Come sopravvivere alla fine di Game of Thrones è stata sicuramente una delle domande più frequenti dell’ultimo paio di anni negli studi della statunitense Hbo. La prima risposta della tv via cavo è arrivata con grande tempismo, in concomitanza con la messa in onda dell’ ultimo episodio della serie tratta dai libri di George R.R. Martin. Hbo ha lanciato a fine maggio Chernobyl, miniserie già consacrata della critica statunitense e che dal 10 giugno sarà trasmessa anche Italia da Sky Atlantic. Con uno show che mette in scena l’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986, Hbo è riuscita a rafforzare la sua identità di rete puntando sull’alta qualità del prodotto, con un indice di gradimento tale da rendere Chernobyl la serie con il rating più alto nella storia del sito Imdb. L’apprezzamento del pubblico è merito anche del modo in cui la narrazione del disastro di 33 anni fa riesce a far riflettere anche sulle problematiche del presente, in particolare sull’impatto dell’emergenza climatica e l’inadeguatezza delle istituzioni mondiali nel gestirla.
Dopo un rapido flashforward la serie immerge lo spettatore nel racconto, mostrando già nei primi minuti l’esplosione del reattore numero 4 della centrale per poi concentrarsi sulla portata eccezionale dell’evento e le sue conseguenze. Nel corso dei cinque episodi il ritmo narrativo di Chernobyl oscilla tra la dimensione emergenziale che segue l’esplosione e quella legata alle riflessioni sul disastro nucleare e le sue ripercussioni, in particolare per quanto riguarda l’impatto delle radiazioni sulle creature viventi (l’uccellino che precipita morto al termine del primo episodio è un’immagine tanto didascalica quanto potente nella sua simbologia). La messa in scena dell’accaduto è molto distante dall’apologia dell’eroismo che qualcuno si aspettava quando la serie è stata annunciata, e preferisce focalizzarsi su una rilettura storica dove l’autocritica sui limiti e gli errori umani emerge con l’orrore che questi hanno causato.
Nonostante sia una miniserie in cinque episodi, e quindi un prodotto compatto e dal formato breve, Chernobyl ha una struttura narrativa complessa dove la trama orizzontale viene spesso abbandonata per esplorare episodio dopo episodio i diversi punti di vista degli attori coinvolti nel disastro. La scelta, valorizzata dal formato Hbo della messa in onda settimanale di un singolo episodio, giustifica anche la decisione di esordire con un primo episodio molto più lungo dei successivi quattro, focalizzato sui momenti dell’esplosione della centrale. Nel pilot quelli che saranno i protagonisti della serie non sono ancora mostrati in scena o agiscono ai suoi margini, perché al centro del discorso c’è la Storia e in particolare la catastrofe da cui prende avvio la miniserie. Solo in seguito il punto di vista si sposta, passando dalla politica (con il personaggio interpretato da Stellan Skarsgård che incarna l’inadeguatezza di chi ha dovuto gestire la tragedia) al personale militare e scientifico fino alle storie laterali, come quella di un vigile del fuoco colpito dalle radiazioni.
Per tenere insieme le diverse prospettive narrative gli sceneggiatori fanno un uso costante della suspense da intendere nella definizione che Alfred Hitchcock diede a François Truffaut, secondo cui questa si genera quando lo spettatore sa già qualcosa che i protagonisti devono ancora scoprire, permettendo alla narrazione di tenere gli spettatori costantemente col fiato sospeso. Chernobyl si serve della forza dell’evento raccontato e di una memoria storica condivisa legata agli effetti delle sostanze radioattive su esseri umani, animali e ambiente, per coinvolgere il pubblico nel dramma dei personaggi ignari di ciò che sta accadendo, costringendo gli spettatori in una posizione di continua tensione e di impotenza rispetto alle sorti di chi si espone alle radiazioni. Con questa tecnica narrativa Chernobyl riesce a essere sempre avvincente e, per quanto la brutalità di ciò che viene mostrato possa urtare la sensibilità di molti, si è sempre stimolati a continuare la visione per scoprire la sorte dei suoi protagonisti.
Uno dei fattori più interessanti della miniserie è l’attenzione ai dettagli, con la cronaca fedele dell’esplosione e dei suoi effetti sull’organismo umano. Parallelamente a uno stile così realistico, però, c’è una narrazione che in alcuni casi tende a romanzare l’accaduto, in particolare grazie alla (poco plausibile, come qualcuno ha notato) centralità della scienziata Ulana Khomyuk: nelle intenzioni degli autori, il personaggio interpretato da Emily Watson rappresenta una sintesi di tutte quelle donne che, nell’ombra, hanno giocato un ruolo fondamentale nella vicenda raccontata. L’amalgama tra realtà e finzione è valorizzata da una serie di fattori tecnici che vanno dalle musiche della violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, che restituiscono tutta l’angoscia delle vicende narrate, alla messa in scena di Johan Renck. Il regista, dopo una carriera nel campo dei videoclip, ha saputo caratterizzare la serie con una fotografia livida e incentrata sulle sfumature di blu e verde, adatta a impregnare tutta la serie di una continua sensazione di claustrofobia.
Proprio l’equilibrio tra forma e sostanza è il vero segreto di Chernobyl, perché durante la visione di tutti e cinque gli episodi nessuna delle due dimensioni prevale sull’altra, ma si valorizzano a vicenda. L’attendibilità di ciò che viene mostrato rafforza l’impegno della serie nel far riflettere su quanto accaduto più di trent’anni fa, anche grazie alla capacità attoriale dei suoi interpreti. Tra questi, nonostante il talento di tutto il cast, spicca Jared Harris (già visto sul piccolo schermo in Mad Men, The Terror e The Crown), che grazie a una recitazione caratterizzata da piccoli ma essenziali movimenti del viso si cala perfettamente nei panni dello scienziato Valerij Legasov. Incarnandone la determinazione ma anche le insicurezze e i timori, il personaggio di Harris diventa il simbolo della paura di un intero Paese di fronte a un evento dalle conseguenze sempre più devastanti, giorno dopo giorno.
La costante sensazione di angoscia che comunica la serie si nutre anche di un recente passato in cui il tema del disastro nucleare ha dominato la cultura pop che lo ha esorcizzato nel cinema, nella letteratura e in televisione. In particolare dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, il nostro immaginario condiviso si è popolato di narrazioni del genere, passando dai mutanti alle distruzioni di massa fino ai più svariati e bizzarri effetti delle radiazioni mostrati in tante distopie sia audiovisive che letterarie. Facendo leva sull’incubo collettivo della nube tossica, Chernobyl adotta una prospettiva quasi documentaristica, distinguendosi per il brutale realismo con cui mostra il disfacimento dei tessuti epidermici dei personaggi colpiti dalle radiazioni. In alcuni passaggi la visione diventa quasi faticosa per gli spettatori più sensibili, ma questi sono una parte importante per cogliere le reali conseguenze di quanto accaduto nella centrale nucleare ucraina nel 1986.
Se è vero che Chernobyl è una serie a tratti destabilizzante, è anche vero che questa caratteristica rappresenta uno dei suoi maggiori punti di forza. Sotto questo punto di vista, infatti, nel riportare alla luce una tragedia che alcuni potrebbero aver dimenticato e altri non aver mai conosciuto, la serie è anche un potente campanello di allarme sui rischi legati alla produzione di energia nucleare e in generale all’impatto dell’uomo sull’ambiente in cui vive. Ricca di spunti come un grande documentario e potente nella messa in scena come i migliori prodotti della storia dell’emittente Hbo, Chernobyl si candida ad essere la migliore serie del 2019.