Non abbiamo mai imparato a parlare della morte. Nemmeno in questi tempi, quando si pensava che la pandemia ci avrebbe almeno aiutato a rompere il tabù che la circonda. Il vocabolario è tanto ampio quanti sono i modi con cui evitiamo di nominarla direttamente, saltando da un giro di parole all’altro. A chi se ne va, scriveva Vitaliano Trevisan, non riusciamo a perdonare di averci lasciato un perfetto improvviso vuoto, “pieno circondato delimitato chiuso circoscritto inscritto descritto colmo di un vuoto intollerabile”. La negazione, una sorta di interdizione tacita e consensuale a parlarne e la riduzione di una ritualità comune attorno al morire hanno reso l’individuo ancora più solo nell’affrontare quel vuoto intollerabile e fatto scomparire una risposta collettiva. Lutto e dolore, un tempo e in altre culture ancora celebrati apertamente, sono nella contemporaneità occidentale legati a un senso di vergogna ed espressi esclusivamente nella sfera privata. Se il modello consumistico odierno prevede una felicità a tutti i costi, a essere rimossa è anche la possibilità che la morte non sia solo il risultato di determinate cause – su cui siamo incessantemente al lavoro con la speranza che scomparse loro scompaia anche lei – ma il frutto di una consapevole scelta individuale.
Selbstbestimmung, autodeterminazione. È da questo principio che nasce la richiesta di André Bernheim, il padre 85enne di Emmanuèle, ricoverato in ospedale in seguito a un ictus. “Sopravvivere non è vivere”, ripeterà spesso nelle scene del nuovo film di François Ozon È andato tutto bene, al cinema dal 13 gennaio. Non c’è nulla che possa fargli cambiare idea. Dopo una vita piena di cose – viaggi, collezioni d’arte, spettacoli teatrali e ristoranti provati sempre prima degli altri, per restare aggiornato su tutto – André non ci sta a restare in scena diventando qualcosa di altro da sé, un corpo in cui non si riconosce, che va pulito come un bambino. Selbstbestimmung, autodeterminazione: aiutami a farla finita, chiederà alla figlia. Nonostante la tematica affrontata, il ventesimo film di Ozon – coronamento di poco più di vent’anni di una carriera particolarmente felice e prolifica – non spinge lo spettatore alle lacrime, gioca anzi con una leggerezza che insegue più la commedia e il ritmo delle pellicole d’azione, stemperando i momenti empaticamente più duri nella tenerezza e nell’ironia. André non ha paura, tanto che parla della propria richiesta così apertamente da finire per sembrare cinico. “Perché ha dovuto chiederlo proprio a sua figlia?”, chiede Serge, il compagno di Emmanuèle. “Proprio perché sono sua figlia”, risponde lei. È lucido, fermo, a tal punto da riuscire ad abbandonarsi a lunghi sguardi languidi su infermieri piacenti.
Per André è chiaro che la sua volontà è personale e desidera che il suo diritto sia rispettato, perché non può più vivere nel modo in cui ama farlo. In Francia, però, la legge Leonetti, approvata nel 2015, ha introdotto solo un “diritto alla sedazione profonda e continua” valido per i malati in fase terminale, contro l’accanimento terapeutico. André ha un’autenticità forte e sincera, con cui riconosce le storture della società. Morire dignitosamente sembra infatti un privilegio solo per ricchi: il costo dell’operazione è di 10mila euro. André non ha problemi di soldi, ma con poche battute Ozon evidenzia come l’acquisizione dei diritti più umani, come appunto l’eutanasia, non possa prescindere da uno sguardo – e un’inclusione – trasversale rispetto alla classe sociale. Emmanuèle – scelta ironicamente nonostante da bambina abbia più volte desiderato di ucciderlo per davvero quel padre crudele e terribile – si trova infatti costretta dallo Stato a ricorrere a un’associazione svizzera. “Come fanno i poveri?”, chiede André. “Aspettano”, gli risponde Emmanuèle.
Quella di È andato tutto bene è una vicenda reale, dalla forte connotazione autobiografica. Il film, infatti, è tratto dall’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim, scrittrice e sceneggiatrice scomparsa alcuni anni fa, che con Ozon aveva collaborato in diverse opere, come Sotto la sabbia e Swimming Pool. “La morte di Emmanuèle, la sua assenza, mi hanno fatto desiderare di essere ancora con lei”, ha spiegato il regista. Se già in Grazie a Dio il cineasta si era cimentato con una tematica sociale, quella degli abusi sui minori nella Chiesa, partendo da un’esperienza personale poi allargata all’esplorazione della portata politica dell’argomento, qui si focalizza sul personale di Bernheim. Il film non diventa mai, un dibattito sull’eutanasia, o più precisamente sul suicidio assistito. La scelta di André non viene presentata secondo un giudizio morale, ma con un occhio intimista che non scade mai nella retorica e si sofferma, piuttosto, sulle dinamiche familiari. È nelle zone grigie create dalla malattia che figlia e padre scoprono il proprio legame. “Ovviamente siamo tutti spinti a esplorare i nostri sentimenti e le nostre domande sulla morte ma quello che mi interessava sopra ogni altra cosa era la relazione fra il padre e le figlie”. Non c’è nulla di più intimo, infatti, del rapporto con la vecchiaia dei nostri genitori, con quel momento in cui ci accorgiamo che iniziano a non essere più autonomi, quando le parti si invertono e ci si sente anche inadeguati, spaesati, e il ruolo di figli e figlie assume delle connotazioni diverse. Tocca a noi, ora, prenderci cura.
In quella nuova intimità ci si ritrovano non solo Emmanuèle (Sophie Marceau) e il padre (André Dussollier), ma anche la madre, affetta da Parkinson e depressione da tempo; G.M., che nel film si chiama Gérard ma verrà soprannominato Grosse Merde, l’amante di André, che ora non vuole più saperne; Pascale (Géraldine Pailhas), la sorella di Emmanuèle, meno capace di affrontare la decisione del padre. Nel quadro familiare, Pascale è riuscita a scappare dalla sua famiglia, ma soprattutto dall’amore divorante del padre, costruendosene una propria. Sempre vicine, è nella consolazione tra sorelle che si scioglie la speranza che il genitore cambi idea. André è infatti tutto tranne che un personaggio patetico. Mentre la narrazione procede nello scorrere dei mesi che separano l’uomo dalla data scelta per il viaggio in Svizzera, André si sente sempre meglio, tanto da iniziare un giro di addii di parenti e amici, e festeggiare nel suo ristorante preferito. È completamente onesto verso se stesso e gli altri: non indossa maschere, non accetta le convenzioni. Ozon porta in scena un dramma umano per sottrazione, che grazie alla negazione di qualunque pietismo si trasforma in un inno alla vita.
Selbstbestimmung, autodeterminazione. La scelta di ricorrere al sucidio assistito non è il culmine di una cultura moderna investita dal nichilismo e dall’individualismo, bensì la voce di una società che ha posto la cura dell’Altro come movente del proprio agire. È il punto di partenza per permettere a chi lo desidera di porre fine alle proprie sofferenze senza sentirsi un reietto e senza mettere potenzialmente in pericolo di fronte alla legge le persone che decidono di aiutarlo. Non è cercando di schivare quel vuoto intollerabile e pieno che la morte di una persona ci impone, ma solo tutelandone la dignità che potremo davvero dire che in fondo sì, è andato tutto bene.