La possibilità che il genere umano possa provocare una sesta estinzione di massa nella storia della Terra è una percezione che si sta insinuando tra gli abitanti del pianeta. Registi e scrittori, termometri dei desideri e delle paranoie collettive recepiscono l’angoscia e generano scenari narrativi che immaginano la grande catastrofe. Che tu scorra i suggerimenti di Netflix o che sia in libreria a sfogliare le pagine delle nuove uscite, troverai distopie, metropoli spazzate da piogge acide, nuovi pianeti per sostituire la Terra a fine vita. Le conseguenze che le attività umane hanno sull’ecosistema, e quindi sull’uomo stesso, si stanno manifestando progressivamente. Il pericolo è percepito, ma non interiorizzato. La tendenza generale è quella di sottovalutare i dati fisici e scientifici mentre gli interventi per ridimensionare l’impatto ecologico delle attività umane sono continuamente procrastinati. La nostra psiche reagisce a questa inerzia lanciandoci segnali di disturbo e la fantascienza è una sonda estremamente efficace per rilevare quello che si muove nell’inconscio collettivo.
Con l’eccezione di Interstellar – la storia di un gruppo di astronauti che abbandona la Terra biologicamente morente per cercare un pianeta alternativo – i film e le serie che rappresentano criticamente il rapporto tra uomo e natura sono generalmente insoddisfacenti. Altered Carbon, 3% e Occupied sono alcuni dei titoli più recenti. Nell’editoria ci sono tentativi più o meno riusciti. Annientamento di Jeff VenderMeer è di certo il più originale, ma per trovare una grande narrazione dobbiamo tornare a Dune. Nel libro scritto da Frank Herbert mezzo secolo fa c’è esattamente quello che cerchiamo oggi: non è solo un grande storia, ma anche una sorta di bengala lanciato nell’oscurità delle paranoie contemporanee.
Dune è un’opera avveniristica e potente che non ha lasciato immune nessuno di quelli che l’hanno letta. I profeti della Kosmische Musik negli anni Settanta sono stati tra i primi a essere segnati da quell’esperienza: Klaus Shulze confessò di esserne rimasto sconvolto e a quella scoperta dedicò un intero disco. Nella fotografia in bianco e nero dello studio di Berlino dei Tangerine Dream, a fianco di sequencer, droghe tibetane e sintetizzatori semi-modulari a sintesi sottrattiva, c’era il tomo di Dune. Visionari ed eremiti vedono nella lettura di quel libro una data spartiacque nelle loro esistenze. Ma non si tratta di un riferimento solo per ristretti circoli di militanti underground. La sua lettura è stata citata come un’esperienza fondamentale anche da alcuni artisti e scrittori arcinoti come Jodorowski, Brian Eno, Stephen King o George Lucas. David Lynch ha dichiarato di esserne stato persino illuminato (e purtroppo si è anche sentito autorizzato a trarne un dimenticabile film).
Le ragioni che rendono Dune un romanzo eterno sono diverse. Innanzitutto, la vasta ed eterodossa preparazione del suo autore. Frank Herbert è stato un ragazzo brillante e curioso, cresciuto con i genitori alcolizzati durante gli anni della Grande depressione. Quando in casa le cose si mettevano male, lui partiva per lunghe esplorazioni solitarie nella natura portando con sé tutti i libri su cui riusciva a mettere le mani. Chi lo incontrava lo vedeva sempre assorto nella lettura o mentre camminava da solo con qualche tomo sottobraccio. Grazie all’autodisciplina, riuscì a diventare giornalista ed è stato proprio mentre si documentava per un suo articolo che concepì Dune. Aveva iniziato a seguire con attenzione gli esperimenti ecologici che il Dipartimento dell’agricoltura statunitense compiva per trovare un metodo capace di contrastare l’avanzata delle dune di sabbia che sconfinavano sulle strade e rendevano i campi sterili. Il Dipartimento scoprì che era possibile arginare la desertificazione piantando erba e bassa vegetazione in modo che formassero una barriera naturale. Un giorno, Herbert stava volando su un Cessna monomotore sopra il luogo dell’esperimento per prendere appunti e scattare fotografie quando, guardando giù lo scorrere delle aree desertiche, fu colto dall’illuminazione da cui sarebbe nato il suo capolavoro. Appena atterrato iniziò immediatamente ad accumulare nuovo materiale scientifico, saggi di ecologisti, metereologi, rapporti di conferenze.
