Per i nati negli anni Ottanta e Novanta i film di animazione della Disney sono parte di una cultura pop condivisa in grado di suscitare volenti o nolenti ricordi indelebili. Ognuno ha, fra le memorie di infanzia, immagini legate alla visione di Aladdin, La bella e la bestia o Il re leone, per non parlare di Dumbo o Bambi; così come non è raro trovare nelle case dei millennials le VHS ancora ammonticchiate sugli scaffali, oppure stipate negli scatoloni in soffitta, in ricordo dell’immaginario che ci ha formato. Non sorprende quindi che la Disney voglia dare una nuova veste grafica ai suoi classici, per proporli a nuove generazioni di ragazzi. Il problema è che forse ha scelto la via sbagliata.
Da qualche anno gli studios del colosso americano stanno producendo remake realistici dei grandi classici: il primo è stato Cenerentola nel 2015, seguito dal Il libro della giungla di Jon Favreau nel 2016. Nel 2017 è stata la volta de La bella e la bestia, mentre nel 2019 abbiamo addirittura tre reboot: Dumbo, Aladdin e Il re leone, diretto nuovamente da Favreau. I nuovi lungometraggi si basano sul live-action, una tecnica che unisce animazione 3D e recitazione attoriale. In questo modo è possibile vedere un Aladdin completamente umano evocare un genio con il volto di Will Smith, una Belle interpretata da Emma Watson ballare con una Bestia digitalizzata, un Mowgli bambino attorniato da animali creati al computer. Nel caso de Il re leone però non si può parlare di vera e propria live-action, perché tutti i personaggi sono stati ricostruiti in CGI e gli ambienti proiettati su green screen. Difficilmente si sarebbe potuto far recitare leoni ed elefanti, per questo – a dispetto della campagna pubblicitaria sul live-action – si tratta di un “semplice” film di animazione. Ma al di là delle polemiche sulla terminologia da adottare, i lungometraggi della Disney presentano alcune criticità sul modo in cui è stata condotta la loro operazione di “svecchiamento”.
Prendiamo Il re leone: basta paragonare una sequenza dell’originale con la scena corrispettiva nel remake per accorgersi delle differenze tra le caratteristiche delle due versioni. Nell’originale si vedono Simba, Timon e Pumbaa cantare “Hakuna Matata” fra salti, acrobazie, e altri gesti antropomorfi; i colori sono accesi: la gamma varia dal verde smeraldo della foresta al giallo ocra del leone, passando per il marrone irreale del facocero. La seconda versione è molto più lineare: i tre procedono nella savana senza impegnarsi in particolari evoluzioni, in rispetto dei movimenti realistici degli animali; i colori predominanti sono il giallo e il grigio: più vicini alla vera savana, ma anche più spenti, meno d’impatto sullo schermo e sulla vista dei bambini. Così il muso degli animali ha perso la caratterizzazione antropomorfa del primo film, e di conseguenza la gamma dei sentimenti espressi attraverso i movimenti facciali è limitata.
I classici Disney si sono sempre basati sulla molteplicità dei registri: scene comiche e momenti toccanti si avvicendano sullo schermo, intervallati dal pathos di altre sequenze d’azione – come lo scontro con l’antagonista di turno o la fuga per salvarsi la vita – e dai caratteristici intermezzi canori. Il 2D ben si adatta a questo tipo di narrazione, perché attraverso di esso si possono rendere le situazioni più disparate, senza preoccuparsi della verosimiglianza, ma rimanendo fedeli solo alla coerenza interna della narrazione e allo stile della rappresentazione in grado di magnetizzare lo sguardo dello spettatore. Alcuni spezzoni sono un trionfo della fantasia, vere e proprie sequenze psichedeliche che mettono in mostra il matrimonio perfetto fra la tecnica in 2D e la creatività della regia Disney. Basti pensare alle molteplici e continue metamorfosi del genio della lampada in Aladdin, agli oggetti antropomorfi che popolano il castello della Bestia, all’ipnotica danza degli elefanti rosa in Dumbo. Siamo in un regno in cui la fiaba si mischia all’immaginario della contemporaneità, creando una miscela in grado di portarci in un territorio altro che nessuna resa foto realistica potrà mai restituirci.
