Franco e Ciccio incarnano la parabola perfetta di quanto talento si può celare in un comico popolare - THE VISION

Castelvetrano è un paese di circa trentamila abitanti nella provincia di Trapani. Negli ultimi mesi, il nome di questo luogo è stato scritto e pronunciato in diverse occasioni per via di un fatto di cronaca di grande importanza: l’arresto di Matteo Messina Denaro. È lì, infatti, che è nato nel 1962 il boss mafioso con alle spalle oltre trent’anni di latitanza. Nel territorio di Castelvetrano si trova il parco archeologico più esteso d’Europa, quello di Selinunte. Sempre a Castelvetrano nacque Giovanni Gentile, uno dei filosofi più importanti del Novecento italiano insieme a Benedetto Croce, autore, tra le altre cose, della riforma scolastica del 1923 e ritenuto, da alcuni, ideologo del fascismo stesso. A Castelvetrano, poi, nel 1954, esordirono al teatro Capitol Franco Franchi – nome d’arte di Francesco Benenato – e Ciccio Ingrassia, inaugurando un sodalizio artistico che potremmo definire senza esagerare tra i più proficui della storia della comicità italiana.

Per capire la storia di Franco e Ciccio – e di tutto ciò che il loro lavoro ha significato, compreso sia l’enorme successo commerciale che l’altrettanto enorme rifiuto che la critica riservò loro per decenni – è fondamentale partire dalla loro origine: quel teatro di Castelvetrano, luogo che potremmo definire al contempo di estrema provincia e di sorprendente centralità, perfetta sintesi metaforica della loro carriera. Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono infatti un connubio di elementi discordanti, determinati perlopiù dal contesto sociale e storico in cui sono nati e poi cresciuti come artisti – segnato dalla povertà estrema di Palermo nel dopoguerra così come dall’esplosione commerciale repentina e inarrestabile di quegli stessi anni, paragonabile forse solo a quella di Totò – e che li ha resi due personaggi capaci di prestarsi a qualsiasi cosa, dalle pubblicità ai film girati senza neanche una vera e propria struttura narrativa, se non la loro stessa presenza.

Non è un mistero il perché la critica li abbia ritenuti per lungo tempo artefici di una comicità di livello più che infimo, senza alcun tipo di pensiero né scrittura se non una prossemica e una fisicità plastica che li faceva sembrare quasi due fumetti in carne e ossa. Eppure, col passare degli anni, il fenomeno Franco e Ciccio ha assunto una connotazione diversa, come succede con molti fenomeni per cui serve un certo distacco per comprenderne alcuni aspetti fondamentali. Non parliamo solo di una certa rivalutazione postuma dell’opera dei due comici palermitani, ma di un avvicinamento necessario da parte di nomi importanti del cinema – sia registi che critici – al duo che in realtà era già in atto durante la seconda fase della loro carriera, dagli anni Settanta in poi. 

“Franco e Ciccio erano due personaggi plautini”, dice Mario Monicelli nel documentario del 2004 di Ciprì e Maresco intitolato Come inguaiammo il cinema italianoLa vera storia di Franco e Ciccio. I registi palermitani possono infatti essere considerati tra i primi ad aver condotto un’indagine completa sulla vita e sulle carriere della coppia di comici, ma anche sul loro ruolo e sulla loro funzione all’interno del contesto produttivo cinematografico dell’Italia del boom economico e dei decenni successivi. Partendo dall’avanspettacolo, forma di rappresentazione ultra-popolare che a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta ha lanciato diversi artisti che poi hanno raggiunto la fama a livello nazionale, Franco e Ciccio cavalcano da subito un umorismo farsesco, improntato su maschere più che su personaggi. Ingrassia, il serio della coppia, alto e spettrale, era un Frankenstein con i baffi, Franchi, invece, lo scalmanato, con una faccia di gomma e un repertorio di suoni ed esibizioni al confine con il circense: due pagliacci, nel senso più nobile del termine, che hanno fatto della forma l’essenza del loro stesso contenuto. L’incontro con Domenico Modugno – all’epoca star di altissimo livello della musica pop italiana, del cinema, dei musicarelli e del teatro – li tirò poi fuori dalla dimensione sottoculturale di provincia, rendendoli a tutti gli effetti due idoli nazionali.