Dune è il nome con cui è conosciuto Arrakis, il pianeta al centro della storia. Immaginando di osservarlo ruotare nello spazio da una delle sue due lune non scorgeremmo alcuna traccia di oceani, fiumi o laghi. II colore dominante del pianeta è il giallo della sabbia, interrotto solo dal bruno delle venature rocciose. Non c’è traccia di verde, non c’è azzurro, non c’è blu. La superficie è spazzata da tempeste di sabbia che possono raggiungere gli ottocento chilometri orari mentre vermi immensi, grossi come dieci petroliere messe una in fila all’altra, solcano i suoi deserti. Tutto su Dune è contrario alla vita, tutto porterebbe a considerarlo un pianeta remoto e inospitale, inadatto a una colonia. Ma le sue sabbie nascondono un bene prezioso, una sostanza assoluta fonte al tempo stesso di cultura, commercio e mobilità: la spezia. Per possederla l’Impero, un’organizzazione economica e politica che comprende centinaia di sistemi solari, manda sul remoto Arrakis le sue mietitrici, enormi cingolati capaci di sfidare i deserti, ma che, nonostante le dimensioni, sono vulnerabili alla furia dei vermi. Le mietitrici devono quindi essere sempre accompagnate da velivoli da trasporto che hanno la duplice funzione di avvistare i vermi in avvicinamento e di agganciare le mietitrici e metterle in salvo prima che vengano inghiottite. Le spedizioni per estrarre la spezia comportano perdite endemiche in uomini e mezzi, un enorme dispendio di energie che l’Impero è disposto a subire pur di accumulare la preziosa sostanza.
Il rapporto dell’uomo con il pianeta è predatorio, non c’è una reale comprensione delle dinamiche naturali che lo governano. L’uomo sfida l’ostilità del deserto con una forza ottusa, vive trincerato nelle città fortificate di Arrakeen e Cartagh e manda le pesanti mietitrici per recuperare la spezia. Il traffico è organizzato dalle casate imperiali che riescono a vivere solo divorandosi le une con le altre. La loro lotta è costosa e comporta un continuo spreco di risorse contrario alla legge del deserto. I Fremen invece, gli unici esseri umani su Arrakis che riescono a sopravvivere fuori dalle città, conoscono e rispettano il loro habitat. Hanno imparato a bilanciare forza e obiettivi, conoscono il principio di preservazione e hanno interiorizzato la ciclicità che governa l’ecosistema. Un fremen può sopravvivere all’alto deserto per tre settimane senza una sola goccia d’acqua grazie alla sua preparazione ed alla tuta distillante, un prodigioso dispositivo che aderisce al corpo e che, filtrando sudore corporeo e urina, rimette in circolazione i liquidi. Su Arrakis le piogge non sono rare, ma del tutto assenti e questa privazione, più di ogni altra, ha insegnato ai Fremen l’adattamento alle leggi naturali.
I Fremen, a differenza delle casate imperiali, ragionano in termini di collettività. Non sono dilaniati da pulsioni individualistiche o faide familistiche. I loro rifugi sono i sietch, al tempo stesso unità comunitarie e caverne sotterranee ecologicamente autosufficienti. All’interno del sietch i vecchi muoiono e i giovani comandano. Prima che un vecchio se ne vada, qualunque sia la sua mansione, trasferisce le proprie conoscenze al giovane che lo sostituirà. L’addestramento fisico e sapienziale dei giovani ha un ruolo fondamentale per i Fremen. Le condizioni ambientali estreme in cui vivono non permettono né indolenza, né approssimazione. L’errore di un singolo può condannare tutti. La vita nel sietch è dura, ma riserva anche gioie ed estasi senza pari come quella di cavalcare uno dei vermi delle sabbie, leviatani indomabili per qualunque altro essere umano che non sia un Fremen. L’empatia con il territorio permette al popolo del deserto di interpretare correttamente il rullo tra le dune che ne annuncia la venuta e di indovinare il momento esatto in cui il verme aprirà la superficie con la sua cresta. I Fremen detengono una forza pagana e vitale e lavorano segretamente a un progetto di cui non rivelerò nulla.
Dune è un libro molto più complesso della semplice contrapposizione tra Impero e Fremen, è un libro-mondo che ci permette di immaginare alternative a noi stessi e al sistema economico e parentale del nostro presente. È un libro organico, autosufficiente, coerente, in cui prendono forma strategie di adattamento e scelte collettive prese in vista del bene comune. Quando Frank Herbert lo scrisse l’ambientalismo non esisteva, ma lui già ragionava in termini di ecosistema. Herbert non dedicò il libro a mogli o figli come usano fare gli scrittori, la sua prima pagina è invece dedicata agli ecologi del futuro: “A loro, dovunque essi siano, in qualunque tempo essi operino, dedico questo mio tentativo di anticipazione, in umiltà e ammirazione.”