“Dream Scenario” mostra l’esasperazione del dualismo con cui viviamo la nostra identità digitale - THE VISION
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Non ricordo quando ho visto per la prima volta il viso dell’uomo in bianco e nero che accompagna la scritta Ever dream this man?. Sono sicura che sia successo da qualche parte su internet, e sono sicura di aver creduto che fosse vero. Si tratta di un cartello segnaletico che ritrae il volto di un uomo che sorride, sopracciglia folte, pochi capelli, ha un’espressione mite e contemporaneamente inquietante. Sembra un uomo qualunque e, in effetti, ha tutta l’aria di una comparsa: potrebbe essere una persona che si perde nello sfondo di un film. Solo che, nel caso di questa locandina, il film è un sogno, e la domanda riguarda un finto ricordo condiviso da migliaia di persone che nel 2006 hanno giurato di aver visto l’uomo, detto This man, mentre dormivano. In realtà, questa persona non esiste, e il sito web che raccoglieva le testimonianze dell’attività onirica invasa dalla presenza dell’uomo col sorriso gentile ma angosciante famoso in tutto il mondo è l’opera di un sociologo e pubblicitario italiano con un’importante esperienza nel guerrilla marketing: Andrea Natella. Esperimento riuscito così bene da far pensare a molti, me compresa, che forse quell’uomo era davvero entrato nei sogni di tutti.

È questo il presupposto da cui parte Dream Scenario, il film del regista norvegese Kristoffer Borgli. Nicolas Cage, nei panni di Paul Matthews, si ritrova gradualmente a essere quell’uomo che tutti sognano. Prima le persone che vivono intorno a lui, le sue figlie, i conoscenti, i suoi studenti all’università in cui insegna; poi cominciano a vederlo nel sonno anche persone che non lo hanno mai conosciuto, né hanno idea di chi sia. Un’ex fidanzata lo incontra per caso e gli chiede di poter raccontare su un blog di psicologia questa strana coincidenza: non si vedono da anni, eppure lui è là, di notte, nelle stanze che la sua mente costruisce quando dorme. La vita di Paul Matthews comincia così a moltiplicarsi all’interno della vita di migliaia di persone, di giorno è un professore di biologia, di notte è il fantasma che si materializza negli scenari che compongono i sogni di tutti quelli che denunciano la sua presenza, prima solo inquietante, poi ingombrante, fino a diventare violenta.

La dualità tra sonno e veglia non è un tema estraneo al cinema, soprattutto a quello recente. Nel 2001 uscivano infatti sia Vanilla Sky, di Cameron Crowe, che Mulholland Drive, tra i film più importanti di David Lynch. Nel primo Tom Cruise si affida a una società avveniristica che ti permette di ibernarti in un sogno perenne che decidi tu, cliente, che direzione prende; mentre una parte fondamentale della trama del secondo è proprio sull’incubo. Nel 2010, Christopher Nolan ha vinto quattro premi Oscar con Inception, creando una sorta di neologismo da social, oltre che una serie di meme abbastanza famosi – Leonardo Di Caprio che parla con Cillian Murphy, la trottola che alla fine del film lascia in sospeso l’esito della trama. Si dice “è un Inception” per fare riferimento alle scatole cinesi di sogni dentro ai sogni con cui si confrontano i protagonisti del film, in un complicato labirinto di finzione e realtà che dilata il tempo della vita onirica e rende possibile la creazione di mondi dentro altri mondi così dettagliati da sembrare veri. Anche Michel Gondry, nello stesso periodo di Nolan, ha sperimentato con l’alternanza tra sogno e reale, sia in The Eternal Sunshine of The Spotless Mind, film di culto degli anni Zero con Jim Carrey e Kate Winslet nei panni di una coppia che ha deciso di sottoporsi a un trattamento di cancellazione della memoria per dimenticarsi della loro storia d’amore, sia ne L’arte del sogno, del 2004. Al contrario di Nolan, però, Gondry usa la messa in scena onirica come occasione per creare un’estetica del tutto surreale: se le strade di Parigi in Inception sono perfettamente sovrapponibili a quelle che vengono costruite dai sogni dei protagonisti, le strade di Parigi e i suoi interni ne L’arte del sogno hanno un aspetto a metà tra un teatro di marionette e la scenografia di un programma per bambini in stile Melevisione.

Il set onirico di Dream Scenario è accompagnato da un elemento diverso rispetto a quello composto in questi film, un aspetto centrale non solo nella terza opera di Borgli ma anche nel suo secondo lungometraggio, Sick of Myself. Entrambi i protagonisti, infatti, sono persone che non accettano il loro stato di normalità: entrambi vogliono farsi notare, uscire dall’ombra che li trattiene in un’esistenza mediocre, piatta. Signe, la giovane protagonista di Sick of Myself, decide di assumere un farmaco russo fuori commercio per indursi tramite i suoi effetti collaterali una malattia funzionale alla popolarità. Il suo volto sfigurato e la sua sofferenza, apparentemente spontanei ma frutto di un piano d’azione preciso, possono diventare il motivo per cui qualcuno ha voglia di ascoltarla, di seguirla, di accorgersi della sua esistenza. Una luce che si accende sulla vita di una ragazza insoddisfatta grazie al compatimento e alla curiosità che un corpo distrutto da una malattia, ma coraggioso abbastanza da mostrarsi in tutto il suo dolore, può generare in una dimensione di bulimia del racconto e della morbosità nei confronti delle patologie sia proprie che altrui. Anche Signe, come Paul, vive a metà tra il sogno e la realtà, in una serie di avvenimenti che non risultano del tutto comprensibili, è lei che sta sognando di essere diventata un’influencer famosa, ricercata e ricca grazie alle bende che porta in faccia o è la malattia che la sta divorando fino a farla morire in un delirio di felicità?