Quel periodo di crescita incontrollata, a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, è l’epoca in cui il fenomeno Franco e Ciccio genera incassi strabilianti con un ritmo frenetico di produzione. Il risultato inevitabile di questa bulimia cinematografica – cosa che li allontanò anche da Modugno che invece voleva tenerli al suo fianco come spalle per i suoi film e spettacoli – è stato il motivo per cui negli anni i due non sono mai stati considerati padri nobili della nostra comicità, al massimo personaggi di serie B, certamente non al livello di attori coevi come Alberto Sordi o lo stesso Totò, verso cui loro nutrivano un grande senso di stima e riconoscenza. Questo loro approccio alla carriera cinematografica non è certo sfumato con gli anni, anche quando i loro nomi non furono neanche più di punta: per tutti gli anni Ottanta, dopo diversi programmi della Rai come Patatrac o Drim, di Gianni Boncompagni, vennero assoldati da Berlusconi per le sue reti Fininvest, continuando con un ritmo simile anche in televisione, fedeli a un principio di quantità più che di qualità. Eppure, nel frattempo, nonostante l’impatto popolare dei loro sketch caricaturali, colmi di tormentoni demenziali che ogni tanto venivano interrotti da lampi di vero genio comico, c’è stato chi ha intuito il valore artistico di Franco e Ciccio ben prima di qualsiasi altra rivalutazione postuma.

Franco e Ciccio in Kaos, 1984

Pensiamo per esempio a Pier Paolo Pasolini e al suo piccolo capolavoro Che cosa sono le nuvole tratto dal film a episodi del 1968 Capriccio all’italiana. In quel contesto, dove compaiono anche Totò e Modugno, Franco e Ciccio risultano perfetti proprio per lo stesso elemento che li ha resi così poco raffinati o degni di una riflessione più complessa: i due comici incarnano con grande spontaneità la leggerezza e la limitatezza dell’uomo, travolto dai propri sentimenti, come la gelosia di Otello, e la forza irrefrenabile delle passioni umane che lo travolgono, dimostrandone la fragilità.  Nei panni di burattini, poi, che Franco e Ingrassia caricano con la loro gestualità, la voce, il corpo, le espressioni facciali donano un senso di grottesco e malinconico all’interpretazione della famosa opera di Shakespeare data da Pasolini. Una versione che, non a caso, finisce con la morte di queste marionette, abbandonate in una discarica, vecchie e inutili. Anche Luigi Comencini fece un’operazione simile con Franchi e Ingrassia, dando loro la parte del gatto e della  volpe nella sua versione televisiva di Pinocchio, il riadattamento di culto del romanzo di Collodi. Così come nel ruolo di marionette, Franco e Ciccio rendono perfettamente l’interpretazione sgraziata e inquietante, comica ma anche spaventosa, dei due animali parlanti di Pinocchio. Facendo un salto in avanti di oltre dieci anni, poi, nel 1984, sono i fratelli Taviani a riscoprire quella loro stessa cifra nel film Kaos, nell’episodio La giara, tratto dalla novella di Luigi Pirandello, dove vediamo di nuovo una giusta combinazione tra la fisicità di Franco e Ciccio, nel loro essere così sgraziati, esagerati e pittoreschi, e la trama tragicomica dell’opera di Pirandello. Senza dimenticare anche le collaborazioni con Eduardo De Filippo in Tommaso D’Amalfi o Vittorio De Sica in Giudizio universale e soprattutto con Buster Keaton, nel 1965, con Due marines e un generale

Domenico Modugno nel film di Pier Paolo Pasolini “Che cosa sono le nuvole”, 1967
“Che cosa sono le nuvole” di Pier Paolo Pasolini, 1967
Franco e Ciccio con Massimo Troisi

