Il favoloso mondo di Amélie, uscito nel lontano 2002, è stato accolto e celebrato da una platea di giovani ragazze desiderose di essere riconosciute “uniche”, come una sorta di inno all’innocenza e all’originalità. Non si capisce esattamente in cosa dovrebbe consistere “Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain”, dato che di favoloso non le succede quasi nulla. Amélie vive a Parigi, che nella prospettiva di Jean-Pierre Jeunet sembra essere un non luogo popolato di persone che non si rivolgono la parola e si scansano vicendevolmente quando si affiancano sul marciapiede. Amélie non ha amiche, non ha impulsi sessuali, non legge mai e nemmeno esce, neanche per bersi una birra e ricordarsi che, in fondo, abita in una delle città più belle del mondo. La grande colpa di Jean-Pierre Jeunet è quella di essere riuscito a trasformare quella che avrebbe potuto costituire una denuncia dell’estraniamento e della solitudine dell’individuo in un invito alle ragazze a ostentare un’espressione vacua e stralunata, a non esprimere desideri o pulsioni e a interagire poco, e nel modo più incomprensibile e fastidioso possibile. Occhi stralunati, sorriso sognante, quel taglio di capelli a scodella che stava bene solo a Audrey Tautou: Il favoloso mondo di Amélie ha lasciato un’eredità (non solo estetica) difficile alla generazione di ragazze che, poco dopo l’uscita del film, accorrevano in massa a fotografare le nuvole con addosso camicette a fiori e gonne colorate e svolazzanti.
Velleità pseudo artistiche, passività sessuale, vacuità e conversazioni con sconosciuti fondate su pregiudizi e antipatie istintive: questo è il retaggio del Favoloso mondo di Amélie nella mia generazione.
Amélie trascorre le sue giornate a servire caffè e piatti caldi agli avventori del Café des 2 Moulins di Montmartre. Sembra che nessuno le rivolga parola per più di due minuti e comunque mai per avviare una conversazione di spessore superiore a “Bella giornata!” (affermazione) e “Sì, davvero” (risposta). Sembrerebbe il perfetto incipit di una riflessione sull’atomizzazione nella società globalizzata e capitalistica e la solitudine dell’individuo, se non fosse che Amélie non sembra assolutamente soffrire per il vuoto relazionale incessante che colma le sue giornate. A parte gli scherzetti ai vicini di casa e le fotografie al nano da giardino del padre, la vita della giovane parigina è fatta di routine, percorsi da un punto all’altro della città e una quantità di tic angoscianti che lei definisce “piccoli piaceri della vita”.
Tuffare la mano in sacchi di legumi che non le appartengono sembra la sua principale occupazione. Memori e motivate da questo insegnamento sulle gioie del tatto, le mie compagne di scuola accarezzavano moquette luride come fossero gattini e poi andavano al bar a infilare le dita nelle ciotole di salatini, irritando me e i germofobici di tutto il mondo. Poco interessata a costruirsi una carriera, una sensata rete di relazioni umane o anche solo un hobby banale, Amélie si aggira con espressione vacua per Parigi, producendo in un esercito di adolescenti e tardoadolescenti affamate d’attenzione la pericolosa convinzione che l’innocenza e l’ingenuità a tutti costi non sia solo la piacevole e naturale condizione delle ragazze che altrove definiremmo “affette da disturbi dell’apprendimento”, ma che sia anche irresistibilmente sexy.
Amélie non è neppure degna della migliore amica macchietta senza una vita propria, accessorio irrinunciabile di tutte le eroine partorite nelle commedie romantiche: il falso mito del necessario protagonismo femminile, delle donne che non potrebbero mai essere gli Amici Miei di Monicelli. L’amicizia fra donne è infatti spesso (per non dire sempre) ridotta a valvola di sfogo per raccontare le gesta e i soprusi degli uomini, almeno nel cinema pastello, eternamente eteronormato e patriarcale fino alla nausea. Nel Favoloso mondo di Amélie, però, la gravità della situazione si accresce, per almeno due diverse ragioni. La prima è che Amélie non sembra venire minimamente sfiorata dalla mancanza di un rapporto, paritario o ridicolo che sia, con un’altra ragazza: zero interazioni con donne in vista, se togliamo le altre cameriere del Café des 2 Moulins e la tabaccaia impiegata di fronte, che viene prontamente accoppiata con uno squilibrato. Forse Amélie ha causato un femminicidio, chissà. La seconda è che appena una donna – nella fattispecie la sua vicina – cerca di diventare sua amica e di metterla a parte dei suoi ricordi e dei suoi pensieri, Amélie decide di manovrarla e consegnarla ai suoi stessi meccanismi consolatori da mondo fittizio, facendole credere che il marito traditore in realtà l’aveva sempre amata. Morale: non guardare in faccia la realtà e non rifarti una vita. Fai come me, vivi su un altro pianeta, che è meglio.
