A fine giugno, la nuova legge Zan contro l’omobitransfobia è approdata in Commissione Giustizia e il 27 luglio arriverà in Aula alla Camera dei Deputati per la discussione generale e l’approvazione. Nonostante l’Italia sia in ritardo di 25 anni sull’emendamento di un testo che prevenga e punisca le violenze e la discriminazione subite dalla comunità LGBTQ+, e nonostante quello proposto non sia un testo particolarmente elaborato ma rappresenti giusto il minimo sindacale, sin da subito le voci contrarie non si sono fatte attendere. La Cei l’ha definita una “legge liberticida” – perché, adattando un recente post del leghista Matteo Gazzini, “non c’è libertà senza razzismo” – e Matteo Salvini ha poi dichiarato la necessità di difendere anche le persone eterosessuali dai fantomatici attacchi di eterofobia e una componente del femminismo italiano, le TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminism), si sono scagliate contro la terminologia utilizzata inclusa da Zan nel testo di legge. A detta loro l’espressione “identità di genere” cancellerebbe la realtà dei corpi femminili. Il termine, comunque, era finito al centro di un acceso dibattito già nelle settimane precedenti a causa di una serie di tweet transfobici pubblicati da J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter. Come spesso accade, alla base di opinioni che minano le esperienze e le identità altrui non c’è altro che l’ignoranza del tema affrontato. Ormai è stato infatti riconosciuto da tempo da chi si occupa di questi temi all’interno del mondo accademico che ogni persona ha infatti una propria identità di genere, con cui si indica l’esperienza soggettiva del percepire se stessi in quanto appartenenti a un genere piuttosto che a un altro, senza rientrare necessariamente nel binarismo uomo/donna.
Ad alimentare il pregiudizio per cui le persone trans non appartengono davvero al genere a cui sentono di appartenere ha contribuito anche la rappresentazione che se ne è sempre data nella cultura popolare. Per delinearne una storia ragionata, su Netflix è uscito Disclosure di Sam Feder, ispirato, come ha rivelato in un’intervista a The Queer Review, a Lo schermo velato e Ethnic notions, due documentari che analizzavano la rappresentazione delle persone omosessuali e quelle afroamericane. Utilizzando materiale d’archivio di pellicole che hanno fatto la storia e interviste a persone trans dell’industria cinematografica, Disclosure riflette su come Hollywood abbia modellato le nostre convinzioni e paure sull’identità di genere. Nonostante il movimento LGBTQ+ americano contemporaneo sia nato dai moti di Stonewall del 1969, la rappresentazione della comunità restò sempre legata a stereotipi e improntata sul maschilismo.
Rappresentate sullo schermo dagli albori del cinema e della tv, perlopiù da uomini travestiti da donne, le persone trans sono sempre state ridicolizzate, ritratte in modo caricaturale e degradante. Nonostante il materiale raccolto inizialmente riguardasse circa 600 programmi televisivi e 400 film, il documentario si concentra su una cinquantina di titoli, scelti in base alle esperienze personali delle persone intervistate, tra cui, oltre all’attrice e attivista Laverne Cox, compaiono anche l’attore Brian Michael Smith, la storica Susan Stryker, l’attrice Candis Cayne e molti e molte altre. L’intero cast è costituito da persone trans, così come il personale di produzione. Per le posizioni per cui non sono stati trovati candidati adatti, Feder ha dichiarato di aver affiancato una persona cisgender con più esperienza a una trans più junior, così da trasformare le riprese anche in un momento di formazione sul campo.
I film vengono rivisti alla luce delle testimonianze di chi dovrebbe sentirsi rappresentato dai personaggi di quelle pellicole, e così vengono individuate narrazioni più riuscite (come Pose, Yentl e Ma Vie en Rose) e altre che invece, al di là della valenza cinematografica, hanno contribuito a creare gli stereotipi nocivi che minano l’esperienza trans. Basta pensare a cult come Psycho, Il silenzio degli innocenti e Vestito per uccidere in cui l’assassino è sempre un travestito o una persona trans che soffre di squilibri mentali dovuti alla propria identità. Essere trans passava allora – e ancora oggi – come sinonimo di morte e follia. Nel finale di Ace Ventura: Pet Detective, invece, dopo che Jim Carrey scopre che il capitano di polizia Lois Einhorn ha seguito un percorso di transizione, corre in bagno a vomitare ripensando al bacio che si sono scambiati, emulato da tutti gli altri ufficiali. Una scena tipica di molti film, in cui alla rivelazione della propria identità seguono scene di repulsione, violenza o allontanamento. L’unica reazione possibile davanti a una persona trans, comunicano questi film, sembra allora essere il disgusto.
Il documentario sottolinea anche altri punti critici, come la curiosità morbosa nelle interviste a chiedere dettagli intimi sull’avvenuta modifica o meno dei genitali, il continuo casting di persone trans per interpretare solo sex worker (“C.S.I.”), cadaveri o personaggi in fin di vita a causa del proprio percorso di transizione (“Grey’s Anatomy”). C’è poi l’invisibilità degli uomini trans neri, rappresentati sullo schermo solo in maniera caricaturale per depotenziare la presunta “iperviolenza” della comunità afroamericana, e il problema delle interpretazioni fatte da attori e attrici cisgender di vite trans, come Eddie Redmayne in The Danish Girl o Jared Leto in Dallas Buyers Club, che alimentano l’idea per cui essere trans sia solo una performance, niente di reale, un costume da indossare sullo schermo. Certo, la grandezza di una prova attoriale sta proprio nella sua credibilità, a prescindere dal ruolo, e non credo sia un problema se attori cisgender impersonino personaggi trans, o viceversa, se la rappresentazione portata sullo schermo non è caricaturale, ridicola e non alimenta stereotipi. Il problema è che ciò avviene principalmente solo in una modalità (cisgender a cui vengono affidati ruoli trans) e in un periodo storico in cui a determinati corpi e identità non sono riconosciuti gli stessi diritti, le stesse opportunità e lo stesso salario. L’obiettivo è riuscire a colmare questo gap e arrivare in un momento in cui attori e attrici trans potranno avere una scelta di ruoli adeguata alla loro bravura e non subordinata solo al fatto di essere trans.
