Se ci piacciono così tanto i “comfort show” è perché la nostra vita fa schifo - THE VISION
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Il giorno in cui mi è stato proposto di riguardare Gilmore Girls, qualche mese fa, inizialmente ho reagito con convinto snobismo, ma non avevo voglia di cercare altro ed era ora di pranzo, così ho pensato “Ok, guarderò mezza puntata mentre mangio e poi mai più”. Collegavo quella serie a quando, adolescente dei primi anni Duemila, avevo guardato alcune stagioni in tv. Ero convinta di aver raffinato il mio gusto negli anni. E invece lo show ideato e prodotto da Amy Sherman-Palladino e ambientato nella semplicità di un piccolo paese della costa est degli Stati Uniti è diventato una droga. Oltre ai subdoli traini inseriti nella trama – l’amore adulto intriso di amicizia di Luke e Lorelai, palese dalla prima puntata, e il leggendario bad boy, Jess, che va e viene – mi sono accorta che era proprio l’atmosfera in sé a tenermi attaccata allo schermo. 

Il posto in cui la serie è ambientata, Stars Hollow, è una caricatura: c’è il sindaco semi-autoritario, la gente impicciona, le ricorrenze inventate solo per allestire a festa la piazza. Eppure, nell’illusione del racconto, tutto questo rappresenta qualcosa che – visto oggi ancora di più – risulta davvero commovente. Quel suo spirito comunitario, i “Se hai bisogno ci sono” detti tra gli scaffali del minimarket creano un mondo fatato e ideale, dove ci si sente visti e accolti, al sicuro. Per come mi fa sentire, collego Gilmore Girls a un altro show che ha scalato la mia classifica personale: Ted Lasso. Una serie che parla di una squadra di calcio britannica ma in cui dominano i buoni sentimenti fino alle carie: ci si dice “Ti voglio bene” tra colleghi, ci si perdona tutto e i maschi di mezza età hanno un club in cui parlano di questioni sentimentali. Due mondi molto diversi, eppure uniti dalla stessa nostalgia per un’umanità gentile e apparentemente ancora possibile.

Gilmore Girls

Visto il successo di entrambe le serie – dopo uno spin-off su Netflix è ora in arrivo un documentario sui 25 anni di Gilmore Girls, e Ted Lasso tornerà a grande richiesta con una quarta stagione – in questa ricerca di storie smielate non mi sento sola. Negli ultimi anni, infatti, gli show in cui dominano in maniera plateale l’amicizia e i sentimenti accoglienti stanno vivendo un grande momento di popolarità. Si va dal rewatch compulsivo di serie come Friends, How I Met Your Mother e The Big Bang Theory a nuovi prodotti “feel-good” come Shrinking e Stick. Le serie di questo tipo sono certamente divertenti e leggere, ma si differenziano dalle commedie dall’imprinting più cinico a favore di una rinnovata attenzione verso l’Altro. Costruiscono mondi prevedibili e rassicuranti dal punto di vista affettivo, in cui i conflitti si risolvono e i legami sono autentici e comunitari

Anche se il “comfort show” non è un genere televisivo in senso stretto, ma un’etichetta che varia a seconda dei gusti, in generale con questa espressione si indicano le serie che ci fanno sentire a casa. Alcuni preferiscono il medical drama, altri i gialli o i crime, ma per molti i comfort show coincidono con drammi da guardare e riguardare fino a imparare a memoria le battute. Il motivo del loro successo sembrerebbe scontato: in tempi di solitudine cronica, ansia, isolamento digitale e iper-competizione, il nostro cervello cerca stimoli gratificanti e un’umanità idealizzata. Nel tentativo di sentirci meglio, proiettiamo le nostre esistenze sugli schermi.

Ted Lasso
Friends

Uno studio pubblicato sul “Journal of Experimental Social Psychology, condotto da ricercatori delle Università di Buffalo e Miami, è tra quelli che offrono una base scientifica a questo fenomeno. La ricerca sostiene un’ipotesi apparentemente banale, quella della social surrogacy. Le tecnologie, come la televisione e le varie piattaforme social, possono soddisfare il bisogno di appartenenza sociale anche in assenza di relazioni reali, specialmente in momenti di poca autostima, di solitudine o di rifiuto sociale. Attraverso una serie di esperimenti, i ricercatori hanno dimostrato che le persone sole tendono a sintonizzarsi sui loro programmi preferiti, trovando conforto e riducendo così il loro senso di isolamento.  In uno dei quattro esperimenti è stato chiesto a 222 ragazzi di scrivere un saggio sul loro programma televisivo preferito e poi di descrivere i contenuti che guardano “quando non c’è altro”. È stato poi chiesto loro di raccontare verbalmente ciò che avevano scritto nel modo più dettagliato possibile. Quando si parlava dei programmi televisivi più amati, i soggetti dell’esperimento hanno espresso meno sentimenti di solitudine o esclusione rispetto a quando parlavano di altro. Questa è una delle prove, affermano i ricercatori, che le relazioni illusorie o parasociali con personaggi immaginari possono alleviare i bisogni di appartenenza e rassicurazione: tendiamo a sentirci vicini a loro come se fossero amici reali o addirittura una famiglia estesa.

