Dieci anni fa, il 15 aprile 2012, andava in onda la prima puntata di Girls, la serie HBO ideata, diretta e interpretata da quella che all’epoca era un astro nascente del panorama del cinema indipendente, Lena Dunham. Nel corso di sei stagioni, la serie ha cambiato il modo in cui le storie e i corpi delle donne vengono rappresentati sul piccolo e sul grande schermo e non solo per aver mostrato corpi non conformi, ma anche per aver raccontato il lato più oscuro e controverso del percorso di crescita di una giovane donna in una metropoli occidentale contemporanea.
In tutti i corsi di scrittura per la tv o per il cinema insegnano che la prima scena è fondamentale per dare il tono di tutto quello che verrà dopo: personaggi, archi narrativi e ambientazioni. Sotto questo aspetto la prima scena di Girls è emblematica: c’è Hannah, il personaggio interpretato da Dunham, che mangia in maniera famelica in un ristorante davanti ai suoi genitori attoniti. Capiamo che la ragazza è affamata e molto poco attenta alla forma, ma intuiamo anche che c’è qualcosa di disturbato nel modo in cui lo fa. I genitori di Hannah sono venuti a dirle che non vogliono più mantenerla e che se vorrà continuare a vivere a New York dovrà cercarsi un lavoro. La ragazza sembra apparentemente sorpresa, anche se il suo atteggiamento ci dice che si aspettava che quel momento sarebbe arrivato ed è per questo che la risposta ai suoi genitori non si fa attendere: Hannah spiega che non può trovarsi un lavoro per mantenersi perché è troppo impegnata a cercare di diventare “la voce della sua generazione. O perlomeno una voce qualsiasi di una generazione qualsiasi”. In quella frase, in quella strafottenza, in quel narcisismo esibito e maleducato è stato riconosciuto il miglior ritratto, seppure il più cinico, dei millennial.
Nel suo brutale realismo, Girls ha raccontato le contraddizioni in seno a una parte ben specifica delle persone diventate adulte all’indomani dell’11 settembre e della crisi sistemica del 2008: i protagonisti e le protagoniste della serie fanno parte di quella sacca di neo-laureati e neo-laureate bianchi provenienti dal ceto medio impoverito, ragazze e ragazzi animati da un immaginario fatto di uomini e donne di successo arrivati nella grande città in cerca di fortuna (Sex and the City, anch’essa prodotta da HBO, ha avuto un ruolo determinante in tutto questo, specie per le donne e gli omosessuali bianchi), persone che sono nettamente più ambiziose e preparate dei loro genitori ma anche nettamente più povere. Lena Dunham ha saputo catturare lo spirito del suo tempo e raccontarlo in Girls, e forse il fatto che sia stata una donna “privilegiata” a farlo è stato ciò che proprio quella generazione per certi aspetti non le ha mai perdonato.
Prima del suo debutto con Girls, Dunham era una semi-sconosciuta che si era fatta notare soprattutto nel circuito dei cinefili indipendenti statunitensi per aver partecipato al Sundance Film Festival col suo secondo lungometraggio, Tiny Forniture (diventato poi un piccolo cult in seguito alla fama globale di Girls). Ed è stato proprio quel film ad attirare l’attenzione del regista e sceneggiatore Judd Apatow e a spingerlo a voler incontrare Dunham e a ragionare con lei su un progetto per la televisione. Apatow ha raggiunto la fama grazie a film come 40 anni vergine, Molto incinta e Il Re di Staten Island, tutte commedie che raccontano uomini etero con la sindrome di Peter Pan e donne incastrate tra il desiderio di emanciparsi e la necessità di conformarsi. Philip Galanes sul New York Times sostiene che senza la filmografia di Apatow il termine “bromance” non sarebbe nemmeno diventato di uso comune e in effetti Apatow, seppure non sia il primo nome a venire in mente quando si parla di Girls, è stato determinante non solo nel permettere a Lena Dunham di emergere – un uomo che si fa da parte lasciando che una giovane donna abbia la possibilità di esprime il suo talento fa ancora notizia, già – ma perché è anche grazie alla sua esperienza che la serie ha saputo raccontare non solo le donne, ma anche figure maschili complesse e sfaccettate, favorendo così l’ascesa di un interprete di grande carisma, che a oggi è forse il lascito più visibile di Girls: Adam Driver.