I remake fotorealistici sono stati prodotti nella speranza che l’effetto nostalgia porti nelle sale i fan, ormai adulti, degli originali e che avvicini – tramite lo sfoggio di una veste grafica innovativa – le nuove generazioni al mondo Disney. Il fotorealismo tenta di coniugare un’estetica più seria, meno caricaturale e tecnicamente pulita, in grado di piacere agli adulti e allo stesso tempo richiamare l’estetica iperrealistica dei videogiochi, ovvero l’immaginario in cui sono immerse le nuove generazioni. Si produce però un effetto paradossale: sebbene i numeri al botteghino siano buoni, alcuni dei vecchi fan non restano convinti dalla nuova estetica – come sembrano testimoniare le diverse recensioni, se non proprio negative, sicuramente in grado di rilevare alcune criticità – proprio perché non riproduce quell’effetto cartoonesco, comico e sopra le righe alla base dei primi film in 2D, e quindi non si innesca l’effetto nostalgia che riporta all’infanzia. Come fa notare Austin Collins di Vanity fair: “Il nuovo Re Leone non è un disastro, ma è una lezione. È una lezione sul perché apprezziamo l’animazione. La apprezziamo come mezzo per trasmettere emozioni che sono più grandi sullo schermo che nella vita reale, ed espressioni esagerate, voli di fantasia, un rifiuto completo della fisica. Ma questo film privilegia la perizia tecnica rispetto alla sua storia e alle sue canzoni.”
Allo stesso modo gli spettatori più giovani non sono stimolati, perché si elude ogni effetto di meraviglia, colonna portante degli originali, e ci si affida a un’estetica già codificata: gli abitanti della savana ne Il re leone non sono dissimili dalle bestie di Far Cry, le evoluzioni del nuovo Aladdin ricordano quelle di Prince of Persia, nella foresta de Il libro della giungla potrebbe essere ambientato un capitolo di Uncharted. Non c’è nessuna volontà di trasportare lo spettatore di un universo fantastico, un altro mondo, dominato dalle regole della fantasia. Al contrario si ribadisce un immaginario già presente in altri media, risparmiandosi lo sforzo di inventare qualcosa di nuovo, che possa incidere nella coscienza collettiva di una generazione. La riuscita del film non si basa più sull’inventiva degli sceneggiatori e dei disegnatori, ma è affidata alla resa tecnica del prodotto, come se si dovesse consegnare allo spettatore un giocattolo dai meccanismi perfetti, piuttosto che un mondo da frequentare con la coscienza, e poi con la memoria.
A questo punto è lecito chiedersi se la corsa spasmodica all’ultima tecnologia non sia controproducente, e non sarebbe meglio tornare a sperimentare nell’ambito del 2D. Il 2D non è una scelta conservatrice, ma è la presa di coscienza che la semplice progressione tecnica non è sinonimo di miglioramento e qualità. Alcuni prodotti sono nati in una certa cornice, una veste grafica ben precisa che ne esalta le caratteristiche e in cui la forma e il contenuto si coniugano in maniera naturale, esaltando le caratteristiche della storia raccontata e allo stesso tempo il modo in cui è resa. Così non succede nei nuovi lungometraggi Disney che, al contrario, risultano appiattiti, incapaci di stupire e riprodurre la componente psichedelica, visivamente eversiva, multicolore e poliedrica degli originali. Nei remake si abiura a ogni elemento di vivacità in nome dello sfoggio asettico della tecnologia, in grado al massimo di impressionare, ma non di lasciare un segno nell’immaginario collettivo.
È vero che la Disney ha raggiunto il risultato sperato al botteghino, ma sull’altare degli introiti ha sacrificato la capacità di costruire una visione, di incidere lasciando un prodotto culturale innovativo. Al di là del successo commerciale, secondo alcuni commentatori, c’è il rischio che questi film non lascino un segno sulla platea, o quantomeno non abbiano la capacità di forgiare e di influenzare tanto profondamente l’immaginario di diverse generazioni, così come avevano fatto in passato i film Disney. I vecchi fan potrebbero non ritrovarsi nella nuova scelta estetica, ed è possibile che rimpiangano lo spirito fantasioso degli originali, e i nuovi – non avendo un territorio onirico in cui rifugiarsi – ai film Disney potrebbero finire col preferire i videogiochi, alla cui estetica si ispirano i remake. Non ci resta che tornare a casa dal cinema, accendere il computer o tirare giù dalla soffitta il vecchio registratore, rispolverare le VHS e vedere l’originale di Aladdin o del Re Leone, per tornare a commuoverci, e lasciare che anche i più piccoli scoprano una via di fuga dalla realtà, contribuendo per una giusta causa stavolta alla crisi del cinema.