C’è una famosa frase del filosofo cinese Confucio che recita “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno in tutta la tua vita”. Come molti concetti del pensiero asiatico anche questo è stato travisato non appena è giunto a queste latitudini, masticato, digerito e vomitato dal capitalismo, per cui i sogni altro non sono che combustibile per la produzione. Oggi, infatti, non a caso gira in rete un suo adattamento, sicuramente più calzante rispetto alla vita in cui il sistema impone di incastrarci: “Trasforma i tuoi sogni nel tuo lavoro e lavorerai ogni minuto della tua vita”. I creativi, in particolare, sanno quanto sia vero; ma forse anche gli insegnanti di yoga e i ginecologi. Il prezzo della monetizzazione delle nostre passioni rischia di essere molto alto. Ma nel 2008, quando uscì Departures e quando io stessa stavo facendo – proprio come il protagonista del film, il violoncellista Daigo Kobayashi (interpretato da Masahiro Motoki) – i conti con l’apparente fallimento di quello che credevo essere il mio sogno, la musica, non lo sospettavo ancora.
Departures – basato sull’autobiografia di Aoki Shinmon, Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician, e vincitore dell’Oscar come Miglior film in lingua straniera nel 2009 – è un’opera sull’esercizio spirituale del saper lasciare andare e del portare a termine, o meglio ancora, dell’accompagnare alla fine – Okuribito, il titolo originale del film, significa proprio “colui che accompagna” – con un gesto e un’attitudine esistenziale simili a quelli dei musicisti quando suonano l’ultima nota di una composizione che termina con un “pianissimo”. Per portarla a compimento, lo stesso regista, Yōjirō Takita, ha impiegato dieci anni: non solo per via di qualche nevrosi sul non riuscire a concludere le cose o sul saper dire addio, ma anche per comprendere a pieno i sentimenti che accompagnano la morte nella società contemporanea giapponese – e non solo.
Fin dall’inizio il film si muove sul confine tra vita e morte, tra credenza e apparenza, presunzione e dato di fatto. Il polpo offerto dai vicini alla moglie di Daigo per la cena si rivela vivo, per poi galleggiare senza vita nel canale in cui la giovane coppia decide poi di liberarlo, dando quell’effetto di straniamento di certe scene orchestrate da Luis Buñuel. Allo stesso modo, la giovane ragazza trans, morta suicida perché non accettata dal padre, la prima che Daigo acconsente a preparare, sembra solo addormentata. È una sensazione precisa quella che suscita il dubbio del vero, la capacità di misura del nostro sguardo, la vivo sempre di fronte ai fiori negli ambulatori dei medici, al 99% finti, eppure sempre più verosimiglianti, a volte addirittura infilati nella terra, o in qualcosa che sembra essere tale e che qualcuno ha progettato in uno studio. Per attraversare questa dimensione come San Tommaso viene voglia di toccare con mano la realtà, il corpo altro che ci troviamo di fronte.
Il rito di preparazione dei cadaveri appare come una sorta di spettacolo, vero e falso allo stesso tempo, in cui si stringe una momentanea e assoluta relazione tra i cari del defunto, il pubblico, il morto stesso, e i suoi accompagnatori nell’aldilà, impegnati dell’antica tradizione giapponese del nōkan, la ricomposizione e la vestizione dei cadaveri. Tutto si regge sulla sospensione di incredulità del grande teatro o dei traumi improvvisi. Questo lento e meticoloso rituale, allora, sembra un massaggio compiuto su un corpo vivo, e nel suo svolgersi risulta ipnotico. Quando Daigo prepara i morti, quel suo ultimo tocco, caldo, senza alcun sentimento di orrore, ha la stessa potenza delle prime carezze che si fanno ai neonati. Allo stesso modo, il tocco degli altri ci dà forma, ci fa capire di esistere, sancisce i nostri confini percettivi e poi la nostra identità, ciò che siamo.