Come sottolinea Chris Murphy su Vanity Fair, nessuna delle quattro protagoniste ha avuto un percorso anche solo lontanamente paragonabile a quello di Driver, che grazie al successo di Girls è stato notato riuscendo poi a lavorare con i più grandi registi di Hollywood, venendo nominato due volte al premio Oscar. Secondo Murphy le spettatrici e gli spettatori di Girls nel caso delle quattro protagoniste hanno associato il personaggio a chi lo interpretava, finendo così col condizionare negativamente le loro carriere; si potrebbero citare moltissimi casi analoghi – il più clamoroso riguarda forse gli attori e le attrici di Friends, che infatti saggiamente hanno una parte sugli incassi delle messe in onda dello show, ma forse sono state le accuse di nepotismo a frenare la carriera delle quattro protagoniste di Girls.
La serie di Lena Dunham non è autobiografica perché Dunham, al contrario delle protagoniste della serie, è nata a New York ed è cresciuta circondata da artisti: per sua stessa ammissione i suoi genitori non sono mai stati particolarmente ricchi – per gli standard di Manhattan – entrambi però hanno lavorato e frequentato il mondo dell’arte contemporanea, permettendole di entrare in contatto sin dalla più tenera età non solo con artisti e artiste importanti, ma anche col mondo di chi quell’arte la comprava e ne fruiva. Adam Driver ha origini umili e soprattutto non viene dal circuito di amici e conoscenti di Lena Dunham al contrario delle altre protagoniste: Jemima Kirke, Alison Williams e Zosia Mamet, sono infatti tutte a vario titolo figlie d’arte e ben inserite nell’alta società newyorkese. Lena Dunham si è sempre difesa dalle accuse di nepotismo, ma già prima della messa in onda i critici che avevano visto in anteprima la serie avevano sollevato molte perplessità sulla serie a cominciare dalla più evidente, ovvero l’assenza di personaggi non bianchi in una città multietnica come New York.
Se Dunham ha le sue ragioni a difendersi dalle accuse di nepotismo, dato che il mondo dello spettacolo ne è attraversato a tutti i livelli, dai reparti tecnici alla regia passando per la recitazione, per lei è stato più difficile difendersi dalle accuse di razzismo che hanno accompagnato Girls dalla prima messa in onda fino all’ultima puntata. Girls, come abbiamo già detto, non è una storia autobiografica, ma per controbattere a queste accuse Dunham ha detto di essersi ispirata alle sue amicizie tra cui, per sua stessa ammissione, non ci sono persone nere. In questa e in altre questioni sta il controsenso di Girls: una serie che non si ispira alla vita di chi l’ha ideata quando parliamo di contesto sociale, politico ed economico, ma che per tutto il resto è in tutto e per tutto ispirata alla sua autrice. Con Girls Dunham ha infatti scelto di giocarsi il tutto per tutto mettendoci sé stessa non solo a livello creativo, ma giocando volutamente sul crinale tra realtà e finzione: Hannah e Dunham hanno background diversi ma hanno gli stessi irrisolti e le stesse ambizioni, le amiche di Hannah nella finzione sono amiche di Dunham nella vita reale, il personaggio maschile principale ha lo stesso nome dell’attore che lo interpreta, per questo viene da pensare che Hannah sia una proiezione della stessa artista in un mondo parallelo in cui lei sia nata e cresciuta altrove. Si tratta di una supposizione dato che Lena Dunham non l’ha mai dichiarato apertamente, ma su cui la serie ha giocato a tenersi in bilico finendo con legare la sua sorte e la sua eredità artistica a quella della sua creatrice. Come ha ricordato di recente lei stessa in un articolo apparso su Vogue America, Dunham ha iniziato a lavorare a Girls nel 2011, in un momento della vita in cui la maggior parte dei suoi coetanei commette errori e fa scelte sbagliate lontano dalle telecamere. Lei no, si è letteralmente messa a nudo davanti agli occhi del mondo e ha scelto di farlo non solo mostrandosi in scena senza vestiti, ma decidendo di condividere le sue ossessioni e la sua vita privata sui social, in un libro (quello sì autobiografico), una newsletter e tante, tantissime interviste.