Per quanto sia scontato ricordare Franco e Ciccio come due elementi di una entità singola e inscindibile, in realtà fu proprio nelle loro lunghe pause dovute ai molteplici litigi – ricordiamo quando Pippo Baudo fece fare loro pace in diretta tv – che Ingrassia ebbe modo di dedicarsi anche a un cinema molto distante da tutto quello che aveva fatto nei suoi anni di formazione, ma anche nei suoi anni da produttore, dove diede vita a pellicole sempre piuttosto dozzinali e parodistiche, in stile L’esorciccio. Non si può non ricordare la sua apparizione in Amarcord di Fellini, o la sua parte nel film di Elio Petri Todo modo, o nel film di denuncia sociale La violenza: quinto potere di Florestano Vancini, tratto dall’opera di Giuseppe Fava. Non c’è dubbio che Ingrassia, valorizzato da registi che ne hanno compreso l’impatto visivo e il potenziale perturbante della sua presenza scenica, abbia saputo dare prova anche di poter frequentare zone del cinema che, stando alla critica del tempo, gli erano vietate per una declamata incompatibilità con il genere. Non si può dire esattamente la stessa cosa di Franco Franchi, che non sperimentò praticamente in alcun modo la sua vena drammatica, anche se vale la pena citare lo strano caso della sua pellicola del 1973 Ultimo tango a Zagarolo, di Nando Cicero. A questo proposito, come ha più volte ribadito il critico cinematografico Goffredo Fofi, “La parodia di una finta opera d’arte è meglio della stessa opera d’arte”: il caso di Ultimo tango a Zagarolo – che divenne un vero e proprio cult in qualità di parodia del film di grande successo di Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi – è interessante perché nella sua demenzialità grossolana ha creato non poco di scompiglio all’interno del cinema italiano d’autore. Lo stesso Bertolucci, intervistato da Ciprì e Maresco in Come inguaiammo il cinema italiano, sostenne di non averlo mai voluto vedere per timore di avere di fronte un film migliore del suo, oltre che per non rovinare il mistero di quella pellicola incredibilmente riuscita nel suo intento caricaturale.

Federico Fellini

Nella carriera di Franco e Ciccio, purtroppo, non mancarono neanche le note stonate, come la vicenda del film Crema, cioccolata e… paprika, dove compare sia come sceneggiatore che come attore Giuseppe Greco, figlio del boss Michele Greco. Fu proprio questo film che spinse l’accusa di associazione mafiosa di Franchi, che ammise la sua vicinanza a Cosa Nostra – in termini “amichevoli” e mai in qualità di collaboratore, come ha sempre precisato. Una vicinanza che, però, nonostante le ammissioni, le smentite e il proscioglimento dell’accusa, gli costò molta amarezza e un triste finale di carriera. Nelle ultime esibizioni, all’inizio degli anni Novanta, sempre al fianco di Ingrassia, che morì invece dieci anni dopo, si intravede nella malattia, che gli aveva cambiato il volto e la voce, la tristezza di una maschera comica prosciugata non solo dalla carriera ma anche da alcune scelte infelici. Gli ultimi anni di Franco e Ciccio furono perlopiù un concentrato di malinconia, nel pieno spirito umoristico in senso pirandelliano e innato che li ha caratterizzati, come ha sottolineato anche Massimo Troisi in una vecchia intervista al loro fianco, dove la spontaneità, nel bene e nel male, ha fatto sì che la loro carriera lasciasse un segno. Oggi, a vent’anni dalla morte di Ciccio Ingrassia e a trentuno da quella di Franco Franchi, possiamo anche concederci il lusso di guardare l’insieme, la grandezza dirompente, fagocitante, a tratti geniale, sicuramente istintiva e popolare amata da un enorme pubblico e che se pochi nel mondo del cinema hanno apprezzato, tutti oggi possiamo riscoprire, anche solo per conoscere un pezzo di storia fondamentale del nostro cinema.

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