Quella di New York è una storia costantemente segnata dal crimine organizzato, tanto eccitante quanto piena di lati oscuri per i milioni di uomini e di donne che partirono, soprattutto dal continente europeo, in cerca di un futuro migliore nella città che rappresentava la soglia di un nuovo mondo, fondato sul capitale, sulla libera iniziativa, sulla felicità per tutti. Immense possibilità di guadagno, fasce di popolazione poverissime e un campo sorprendentemente libero hanno attirato da sempre la criminalità organizzata, impegnata qui in una corsa all’oro diversa da quella che si giocava sulla West Coast: un business complesso, una rete di contatti, intimidazioni e omicidi sostenuta da un’affiliazione mafiosa che coinvolse migliaia di persone, perlopiù immigrati, usati come soldati di una guerra sotterranea per il controllo della Grande Mela. È all’interno di questo ambiente in decomposizione che Cosa nostra fiorì rigogliosamente, arrivando a vivere la propria età dell’oro tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. È di questo periodo, e soprattutto della sua fine, che parla Fear City: New York vs. The Mafia, la nuova miniserie documentaria in tre episodi con cui Netflix racconta la repressione del crimine che attuò l’ex sindaco della città, allora procuratore federale, Rudolph Giuliani, e l’indagine che portò allo storico processo contro i capi delle maggiori famiglie mafiose newyorchesi dell’epoca. Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese, Lucchese: i clan che avevano rovinato l’immagine di New York erano tutti di origine italiana.
Quella un tempo conosciuta come la Fun City, la città del divertimento, era diventata a metà anni Settanta la Fear City, la città della paura. Un appellativo che ben descriveva il generale sentimento di sfiducia nei confronti della giustizia e delle forze dell’ordine, incapaci di fronteggiare un’organizzazione capillare e gestita con metodi molto più moderni d’un tempo. Era necessaria una rivoluzione, sia nei metodi impiegati dalla giustizia, sia nei mezzi a sua disposizione, servivano nuovi volti e nuove energie in grado di reagire. È in questo contesto che si inserisce la figura di Giuliani. La serie, diretta da Sam Hobkinson, ricostruisce passo per passo origini ed esiti dell’indagine, in un crescendo avvincente che si avvale di immagini d’archivio, intercettazioni originali, riprese e servizi televisivi, nonché di ricostruzioni con attori e interviste ad alcuni protagonisti di quelle vicende.
C’è innanzitutto il professor G. Robert Blakey, autore del “Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act” (RICO), la legge che rese possibile perseguire non solo gli strati più bassi del tessuto criminale, ma anche i boss, i mandanti che non si sporcavano mai le mani, rimanendo in cima alla catena di comando. Blakey aveva scritto nel 1970 una legge modernissima eppure sconosciuta alle stesse autorità competenti, che per dieci anni la ignorarono, finché egli stesso ebbe l’idea di tenere un corso di formazione per i membri dell’FBI alla Cornell University che rivoluzionò i piani d’azione dei federali. Le famiglie avevano un boss, un underboss, vari capitani e una miriade di soldati, ma prima della RICO era impossibile perseguire i mandanti, non c’era modo di legare un soldato a un boss, perché il sistema americano non si era ancora adattato al concetto di organizzazione criminale.
Ottenuti i mezzi, serviva un piano d’azione, era necessario conoscere le famiglie, capire i rapporti di forza, identificare gli affiliati e scoprire quali business fossero in mano alla mafia. Agli informatori vecchia maniera si aggiunse una massiccia mole di intercettazioni, di cimici installate nei club frequentati dai “wise guys”, nelle loro automobili, nelle loro case. Un montaggio dinamico e una colonna sonora quasi onnipresente accompagnano questo paziente lavorio e contribuiscono a rendere la miniserie un prodotto che alla sua componente true crime unisce un continuo rifarsi a stilemi da mafia movie cari alla visione di Scorsese, tanto che ci si aspetterebbe da un momento all’altro che Joe Pesci o Ray Liotta spuntassero nelle foto d’archivio al fianco dei vari “Fat” Tony Salerno, Tony “Ducks” Corallo, Paul Castellano e gli altri.