Paul Matthews vive una frustrazione simile, reificata in un aspetto tanto ordinario dall’essere respingente, e alimentata professionalmente dalla poca rilevanza accademica che si concretizza in veri e propri furti intellettuali da parte di suoi colleghi più brillanti. Da un punto di vista pratico, Paul ha una vita molto più stabile e soddisfacente di quella di Signe, eppure il sentimento che nutre nei confronti del mondo circostante non solo ricorda quello della ragazza disposta a tutto pur di diventare famosa per quindici minuti, o virale per quindici secondi, ma arriva a superarlo. Nel momento in cui si rende conto che essere diventato The man che tutti sognano vuol dire essere entrato nell’alta rotazione dei palinsesti mentali di tutto il mondo, l’occasione per trasformare questo status di celebrità in una rivoluzione per la propria esistenza grigia è troppo forte per non essere colta. Entusiasta della nuova avventura esistenziale che dà una scossa di eccezionalità alla sua routine modesta, Paul si rende conto solo in modo graduale del fatto che la sua presenza involontaria nella vita degli altri, più che eccitante o attraente, è perturbante, fino a diventare ingestibile.

In Sick of Myself Borgli si limita a rappresentare la parte più superficiale e immediata della cultura dell’immagine che fa da collante a internet oggi. Con Dream Scenario, invece, il regista fa un passo avanti e collega l’esperienza di Paul Matthews a quella del mondo del marketing virtuale. Intercettato da un’azienda che sfrutta la viralità per campagne pubblicitarie legate al mondo del tech, una versione modernizzata dell’operazione di Natella, il protagonista diventa la chiave per portare qualsiasi sponsorizzazione nei sogni dei consumatori. Studiare il suo caso vuol dire elevare il potenziale dell’algoritmo ai suoi massimi livelli, perfezionando la precisione e l’invasione mentale di cui già oggi, senza entrare nel distopico cinematografico, abbiamo esperienza con i nostri smartphone e la targetizzazione che infesta i social dentro cui comunque siamo noi stessi a trascorrere tempo, senza che nessuno ci obblighi, un po’ come nei sogni. La trasformazione di Paul Matthews da idolo delle masse a protagonista di un’enorme shitstorm che perde presto la sua connotazione digitale per diventare reale – una cancellazione in carne e ossa dell’uomo qualunque che è diventato l’uomo da odiare – è l’esasperazione della dualità con cui il presente vive la distinzione tra la vita online e offline. Una distinzione che si assottiglia fino a far prevalere l’immagine o l’idea (anche falsa come può essere un sogno) sulla realtà delle cose.

L’uso del sogno che c’è in Dream Scenario è diverso da qualsiasi altro uso del sogno nel cinema prima d’ora proprio per questo motivo. Se in passato erano film come Matrix a raccontare l’angoscia di un futuro ignoto, in cui la realtà diventa un simulacro e non più qualcosa di fisico e distinguibile, nel presente questa paura è di fatto la sostanza di ogni giorno, che viviamo da utenti e da esseri umani sempre meno in grado di separare le due entità. Il sogno condiviso, dove tutti incontriamo Paul Matthews, un’immagine senza personalità se non quella che gli attribuisce ciascuno rendendolo un assassino, un violento o uno stupratore, a seconda della piega che prende nella testa di ciascuno, è la versione personale dello schermo attraverso cui quotidianamente ci nutriamo non solo di altre immagini, ma anche di informazioni, storie, nomi e notizie che dovrebbero rimanere in quello spazio etereo, ma che diventano invece sempre più concrete.

Mi capita spesso, come credo a molti, di sognare che una persona a me vicina mi faccia qualcosa di male: che mi tradisca, che mi abbandoni. Quando mi sveglio, per svariate ore sono convinta che quella persona abbia davvero compiuto quelle azioni malefiche; poi la sensazione svanisce e resta la consapevolezza che era solo un sogno. La stessa cosa succede quando vediamo un volto su internet, come quello pensato da Andrea Natella nel 2006. Ci convinciamo che potrebbe essere cattivo, o buono, un criminale o un eroe, ma di fatto è un’immagine e la realtà che dovrebbe subentrare nel momento in cui ci si sveglia dal sonno non sempre arriva, dal momento che dalla vita su internet, a differenza dei sogni, non ci svegliamo mai, o quasi.

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