Elio Germano è il migliore attore italiano. La sua interpretazione di Ligabue lo dimostra.
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Nel memoir Con Borges, lo scrittore argentino Alberto Manguel racconta di quando, tra il 1964 e il 1968, si recava a casa dello scrittore Jorge Luis Borges per leggergli quello che la cecità non gli permetteva più di decifrare, giacché anche sua madre Doña Leonor, novantenne, si stancava facilmente. “Che peccato non essere una tigre”, confessò Borges un pomeriggio durante la lettura di un racconto di Rudyard Kipling in cui compariva il fantasma dell’animale. Sua madre ricordava come, all’età di tre o quattro anni, Borges dovesse essere portato via in lacrime dalla gabbia della tigre allo zoo, e che “uno dei suoi primi scarabocchi era una tigre striata, realizzata con matite di cera sulla doppia pagina di un quaderno”. Chissà quanto il pittore Antonio Ligabue avrebbe condiviso quel desiderio. Lui che, nelle notti tristi e solitarie trascorse a dormire in una capanna sulle rive del Po, nei fienili e nelle stalle dei contadini a cui mendicava ospitalità, probabilmente sognava davvero gli animali selvaggi ritratti nei propri quadri e che aveva visto solo al circo, nei film, nelle immagini delle stampe popolari e dei manuali di zoologia, prestati da un veterinario di Guastalla, in provincia di Reggio Emilia. In quelle pelli avrebbe voluto rinascere per acquisire un’eleganza e un’agilità, una bellezza e una forza preclusa agli uomini, simboli del riscatto dalla condizione di reietto in cui da sempre era stato relegato.

Figlio di padre ignoto e di Elisabetta Costa, emigrata in Svizzera dove faceva l’operaia, Ligabue venne presto affidato a una coppia svizzero-tedesca. Nel 1917, appena diciottenne, fu ricoverato per la prima volta in un istituto psichiatrico, nelle cui cartelle cliniche fu annotato come fosse “facile agli sbalzi di umore, con improvvise eccitazioni e profonde malinconie”, ma anche “la sua straordinaria capacità nel disegno, soprattutto degli animali”. Si legge: “Quando disegna appare rasserenato”. Tornato a casa, fu espulso definitivamente dalla Svizzera dopo una furibonda lite con la matrigna, che lo denunciò alle autorità. Il 9 agosto 1919, scortato dai carabinieri, entrò a Gualtieri, un piccolo centro agricolo della bassa reggiana, dove abitava il suo unico parente: il patrigno Bonfiglio Laccabue, con cui Antonio rifiuterà ogni rapporto, tanto da modificare il proprio cognome, accusandolo dell’omicidio della madre naturale e dei fratelli, morti per avvelenamento dopo aver mangiato della carne avariata. Qui nessuna famiglia gli offre ospitalità e così Ligabue vive randagio, mangiando una minestra al ricovero e dormendo su un sacco di paglia in un porcile. Tra il 1937 e il 1948 viene ricoverato per tre volte nell’Istituto psichiatrico di Reggio Emilia, ed è solo grazie all’intervento prima di Marino Renato Mazzacurati – uno dei fondatori della Scuola Romana, che trovandolo in un covone di fieno decide di accoglierlo in casa propria – e poi del pittore e scultore Andrea Mozzali, che lo ospita e garantisce per lui affinché non sia più internato, che Ligabue potrà finalmente vivere della sua arte.

Giudicato dalla critica almeno fino agli anni Settanta come un episodio marginale nella storia del Novecento, Ligabue veniva definito “naïf” o “folle”. Fu solo dopo la messa in onda di uno sceneggiato su di lui che si iniziò a dargli lo spazio che meritava. Ligabue andò in onda su Rai 1 dal 22 novembre al 6 dicembre del 1977. Il regista Salvatore Nocita portò in televisione la vita del pittore, scegliendo Flavio Bucci, recentemente scomparso, come attore principale.

Dopo più di quarant’anni la sua storia arriva al cinema con il nuovo film di Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, con Elio Germano nel ruolo del pittore. Il regista bolognese ripercorre alcune delle tematiche già affrontate nei suoi lavori precedenti, che ben descrivono l’uomo e l’artista Ligabue: la ricerca di una comunità e del senso della vita, il tentativo di raccontare la discriminazione e il razzismo. “È giusto ripensare oggi a un tempo in cui le relazioni sociali erano più autentiche, nei paesi ma anche nelle città, i quartieri avevano questa bella dimensione di far sì che tutti si conoscevano, si frequentavano. Un tempo queste comunità avevano anche la capacità di accogliere comunque il forestiero”, commenta Diritti in una recente intervista. Ligabue si era infatti ritrovato a essere straniero in patria, lui che si esprimeva con una parlata unica in cui mescolava tedesco, italiano e dialetto reggiano. Sempre attento all’elemento antropologico, con questa pellicola Diritti avvicina il proprio cinema ancor di più a quello del maestro Ermanno Olmi, non solo per il realismo delle situazioni e la precisione della resa del mondo contadino, ma soprattutto per la scelta di imporre il dialetto come lingua dominante del film. “Al tedesch” veniva soprannominato Antonio Ligabue a Gualtieri, quando non si utilizzava il nomignolo più sbrigativo di “Toni al mat”.