Le cimici legate ad affiliati avvezzi a parlare continuamente svelano poco a poco i business, dai locali alle scommesse, dalla benzina fino al gigantesco leviatano del settore edilizio, totalmente in mano al potere mafioso. Con una cinquantina di cantieri in attività sul suolo cittadino, Cosa nostra era pronta a intascare un miliardo di dollari: se volevi avviare un grosso cantiere dovevi avere a che fare con la mafia, non c’erano vie alternative, ed è qui che dalle intercettazioni spunta anche il nome di Donald Trump.
Ad agenti federali e procuratori si contrappongono i “bravi ragazzi” in pensione, come Michael Franzese, condannato e ora libero, diventato scrittore e motivatore, o John Alite, imputato per decine di omicidi, anche lui tornato in libertà, anche lui scrittore e motivatore, intervistato in una palestra, dove fa a botte con un sacco e due guantoni. Questa caratteristica della miniserie, si inserisce nella linea tracciata dalla piattaforma per cercare lo scandalo e la denuncia sociale, con show che spettacolarizzano i fatti di cronaca e offrono spazio ai loro protagonisti, da Making a Murderer, fino a Tiger King e a Jeffrey Epstein: Filthy Rich. D’altronde Fear City condivide i suoi produttori con Don’t F**k With Cats: Hunting an Internet Killer, altra narrazione che scava con dovizia di particolari nell’assurda vicenda dell’assassino Luka Magnotta. Fear City non cerca di replicare questo slancio spettacolare, ma restituisce con successo uno spaccato della New York anni Ottanta e dei suoi protagonisti. Poco male se questi si prestano oggi a reenactment un po’ posticci o a interviste rilasciate al volante di auto scure parcheggiate sotto un ponte. La forza di questi tre episodi è tutta in una storia da cui generazioni di scrittori, registi e affini hanno attinto per dare forma alle loro opere.
Mostrando i veri protagonisti delle indagini e i loro metodi, Fear City ha poi il merito di dare spazio al braccio non violento della legge, fatto di rispetto della giustizia e di uno Stato che funziona. Simbolo di questo aspetto della realtà è Rudolph Giuliani, uomo-immagine, anche a detta dei suoi collaboratori, di quegli italo-newyorchesi che conoscono bene la mafia e la odiano, la combattono: sarà proprio il successo dell’inchiesta nei confronti della Mafia Commission ad avere un ruolo fondamentale nella sua elezione a sindaco di New York dal 1994 al 2001. Il merito di Giuliani e dei suoi collaboratori più stretti – su tutti Michael Chertoff – fu quello di puntare a destrutturare il mosaico criminale delle cinque famiglie, scoprendo i legami tra i boss, l’esistenza di un “club del calcestruzzo” e di una commissione che dirimeva le questioni più importanti, evitando le guerre tra i clan, ormai accantonate in favore di un business condiviso e monopolistico. Indagini approfondite che portarono anche a un fertile scambio tra Giuliani e Giovanni Falcone, all’epoca in cerca di maggiori informazioni sui legami tra famiglie mafiose stanziate in Italia e le loro diramazioni oltreoceano.
Proprio queste sinergie, questi incroci di piste e maxi inchieste hanno dimostrato una volta di più che per combattere la criminalità organizzata ci vuole almeno la sua stessa organizzazione, coesione, piani politici sinergici e di lunga durata. Solo istituzioni sane possono dare vita a una risposta efficace, e se da quasi tre ore di show non si può pretendere di aver abbracciato tutti gli aspetti di una vicenda tanto complessa – mancano, per esempio, riferimenti ai “buoni” corrotti – Fear City riesce però a fotografare e sottolineare alcuni aspetti importanti della lotta alla mafia americana. In particolare, la cooperazione internazionale tra organizzazioni criminali dovrebbe farci riflettere, in un momento storico fatto di rapporti internazionali sempre più sfilacciati e di forti antagonismi interni, il vantaggio è tutto di chi è pronto ad approfittarne: la criminalità organizzata.