La recente vicenda del bracciante massacrato di botte per aver chiesto guanti, mascherina e una giusta paga ha riportato in auge un dibattito che va avanti da decenni e che dalla rivolta di Rosarno a oggi sembra non aver prodotto nulla, a parte i provvedimenti claudicanti e a tempo determinato dell’attuale governo per provare a rispondere sul tema del lavoro irregolare. Un dibattito sterile, sia sul versante politico, che tratta i migranti – in particolare quelli che lavorano come braccianti – come mezzo propagandistico da sfoderare in attesa del prossimo sondaggio elettorale, sia sul versante giornalistico, laddove l’informazione rincorre le esternazioni dei politici, riporta grandi numeri, prova a restituire un quadro completo, quando in buona fede, ma troppo spesso fallisce nel raccontare la componente umana della vicenda, le storie dei migranti e la loro vita di tutti i giorni.
È in questa dialettica che il cinema italiano riesce a inserirsi apparendo più reale del reale, non solo nella sua accezione documentaria, ma anche in quella finzionale, che dal Neorealismo a oggi si è spesso incrociata con la precedente scrivendo pagine indimenticabili. Recentemente cinema e migranti nel nostro Paese si sono incontrati tante volte, dal più famoso Fuocoammare di Gianfranco Rosi a una serie di film e cortometraggi meno noti, ma comunque meritevoli di attenzione per la loro capacità di indagare la realtà con sguardi alternativi, quelli delle gli occhi persone che di solito vengono sistematicamente ridotte al silenzio, trasformate in nomi su un elenco o numeri di un grafico.
È nella direzione di uno sguardo interno alla storia che va, tra questi, il cinema di Jonas Carpignano, giovane regista italo-americano che da più di un decennio ha scelto di stabilirsi a Gioia Tauro e che è nel pieno della lavorazione del suo terzo film, anch’esso ambientato in Calabria. Una scelta del tutto inedita che ha generato negli anni un piccolo mondo narrativo animato da una vita quotidiana lontana dallo sguardo politico o giornalistico, ma fatta invece di delicati equilibri, di necessità e urgenze che intersecano l’esperienza umana dei migranti con la pratica del caporalato, della piccola criminalità o di quella organizzata.
È con Mediterranea, il suo film d’esordio, che Carpignano ci accompagna con sguardo obiettivo nella vita di un uomo che partendo dal Burkina Faso ha attraversato le zone desertiche dell’Algeria per raggiungere la Libia, il Mediterraneo e poi l’Italia. Un percorso che accomuna tantissimi, ma che rischia di rimanere impersonale se raccontato da uno sguardo esterno che continua a inquadrare i migranti come se fossero massa omogenea e anonima di persone. Ayiva, il protagonista di Mediterranea, è invece un individuo dalla personalità ben delineata, che si ritrova a compiere scelte difficili e incrocia esperienze umane tutt’altro che omogenee: bisogni e priorità variano da persona a persona, e la presenza sul set di un protagonista che ha ispirato la sceneggiatura del film stesso è una garanzia per una rappresentazione coerente dei fatti. La messa in scena arriva a ricalcare la rivolta di Rosarno, che nel 2010 portò sulle prime pagine dei giornali una realtà problematica sempre tenuta in secondo piano per opportunità economica, nel silenzio eloquente di un’economia locale che non può fare a meno della manodopera irregolare.
Così, l’esperienza di vita di Koudous Seihou è diventata quella del personaggio Ayiva, non solo protagonista di Mediterranea ma anche ingranaggio fondamentale nella struttura drammaturgica di A Ciambra, il secondo film di Carpignano, che ancora una volta parte dai margini della società per raccontare l’inedito, una famiglia rom che si innesta negli equilibri di quella stessa parte di Calabria e ha forti rapporti coi braccianti stabiliti a Rosarno. Nel rappresentare realtà lontanissime da quelle che tanto cinema mainstream italiano porta in scena, Carpignano si fa capofila di un gruppo di registi che senza giudizi restituiscono una versione della realtà adatta a stimolare negli spettatori una formazione autonoma del pensiero. In questo il cinema riempie un vuoto, si fa anello di congiunzione tra la vita di tutti i giorni e i fatti di cronaca, alimentando un modo di vedere profondamente umanistico, che rifugge la facile rappresentazione di gruppo e sceglie invece la varietà.