“Volevo che le persone avessero più strumenti per comprendere i cambiamenti culturali e storici della nostra comunità e come siamo riusciti a diventare più visibili, tenendo a mente che la visibilità è solo un mezzo, non il fine”, ha commentato il regista in un’intervista a them.us. La soluzione proposta da Cox e Feder non è infatti censurare le opere del passato e metterle da parte, quanto più contestualizzarle, come accaduto a “Via col vento”. Nel documentario si sottolinea infatti come la rappresentazione caricaturale delle persone trans abbia influito sulle violenze e le oppressioni a cui sono ancora soggette. Attraverso la ripetizione quotidiana, i media modellano il modo in cui vediamo il mondo e le persone che ci circondano, la comprensione che ne abbiamo e il nostro immaginario, soprattutto quando l’unico incontro che abbiamo con determinate realtà avviene attraverso le immagini di uno schermo. Nel 2015, per esempio, l’84% degli americani affermava di non aver mai conosciuto una persona trans dal vivo. Una migliore rappresentazione non serve solo a educare le persone cisgender, ma anche a offrire a quelle trans un universo in cui riconoscersi.
La costanza dei media nel raccontare la vita delle minoranze per stereotipi ha effetti negativi sulla costruzione della personalità di un individuo, soprattutto se giovane. Impossibilitati a ritrovarsi in un qualunque sistema di supporto socio-culturale, si ha la sensazione che la propria vita – e quella delle persone come te – non sia degna di essere raccontata, pensata, discussa, celebrata. Uno studio del 2012 mostra infatti come la rappresentazione televisiva abbia un impatto sull’autostima della fascia più giovane. Su un campione di 396 bambini e bambine, nere e bianche, l’unico segmento demografico a essere sicuro delle proprie capacità e ad avere la tendenza a non sminuirsi dopo esser stato esposto a determinati prodotti culturali era quello dei maschi bianchi. “La svalutazione promuove e conferma (laddove siano già negative) percezioni distorte, pregiudizi, giustificazioni alla violenza. Discriminare costa perché essere oggetto di svalutazione, discriminazione e violenza di solito non è un atto subito singolo e isolato ma si inscrive negli ambiti quotidiani (casa, scuola, lavoro, tempo libero) e viene ripetuto nel tempo e spesso giustificato o scusato dalla maggioranza. Per questo c’è bisogno di persone trans nei media che rappresentino la propria comunità e diano voce alle problematiche di cui sono al corrente”, scrivono su Trans Media Watch Italia a proposito delle rappresentazioni sociali.
Secondo il report annuale Where We Are on TV di GLAAD, il 2019 è stato l’anno più positivo per la rappresentazione televisiva della comunità LGBTQ+. Non solo sono presenti più personaggi fissi queer rispetto al passato, ma è anche aumentata la loro diversità etnica. Oltre alla quantità, all’interno di una serie tv, conta però anche la qualità della presenza di un personaggio. Molti sono infatti inseriti solo per un’azione di marketing, per mostrarsi aperti e cavalcare i dibattiti contemporanei, ma il loro ruolo si riduce poi a una parte monodimensionale in cui tutto ciò che conta è l’essere queer, senza apportare un vero contributo allo svolgersi della trama. Per determinare se un prodotto sia davvero inclusivo o meno, GLAAD ha sviluppato il test di Vito Russo basandosi su tre semplici criteri: nella serie deve essere presente un personaggio identificabile come appartenente alla comunità LGBTQ+; il suo orientamento sessuale o la sua identità di genere non devono essere la sua caratteristica principale; la sua rimozione dalla serie comporterebbe un cambio nella trama.
Come nota Laverne Cox, inoltre, esiste anche il rovescio della medaglia: “Per la prima volta le persone trans prendono le redini della propria rappresentazione. Siamo in un’epoca di visibilità senza precedenti ma allo stesso tempo veniamo assassinate in maniera sproporzionata rispetto al resto della popolazione. Più siamo visibili, più siamo oggetto di violenza”. In America, nel 2020, sono infatti già state uccise almeno 21 persone trans o non binarie, ma è un dato sottostimato. Secondo l’indice Trans Murder Monitoring di Transrespect versus Transphobia Worldwide, l’Italia è il primo Paese europeo per numero di vittime di transfobia, con 36 casi segnalati dal 2008 al 2016.
“Speriamo che la visione di Disclosure sia un momento educativo e un punto di partenza per una discussione collettiva che arrivi al cuore della disumanizzazione che stiamo vedendo nei giornali e sui social media di questi tempi”, si legge in una nota pubblicata su Twitter dal regista. Peccato, però, che proprio Netflix usi un linguaggio solo maschile e poco inclusivo nella descrizione del documentario sul sito italiano, parlando di “artisti straordinari” e “rappresentazioni dei trans”. La rappresentazione delle persone trans dovrebbe però proprio partire dall’uso di un linguaggio corretto. Disclosure, se guardato con attenzione, diventa, per una persona cisgender, un valido strumento per rendersi conto della necessità di riscoprire la funzione che i supporti culturali hanno avuto – e devono avere – come mappe per scoprire il posto nel mondo di ciascuno, e soprattutto per chiedersi: “Cosa posso fare da alleato o alleata di una persona trans?”. E iniziare a farlo.