo incosciente o involontario, proprio il motto trumpiano che ben solletica un sentimento condiviso in tempi di crisi: Make America Great Again, che in questo caso diventa Make Roma Great Again. Per tutta la durata del film, infatti, non c’è niente che non suggerisca agli spettatori che l’obiettivo di questo racconto è rassicurarci su un solo fatto, ossia che per quanto decadenti, confusi, caotici, violenti e incomprensibili siano i tempi che vive Roma e il suo grande impero – che siano l’occidente o gli Stati Uniti, a ciascuno la sua interpretazione – alla fine arriverà un principe predestinato che sarà in grado di riportarla al suo grande splendore. E quel principe, inutile dirlo, è proprio un gladiatore che viene dal basso, ma che in realtà è collegato direttamente con chi anni prima ci ha fatto sognare.
Al netto della innegabile spettacolarità che regalano le due ore e mezza di Il gladiatore II, della bravura di Paul Mescal, che per la prima volta esce dalla “nicchia”, se così possiamo chiamarla, del cinema e delle serie d’autore, di Pedro Pascal e di Denzel Washington, al netto dei mostri in CGI che rendono tutto molto kitsch, tra squali che arricchiscono la naumachia nel Colosseo e scimmie che sembrano mutanti, non c’è niente in questo film che non provi a rassicurare gli spettatori del fatto che rifugiarsi nel passato va bene. E non il passato di Caracalla e Geta, o quello delle battaglie in Numidia, con tanto di citazioni tacitiane del discorso di Calgaco (“dove fanno deserto la chiamano pace”), ma il passato del 2000, quando Russell Crowe vinceva l’Oscar e tutti andavano al cinema a guardare la stessa cosa, senza algoritmi, filter bubble o altro. La storia di Annone, lo schiavo che diventa un eroe, è la prosecuzione lineare, per non dire elementare, di quella di Massimo Decimo Meridio: in una dimensione estetica che tende allo splatter in stile Game of Thrones, con due imperatori perfidi che sembrano un mix tra King Joffrey e dei tiktoker eccentrici di oggi, la trama de Il gladiatore II va proprio dove ci aspettiamo che vada, e non c’è bisogno di fare spoiler per immaginarsi quale sia il legame tra i protagonisti dei due episodi, dal momento che già nel primo la presenza del piccolo Lucio Vero Aurelio, figlio di Augusta Lucilla, lo lasciava intendere. Esattamente come Massimo Decimo Meridio, anche il nuovo gladiatore è mosso dalla rabbia per una grave perdita, odia l’Impero e si dimostra un valoroso combattente che, come unico scopo, ha quello di poter vivere sereno nella sua campagna circondato dalle persone che ama. E, proprio per questo, sia l’Ispanico che lo schiavo hanno ciò che serve per guidare Roma: saggezza e purezza d’animo.
Quando vidi per la prima volta Il gladiatore di storia romana sapevo ben poco. Il mio punto di vista, così come quello di molti altri spettatori, era scevro da qualsiasi forma di resistenza intellettuale a un prodotto così commerciale, motivo per cui non riesco a non collocarlo tra i grandi capolavori del cinema americano; affetto, nostalgia, ricordo d’infanzia, nel mio caso, o di un mondo diverso, nel caso di molti altri. Guardare Il gladiatore II, per quanto mi sia sforzata, non mi ha però riportato a galla le sensazioni che provavo nel guardare il primo, al contrario, mi ha dato un senso di sforzo immotivato, oltre che di un cinema epico a corto di idee. Più effetti speciali, più sangue, più combattimenti e meno trama, se non quella minima che serviva per arrivare al punto finale, non hanno fatto sì che il nuovo episodio del kolossal di Ridley Scott mi facesse sentire che il peggio è passato e che Roma può tornare a splendere di nuovo. Considerato poi che uno degli effetti del sequel è un accordo tra il Parco Archeologico e Airbnb per fare sì che i turisti possano combattere nel Colosseo come antichi gladiatori, da persona che abita nella capitale da molto tempo, mi domando fino a che punto si possa spingere la negazione del presente.