È quello che accade anche nel cinema di Costanza Quatriglio, la regista palermitana che con Sembra mio figlio ha tracciato coordinate preziosissime per chi sia disposto ad aprirsi a un cinema diverso e a realtà sconosciute. Anche qui il film prende le mosse da vite realmente vissute e si lascia ispirare anche dalle esperienze degli attori principali, entrambi fuggiti dall’Afghanistan per le persecuzioni dei talebani nei confronti del popolo hazara. Una produzione italo-iraniana che racconta la sofferenza di persone costrette a migrare fuggendo da morte e devastazione, lasciando la propria casa e i propri affetti. Raccontando le individualità, le diverse esperienze dei popoli che si innestano nel tessuto sociale italiano, il cinema riesce a dare dignità alla figura del migrante, persona senza nome che proprio per questo è facilmente etichettabile con nuovi epiteti per essere usata nel prossimo spot elettorale. Perché avere un nome, un volto e una voce è l’unica garanzia per salvare la propria identità, affrancandola dalle strumentalizzazioni. Se l’Ayiva di Carpignano è sull’orlo di un esaurimento e resta in Italia solo per garantire un futuro migliore alla figlia, i protagonisti di Sembra mio figlio sono costretti a fare i conti col proprio passato, indecisi se tornare tra le braccia di una madre che credevano morta oppure rimanere in Italia, dove hanno un presente sicuro. Non più migranti in una massa omogenea, ma individui che compiono azioni, soffrono per un’esistenza segnata dalla violenza e vedono nell’Italia un luogo sicuro, una casa che può e sa essere accogliente.
I volti delle persone entrano a far parte di un territorio e delle sue realtà, a volte per rimanervi, a volte per ripartire e ritrovare la propria famiglia, senza quel parassitismo che l’opinione pubblica è spesso pronta ad attribuirgli, in un pensare generato da conoscenza parziale o nulla del lato umano che caratterizza i movimenti migratori. Questioni complesse, certamente, i cui chiaroscuri sono tutt’altro che risolvibili attraverso il cinema, ma che in quest’ultimo trovano lo spazio per mostrare alcune sfaccettature particolari che non riescono più a trovare spazio in altri media.
Questo cinema assume una vera e propria utilità sociale, che anche nel mondo del cortometraggio – e quindi soprattutto nell’ambito dei festival – si fa ancora più capillare, legandosi ai territori e ai personaggi più vari. Parliamo dei corti che fino al 2018 sono nati grazie alle tre edizioni di MigrArti, il premio promosso dal MiBACT per spettacoli cinematografici e teatrali volti a coinvolgere le comunità di immigrati residenti in Italia, con focus particolare sulle seconde generazioni. È da qui che nasce Johnny, documentario di Filippo Ticozzi che riesce a inserirsi nella vita di un giovane pugile di origini congolesi e a raccontarne in modo franco un momento importante, senza invaderne i silenzi, i momenti intimi in famiglia o i duri allenamenti, senza accenni di buonismo o ellissi di sorta.
Lo sport con funzione di collante sociale, come ne Il mondiale in piazza, un altro corto originato da MigrArti, una commedia diretta da Vito Palmieri e scritta insieme a Michele Santeramo: con l’Italia esclusa dai Mondiali di calcio, da alcuni ragazzi annoiati in una piazza del Sud Italia nasce l’idea di organizzare un mondiale alternativo, in cui gli italiani sfidano le altre nazionali rappresentate dagli immigrati. Solo che alcuni di questi, nati e cresciuti in Italia, si sentono italiani al pari degli “autoctoni” che però li escludono, così nascono due Italie, pronte a sfidarsi rete dopo rete fino alla splendida finale sotto la Cattedrale di Bitonto. Qui l’espediente comico permette di avvicinare il pubblico a un tema sempre più urgente, veicolando istanze sociali attraverso un tipo di comicità molto amato dal pubblico italiano. Questo cinema assolve dunque a una funzione sociale e in forma documentaria o finzionale non smette di avere una sua specificità che lo rende un mezzo tra i più immediati per la comprensione di questioni complesse attraverso l’empatia data dalle immagini.
Tutte queste opere sono esempi lampanti del potere del cinema, che documenta narrando, che è capace, attraverso l’arte, di informare e restituire un punto di vista inedito, lasciando allo spettatore ogni commento. Come anticipato, però, il sostegno statale a tali opere è venuto meno nel 2018, perché MigrArti – iniziato nel 2016 sotto il ministero di Franceschini – si è concluso con la sua terza edizione in quanto dichiarato non strutturale dalla salviniana Lucia Borgonzoni, allora sottosegretaria alla Cultura con deleghe per cinema, audiovisivo e Unesco. Mossa che parve puramente propagandistica, per spostare i fondi su progetti legati alle periferie, affossando quelli per una maggiore integrazione degli immigrati di seconda generazione. Una scelta che ha peraltro sottolineato la pochezza dei fondi destinati alla cultura in Italia, laddove MigrArti partì nella sua prima edizione con appena 800mila euro, stimolando però l’application di 967 progetti tra spettacoli dal vivo e attività cinematografiche. Tutti questi esempi rappresentano qualità artistica, condivisione di idee e scambio culturale che nel governo gialloverde purtroppo non hanno trovato spazio, contribuendo a riportare nel dimenticatoio un tema che sottotraccia è rimasto urgente e che negli ultimi giorni è scoppiato di nuovo, con gli sbarchi, i fatti di cronaca e gli incerti provvedimenti governativi in tema di lavoro irregolare. Peccato che tutto ciò non sia solo un film.