Il favoloso mondo di Amélie ha contribuito ad annullare anni di rivendicazioni femministe fornendo una rappresentazione completamente falsa e passiva della sessualità e del desiderio femminile. Amélie ha le stesse pulsioni sessuali di un tostapane: quando qualcuno decide di accenderla, lei si scalda, anche se la proposta “non è all’altezza delle sue aspettative”. Quando si trova ad avere a che fare con il sesso, in cui sembra essersi imbattuta senza particolare volontà e senza un desiderio tutto suo, Amélie guarda in camera con un sorrisino, invece di proporre qualcosa di diverso al suo partner, di imporsi nell’atto o anche solo di intimargli di andarsene. Poi, un bel giorno, Amélie si imbatte in un ragazzo carino di cui non sa il nome ed è vittima di un immediato colpo di fulmine, anche se non si sono mai scambiati una parola e magari il suo quasi principe azzurro è un pedofilo, un fan di Baywatch o un pedofilo fan di Baywatch. Un corteggiamento in cui Amélie si annulla, inseguendolo con lo sguardo, senza apparentemente avvertire il bisogno di una conversazione o un contatto fisico, rimanendo vittima passiva della casualità e di eventi sparsi che non la vedono mai consapevole. Dopo aver conosciuto Nino, Amélie sogna di essere la moglie casalinga e amorevole che prepara il suo “famoso pasticcio di verze” al premuroso consorte che si reca trotterellando al negozio sotto casa per comprarle il lievito. Questa scena, allo stesso tempo copertina di Good Housekeeping e prequel di Shining di Stanley Kubrick, non solo fa venire il voltastomaco, ma contribuisce a normalizzare e istituzionalizzare la presunta originalità e la simulata indipendenza di Amélie, che evidentemente non vive da sola per scelta, ma in attesa del principe azzurro.
Il modo in cui Amélie, dopo aver affrontato peripezie inesistenti, corre tra le braccia del ragazzo manifestando benessere e appagamento non è dissimile dalla prima notte di nozze dell’Ottocento, quando le donne si trovavano, accettato a scatola chiusa il proprio destino sessuale, a passare dal primo bacio alla deflorazione nel giro di poche ore, senza aver diritto alla scoperta e alla sperimentazione della propria sessualità. È inevitabile che una storia d’amore divenuta cult per una generazione di ragazze decise a prendere la parigina coi capelli a scodella come modello di vita tende a plasmarne la visione dei rapporti di coppia, se non indissolubilmente almeno in maniera evidente. Noi, la Generazione Amélie, non appena incontriamo un ragazzo senza manie o disturbi psicologici troppo palesi e abbastanza carino da poter diventare “la persona giusta”, diamo per scontato che ci sia un sogno d’amore da coronare, senza chiederci se fare parte di una coppia tradizionale è quello che vogliamo davvero. Non appena si trova l’apparente dolce metà ci si butta a capofitto con interi salumifici sugli occhi, finendo per arrivare completamente impreparate alle inevitabili delusioni quando gli uomini non si comportano come vorremmo, o quando si va a sbattere contro i numerosi spigoli della realtà.
Con i suoi rapporti disfunzionali spacciati come segni del destino e i suoi sorrisi a mezza bocca guardando in camera, Amélie non ha solo rotto la crosta alla crème brûlée. La tendenza lanciata dalla protagonista dell’opera di Jean-Pierre Jeunet ad attaccarsi a consolazioni effimere e discutibili dei piccoli piaceri della vita rischia di farci dimenticare che abbiamo diritto anche a quelli grandi, che però non cadono dal cielo come la signora suicida sulla madre di Amélie.