Eppure, raramente tocchiamo i nostri morti, spesso affidiamo questo passaggio a strutture dedicate, a volte non siamo presenti al loro trapasso per questioni di forza maggiore, a volte scegliamo volontariamente di non esserlo, ci sporgiamo rapidamente oltre il bordo della cassa aperta nella camera ardente, oppure prima di entrare, abbozzando un ritardo irrimediabile, ci assicuriamo che il coperchio sia già stato chiuso, avvitato, irreversibilmente. Nonostante la morte sia uno degli eventi più importanti della nostra vita, infatti, oltre che fulcro di importanti riti collettivi, come viene mostrato nel film, è ancora considerata uno dei nostri più grandi tabù culturali, insieme alla malattia. Una delle cose che mi preoccupano di più di questa condizione di fragilità è il suo stigma, il marchio che la società non risparmia a chi per qualche oscuro caso o motivo viene contaminato da un virus, porta nel suo corredo genetico una patologia rara, oppure le sue cellule deviano dall’ordine inscritto nel nostro genoma. Per essere risparmiato, anche in questo caso devi fingere, una forma e delle funzioni, che la malattia rende impossibile, mina alle fondamenta. Se alla malattia viene spesso associata a livello di immaginario collettivo una colpa, o – a chi sembra proprio non meritarsela perché era tanto carino e salutava sempre – una narrazione epica; alla morte è concesso soltanto l’oblio, oppure l’esorcismo – attraverso il sangue, l’horror, lo splatter, il mostruoso. Ma a pensarci bene è molto più spaventosa e grottesca la vita, nel suo muoversi casuale, nel suo proliferare senza controllo e mutare. L’assenza di vita è di per sé l’attestazione della fine di qualsiasi dolore, per quanto tremendo, è pace.
Nella storia, che ha inizio da uno di quei cambiamenti drammatici che ci spingono quasi a credere nel destino, la fine della carriera di orchestrale di Daigo diventa una sorta di silenziosa rinascita, così come la morte viene intesa dalla cultura zen come uno dei tanti viaggi possibili – possibilmente l’ultimo, come sottolinea il gioco di parole che dà il la al fraintendimento da cui Daigo inizierà a lavorare come tanatoesteta nella sua città d’origine, Yamagata. Se per la cultura cattolica e islamica, dopo la morte viene promessa una vita eterna. Nel buddismo si ambisce a morire per sempre, liberandosi una volta per tutte dall’infinito ciclo della vita. Il film, infatti, fa perno sulla sofferenza che ciascuno di noi è costretto a sopportare e sul tentativo del buddismo zen di alleggerirla – e possibilmente evitarla – interrompendo il ciclo delle rinascite attraverso un metodo molto preciso.
Eppure, anche nella cultura Giapponese, intorno alla morte e alla professione del tanatoesteta si sono incrostati enormi pregiudizi, che fanno leva sulle emozioni più ataviche delle persone. Daigo viene quindi considerato con disprezzo, come se toccando i cadaveri si contaminasse con qualcosa di indicibile e vergognoso. Sempre più appassionato a questo lavoro – che gli riesce sorprendentemente spontaneo e lo porta a entrare in contatto con un’importante parte di sé –, però, non demorde e, forte dall’essere sopravvissuto alla perdita della musica, va piuttosto incontro all’abbandono da parte dei suoi cari, che non riescono ad accettare questa sua nuova ragione di vita, affondata nel lutto.
A differenza di quanto aveva pensato, Daigo, subito dopo aver rivenduto il suo violoncello troppo costoso (cosa che io non sono ancora riuscita a fare col mio violino, pur essendo passati quindici anni), si sente più leggero, sollevato da un tremendo fardello, come se quel gesto simbolico avesse messo fine alla sua – penosa – precedente esistenza, segnata dalla consapevolezza di essere un musicista mediocre e di aver promesso alla moglie una vita molto diversa da quella che poi sono finiti a vivere. In Giappone, infatti, il valore della parola data e il senso dell’orgoglio sono temi tuttora molto sentiti, motivo di vergogna e disonore quando traditi. Una vita senza scopo è quanto di peggiore possa accadere. Anche il legame con lo strumento, il primo che viene reciso, è quindi profondamente simbolico. Per un musicista, infatti, il proprio strumento diventa parte di sé, come un arto, un’estensione cognitiva, un animale domestico che ci si porta sempre appresso o un figlio. Spesso, nei momenti di stress, facevo l’incubo – che a tratti era un desiderio – di dimenticare il mio da qualche parte, o che mi venisse rubato. Ma la separazione, per essere efficace, deve essere consapevole, scelta..
La morte, da evento destinato al rimosso, diventa strumento di indagine psicologica ed esistenziale: proprio due morti, infatti, riavvicineranno Daigo ai suoi affetti, al futuro e alla vita, permettendogli di risanare il suo stesso passato e le sue ferite profonde. A ben vedere, non è necessario essere tanatoesteti per farlo, basterebbe coltivare il coraggio necessario all’andare incontro a ciò che ci spaventa, praticando davvero l’esercizio di ascolto, cura e osservazione dell’Altro, senza paura di perdere noi stessi accarezzandolo, cedendo anzi una parte di ciò che siamo per vivere a pieno, entrando in contatto autentico con l’esistente e scoprendo che, a volte, ciò che credevamo essere un sogno era un incubo, e viceversa.