Un altro fattore che ci fa guardare piacevolmente storie dalla risoluzione prevedibile è la fuga dall’incertezza. Per inclinazione, infatti, noi esseri umani tendiamo a cercare ambienti e stimoli che riducono l’ansia, una protagonista indiscussa della vita nel tardo-capitalismo. Guardare episodi noti o dalla risoluzione prevedibile attiva il cervello in maniera simile a un rituale: sappiamo già cosa accadrà e questa prevedibilità ci rassicura, riducendo il carico cognitivo in momenti di stress. Come spiegano gli psicologi, ciò permette al cervello di “spegnersi” senza sensi di colpa, un modo per ricaricare le batterie. I comfort show, in definitiva, non sono solo un fenomeno pop su cui speculano le piattaforme: sono uno specchio dei bisogni emotivi più profondi della nostra società, luoghi ideali in cui cerchiamo sicurezza, comunità e riconoscimento, anche se per poche ore.

I ricercatori dello studio si sono chiesti però se la social surrogacy sopprima solo per un po’ i bisogni di appartenenza e comunità o li soddisfi effettivamente. “Voltare le spalle alla famiglia e agli amici per trovare conforto nella televisione può essere disadattivo e lasciare una persona con meno risorse nel tempo”, spiegano nell’abstract del loro articolo, “ma per coloro che hanno difficoltà a interagire socialmente a causa di limitazioni fisiche o ambientali, il senso di appartenenza indotto dalla tecnologia può offrire conforto”, continuano. In particolare il binge-watching, fenomeno fomentato dalle piattaforme, amplifica questo effetto immersivo: il ritmo continuo e prolungato, come una coperta calda da tenere sulle gambe, riduce la possibilità di pensare ai nostri problemi e ci immerge in una realtà fittizia ma familiare. Tuttavia, rifugiarsi costantemente in mondi perfetti può diventare una modalità di fuga che rende più difficile affrontare le complessità e le frustrazioni della vita reale.

Il comfort dello schermo diventa così un’arma a doppio taglio: ci nutre emotivamente, ma può anche rallentare la nostra capacità di adattamento al contesto o affievolire lo spirito di ribellione verso una realtà di cui non siamo soddisfatti. In fondo, questi show – irresistibili – sono un surrogato che contiene quel senso di sicurezza che manca del tutto al nostro orizzonte esistenziale. Sappiamo già che Luke e Lorelai, dopo mille vicende sconnesse, finiranno insieme; che Friends chiuderà sempre con un appuntamento al Central Perk; e che in Ted Lasso l’ennesima sconfitta si trasformerà in una lezione di vita da condividere tutti insieme nell’intimità dello spogliatoio. Nella realtà, la risoluzione positiva dei conflitti è un lusso che ci viene concesso raramente, e non tutti vivono all’interno di comunità coese e inclusive. Abitiamo in condomini in cui nessuno ci chiede “Come stai?” e in ambienti lavorativi in cui la competizione vince spesso sulla benevolenza. Per vedere gli amici, il più delle volte, dobbiamo incastrare le agende con un preavviso di settimane, non li troviamo mai per caso al bar sotto casa. L’abitudine a passare il tempo con gli amici immaginari, quindi, è anche la fotografia di una società che ha interiorizzato la solitudine al punto da accettarla come condizione normale.

E forse un altro, ulteriore motivo per cui i comfort show ci piacciono è proprio perché ci ricordano che la vita potrebbe essere più semplice di così, che potremmo abitare mondi in cui l’amicizia non richiede uno sforzo organizzativo e i conflitti si attenuano in nome dell’amorevolezza. Il rischio, però, paradossale è quello di iniziare a vivere più sul divano che nel mondo. Con la forza dell’abitudine, finiamo per divorare una stagione intera dopo l’altra in un fine settimana, ma continuiamo a non trovare mai il tempo per quella cena che rimandiamo da mesi. Interagire con personaggi inventati è più facile che confrontarsi dal vivo: loro sono sempre lì, pronti a raccontarci una storia in cui, a differenza della vita reale, le cose finiscono sempre bene.

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