L’alternarsi costante dei suoi moti interiori, dall’irrequietezza al senso di pace, si è imposto sulla scelta dei soggetti da rappresentare – le scene violente di lotta animale, la quiete agreste – ed è stato scelto come perno portante del percorso narrativo di Volevo nascondermi, che cerca di indagare più lo stato emotivo di Ligabue che di proporne una biografia dettagliata. Ligabue si sentiva inadeguato, sbagliato e più di una volta aveva assecondato l’istinto di nascondersi dal mondo. Nei suoi autoritratti si colloca sempre in primissimo piano, lasciando che il paesaggio sullo sfondo sia spesso solo un dettaglio per richiamare la città svizzera dell’infanzia o la campagna dell’età adulta, e attirando l’attenzione sulla propria figura, resa con tutte le imperfezioni che di sé conosceva – il gozzo ipertrofico, il rachitismo, il naso segnato dalle cicatrici di atti autolesionisti – quasi a voler reclamare la propria esistenza: dipingo quindi sono. Il suo sguardo è sempre all’erta per cogliere qualcosa che potrebbe accadergli alle spalle, mai sereno.

A portare sullo schermo l’urgenza del corpo di Ligabue è Elio Germano, in una delle sue migliori performance. Germano si contorce e si trasforma, trasfigurando la propria anatomia e realizzando un lavoro di precisione chirurgica su corpo e voce. Ne assorbe ogni tic e ogni ossessione, spingendoli all’estremo. Dai pochi documenti originali dell’epoca, su cui l’attore racconta di essersi preparato, Ligabue appare infatti come una creatura dal corpo sempre in tensione. Passeggiava nei boschi tenendo appeso uno specchio al collo, riflettendo la propria immagine nella natura circostante. Prima di addormentarsi indossava abiti femminili per sentire accanto una presenza di donna che mai gli fu concessa dalla vita, se non in rari momenti di tenerezza con Cesarina, ragazza che lavorava nell’osteria locale e di cui si era innamorato – “Dam un bes, dam un bes”, le chiedeva. Emetteva un sibilo simile al cantare degli uccelli, e quando disegnava contorceva il proprio corpo per replicare su di sé l’anatomia, i versi e le espressioni degli animali, quasi fosse un rituale magico per compiere la metamorfosi ultima che l’avrebbe trasformato in bestia, lui che tra le “fiere” diceva di sentirsi più a suo agio che con gli uomini. Se un’opera gli piaceva ci dipingeva una farfalla, simbolo di gioia. “Provava per loro un amore fortissimo e su tutti esercitava uno straordinario potere”, scriveva Mazzacurati, l’amico pittore. “Ricordo che, in seguito, quando si stabilì nella fattoria vicino alla mia casa, bastava che facesse degli strani gesti con le mani e le braccia […] perché tutti gli animali, come impazziti, gli corressero intorno”.

Proprio il rapporto con gli animali e il mondo naturale è l’altro tema portante della pellicola di Diritti. La vita e le opere di Ligabue sono infatti una denuncia sul dominio esercitato dall’uomo sulla natura e sul rapporto di estraneità che vi si è creato. “C’è anche la scoperta della natura come punto di riferimento fondamentale”, racconta il regista a proposito di alcuni lavori precedenti. “Noi siamo abituati ormai a vivere in una dimensione fortemente antropizzata, un mondo a nostra immagine e somiglianza nel quale ci sentiamo potenti. Invece, quando ci si rapporta con la natura tutto si ridimensiona, si spegne la nostra arroganza e si relativizzano i nostri problemi. Il contatto con la natura è una ricetta utile per tutti, è un percorso che può toccare anche la fede e la Chiesa stessa”.

Se, come ha scritto il critico d’arte Sandro Parmiggiani, “gli autoritratti di Ligabue sono un grido nel silenzio della natura e nell’indifferenza e nella sordità delle persone che lo circondano, spesso inconsapevoli delle sofferenze che possono essere inflitte a una persona quando non se ne vede e non se ne colga la perenne, inalienabile, identità di uomo”, Volevo nascondermi offre un ritratto poetico dell’uomo al di là dell’artista e ci ricorda la nostra abitudine di negare l’umanità di chi decidiamo essere “l’altro”.

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