Ho visto Dunkirk ad Amsterdam, in un cinema che da fuori sembra un’astronave e dentro ospita di tutto: un museo, due bar, un gift shop e un ristorante dove si mangia male. Sono andato in anticipo perché, una volta chiuse le porte, nessuno entra e nessuno esce per centosei minuti. Come al concistorio. In sala regnava il silenzio e ho visto qualcuno zittire il vicino intento a scartocciare un pacchetto di patatine. Non c’è stata pubblicità – e un po’ mi è mancata, abituato io ai cinema di provincia con i cartelloni della Bertelli Arredamenti – e mentre lo schermo si allargava per la proiezione in 70mm, l’equivalente di una lunga masturbazione per i cinefili di tutte le età, pensavo che il film non mi sarebbe piaciuto.
E così è stato. Dunkirk, come tutti i war epic milionari – e qui si vocifera 100 milioni – mi ha lasciato la stessa bocca di un caffè americano freddo. Il copione, scritto sempre e comunque dai vincitori, è lo stesso dei tanti Save the private Ryan che Hollywood ha regalato alla mia generazione e non solo. Tromboni, con scene mute da tachicardia, musiche invadenti, ricostruzioni imponenti e inesatte, approfondimento psicologico dei personaggi nullo, dialoghi copiati paro paro da una puntata di Mistero (“There is no hiding from this, son” dice il capitano della feluca in Dunkirk).
Questa volta, in più, c’è la firma di Christopher Nolan. Il regista inglese, una carriera basata su giochini spaziotemporali sempre uguali, ha infatti costruito il film su tre livelli temporali concatenati – e pericolanti – che impegnano lo spettatore ingnaro, per buona parte del film, a chiedersi cosa cazzo c’entrano una settimana, un giorno e un’ora. E questo è il primo spolier.
Pure nella colonna sonora c’è lo zampino del regista. Chiunque abbia visto il film – magari non in streaming versione cam – avrà sudato sette camicie per la tensione che provoca la musica a firma del buon vecchio Hans Zimmer, già compagno di merende del Nolan. Zimmer, lo sappiamo, ha la passione per i ticchettii e per le scale che non smettono mai di salire. Anche in Dunkirk ci ha piazzato entrambe: un tic da esaurimento nervoso – l’unico momento di respiro arriva oltre metà film e comunque è una finta – e uno Shepard Tone che per capire bene di cosa si tratta vale la pena guardare questo video qui. Poi la smetto con gli spoiler.
Insomma Dunkirk non mi è piaciuto perché ha centrato le aspettative. Compresa quella di vedere Tom Hardy con la maschera (vedere The Dark Knight Rises) e che dice roba incomprensibile ai non aviatori per il 90% del film, salvo poi incarnare le speranze di tutti perché uccide un sacco di cattivi, salva un sacco di buoni, e si sacrifica per la patria a viso finalmente scoperto. Ma lui può perché è Tom Hardy e ha fatto anche film belli come Bronson e Locke.
Anche la scelta di un cast con più stalle che stelle è una banalità. Tolte le migliaia di comparse, una macchina da guerra degna dei maggiori kolossal anni cinquanta, il bell’Hardy e Kenneth Branagh hanno la stessa funzione di due specchietti per allodole. Poi ci sono i giovani. Il bravo e futuro teen idol Fionn Whitehead, aka cliché vivente, che ricorda il mito Hollywoodiano dell’attore lavapiatti. Ed Harry Styles che porta gente al tavolo come i PR in discoteca. Nolan ha provato a vedere il tutto come scelta artistica – abbiamo bisogno di giovani sconosciuti perché così erano i soldati in guerra – ma il cast sembra piuttosto una market-furbata: spettacolo dei grandi numeri e star mirate per ammaliare tre generazioni di pubblico.
Dunkirk non è nulla di nuovo sotto il sole. Eccetto per la potenza del mezzo tecnico. E qui è un attimo e saremmo alla fiera del geek. Basterà quindi dire che Dunkirk è il film a più alta risoluzione mai girato e che Hoyte van Hoytema, DOP e altro compagno di merende del Nolan, ha usato qualche milione di dollari per portare cineprese ingombranti e pesantissime (IMAX 65mm) dove nessuno mai. Per dirne una, i Supermarine Spitfire che vedete volare nel film – e questo non è spoiler perché sono nel trailer – volano davvero. Come ugualmente “vera” è la maggior parte dei paurosi effetti speciali che sono ripresi direttamente in camera e senza l’utilizzo di computer generated images: una rarità, in tempi d’ipertrofia del digitale, anche per le grandi (co)produzioni hollywoodiane.
Ma la tecnica non è abbastanza, se il film è sciapo. E Dunkirk è soltanto azione, non un quadro sperimentale sulla guerra né una riflessione sull'(in)umano. È una colla da poltrona che dura centosei minuti e che, alla fine, almeno a me, ha lasciato la sgradevole sensazione di aver visto il gameplay di qualcun altro.
Ciò detto, la cosa più sorprendente, e peggiore del film stesso, è stato l’osanna unanime della critica. Passata in massa al supermercato delle frasi a effetto, la stampa ha decantato le lodi di un Christopher Nolan demiurgo visionario – del resto bastava fare un film di guerra dalla parte degli Alleati per convincere tutti – e del suo ultimo capolavoro impressionista, altrimenti detto totale, viscerale, cerebrale e chi più ne ha…
Dunkirk santo subito e per tutti. È piaciuto anche ai Militant, cazzo. Mentre altri ne hanno fatto l’allegoria universale di tutte le brutture del nostro tempo: dalle traversate dei migranti alla Brexit passando per gli sciovinismi europei e tarapia tapioca come se fosse antani con la supercazzola prematurata. Come se, lo scrivo maiuscolo, UN FILM DI GUERRA per certi versi militarista e retorico potesse davvero regalarci qualcosa più d’una visione pornografica della guerra stessa. Che, va bene, Nolan ci fa sentire paurosa ma di cui noi alla fine godiamo.
A rompere il fronte delle critiche all’acqua di rose è stato Goffredo Fofi, che su Internazionale ha stroncato l’opera di Nolan. Ma un po’ alla cazzo. Fofi parte infatti dal nome del film che i distributori italiani avrebbero lasciato colpevolmente in inglese a sfavore del nome originale della città, Dunquerke. Ma come avremmo dovuto titolare il film in Italia nessuno lo sa. Forse Doncherche? Insomma arrampicate sugli specchi, Brexit anche qui, e l’ufficio complicazioni affari semplici per dire che Dunkirk può anche non piacere.
Perché è un film prevedibile e freddo. Ma soprattuto vuoto. L’unico messaggio “altro” che trasmette è un grosso dito medio ai baby-concorrenti della sala cinematografica come Netflix. Nelle tante interviste fotocopia piene di applausi e Q&A infinitesimali, infatti, Christopher Nolan batte sempre su un unico chiodo: Dunkirk deve essere visto in grande perché è un’esperienza. Un 3D in 2D senza occhialoni, poltrone che si muovono e altre cagate del genere. Soprattutto è qualcosa che non può stare nello schermino di un PC. Dunkirk si può quindi leggere come una scaramuccia da qualche centinaio di milioni. Come a dire che un certo tipo di cinema, con buona pace dei voli pindarici della critica, è just business.