Di lì a qualche anno Noah Baumbach e la sua compagna Greta Gerwig, avrebbero firmato la sceneggiatura di Frances Ha (tra i protagonisti c’era anche lo stesso Adam Driver nei panni dell’artista fannullone). Il film di Baumbach è stato il primo tentativo di riprodurre il mondo di Girls ma senza Lena Dunham, ma non è stato il solo. Con Girls, infatti, non è nato solo il filone dei film e delle serie sui millennial, ma anche un nuovo modo di raccontare le donne: già durante la sua messa in onda, sono arrivate serie con protagoniste disagiate e apertamente sgradevoli: le galeotte di Orange is the New Black, l’insolita coppia precaria di Love (sempre di Jude Apatow), l’acclamato I May Destroy You, ma l’esempio più lampante è Fleabag di e con Phoebe Waller-Bridge, una serie che come Girls racconta di una donna profondamente disturbata e anticonformista e che ha alla base quello che Lena Dunham a dieci anni di distanza ha definito il nucleo del racconto di Girls: l’amicizia femminile.
Negli ultimi anni le donne si sono prese la scena e questo tema è diventato uno degli argomenti principali su cui interrogarsi (da Fleabag a L’amica geniale passando per Skam nelle sue molteplici declinazioni territoriali) e se questo è potuto accadere è stato anche grazie all’intuito di chi ha scelto di investire nel talento di Lena Dunham e al suo impatto sul pubblico internazionale. La sensazione è che Duhnam non sia riuscita a preservarsi dalla sovraesposizione che lei stessa ha cercato, voluto e cavalcato, sottovalutandola – oltre alle accuse di “razzismo hipster” e nepotismo, Dunham infatti difeso anche uno degli autori della serie, Murray Miller, accusato di molestie sessuali. In seguito al clamore suscitato dalle sue dichiarazioni Dunham è stata costretta a ritrattare, ma da quel momento in poi ogni suo passo falso è stato amplificato dalla stampa e ingigantito dai social – in questo, il suo destino non è stato poi così tanto diverso da quello delle altre giovani star sue coetanee, come Rihanna e Taylor Swift.
Il più grande torto che possiamo fare oggi a Girls, però, è quello di continuare a parlarne solo in relazione alle polemiche che hanno visto protagonista la sua creatrice. Girls, infatti, più di molte altre serie, ha cambiato il modo in cui le donne si vedono e si raccontano. In questo è stata determinante da parte di HBO la scelta di lasciare che, seppure indirizzato, il talento di Dunham potesse esprimersi in tutte le sue contraddizioni. Girls non sarà forse la voce della sua generazione, ma quella voce è la voce di una donna che racconta dal suo punto di vista la storia delle sue coetanee meno fortunate. La voce di Lena Dunham è stata fondamentale per ribadire che le donne devono parlare alle altre donne e poco importa se per farlo si è dovuto ricorrere al gioco degli equivoci: del resto siamo tutte e tutti, Dunham compresa, vittime di un gigantesco equivoco tra realtà e finzione e, in fondo, anche questo è uno degli accidenti dei nostri tempi.