Non tutte le opere cinematografiche invecchiano allo stesso modo: alcune pellicole sono anacronistiche già al momento della loro uscita in sala, mentre altre non riescono a regalare uno sguardo maturo sul mondo, rimanendo per sempre superficiali e ingenue come chi non vuole arrendersi allo scorrere del tempo. Esistono poi quelli che tutti consideriamo i classici. Mutuando la definizione che ne dà Calvino, possiamo definire un classico “un qualcosa che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
C’eravamo tanto amati appartiene a quest’ultima categoria: si tratta infatti di uno di quei film destinati a non invecchiare perché sempre in grado di parlarci del nostro presente. Questo iconico titolo è ancora oggi prima di tutto la fedele rappresentazione di una società, quella italiana, che non è troppo cambiata nel corso dei decenni: gli italiani rimangono sempre più o meno gli stessi, anche se hanno rottamato le Fiat 600 e hanno smesso da un po’ di guardare Lascia o raddoppia.
In un libro dedicato al regista Ettore Scola si racconta che il film, talmente apprezzato in Francia da vincere un César, rimase in programmazione in alcune sale cinematografiche parigine per due anni, fino alla consunzione fisica delle copie. Un tale successo si spiega col fatto che C’eravamo tanto amati resta uno dei punti più alti di un cinema unico nella sua capacità di osservare la società. Il cinema hollywoodiano nasceva per regalare al suo pubblico un’epica condivisa che non poteva nascere da una storia tanto breve come quella statunitense. Il cinema francese si proponeva di elevare il film a forma d’arte. In Italia abbiamo usato il cinema come mezzo per raccontarci meglio e questo ha dato ai nostri film migliori una dimensione inevitabilmente “sociale”. Non è un caso che gli unici Paesi che condividono con noi questo approccio al cinema siano quelli latinoamericani che hanno visto tanti dei loro migliori autori formarsi in Italia – si pensi per esempio ad alcuni registi del Nuevo Cine cileno.
C’eravamo tanto amati racconta un legame tra tre uomini molto diversi, un’amicizia nata durante la Resistenza e passata attraverso il Dopoguerra, il boom economico e l’inizio degli anni Settanta. I protagonisti sono Antonio, un portantino di ambulanza, Gianni, un socialista che ha svenduto i suoi ideali per piegarsi al fascino della borghesia, e Nicola, un intellettuale diventato anonimo critico cinematografico. Tra loro si inserisce l’aspirante attrice Luciana, un personaggio che si rivela presto essere più di un semplice oggetto del desiderio per i tre amici. Le vicende dei protagonisti vengono utilizzate per riannodare il senso di una storia che è quella collettiva del nostro Paese. L’Italia di oggi somiglia a quella raccontata nel film: si infiamma ancora per battaglie culturali destinate a venire in fretta dimenticate e si piega spesso a compromessi, ma ha anche la forza di restare in piedi grazie all’inventiva e a una non scontata dose di autoironia.
Il nostro è però anche un Paese in cui prosperano gli speculatori come il “palazzinaro” Romolo Catenacci, simbolo del vizio tutto italiano di vantarsi della propria furbizia e della propria abilità nell’aggirare le regole. In uno Stato che costringe i suoi abitanti a chiedersi: “Saremo onesti o felici?”, come se una cosa escludesse l’altra, il rischio di trasformarsi in uomini così è per tutti concreto. Come recita una battuta del film: “Negli onesti c’è quella purezza che se gli capita l’occasione diventano più mascalzoni dei mascalzoni veri” e Gianni ne è l’amara dimostrazione. Il personaggio di Gassman rinnega gli ideali e si illude che potrà essere felice rinunciando a una vita onesta. Alla fine raggiungerà la ricchezza ma non quello che realmente desiderava. Il tuffo solitario di Gianni nella sua grande piscina, mostrato in apertura e in chiusura del film, è il simbolo della sua sconfitta.
L’infermiere Antonio Cotichella costituisce l’ideale contraltare dell’amico. A differenza di Gianni, Antonio non rinuncia infatti neanche per un attimo alle sue radici sociali e ideologiche per inseguire la ricchezza. L’umile portantino rappresenta la parte più popolare e onesta del nostro Paese: egli non si priva mai della sua dignità e, forse proprio per la sua coerenza, resta schiacciato in un’Italia sempre più cinica e ipocrita. Nino Manfredi, perfetto alter-ego dell’italiano medio anche in altri film come Pane e cioccolata, presta il volto a una delle tante vittime di un Paese in cui l’ascensore sociale è bloccato da anni. Persone come Antonio, sprovviste di grossi filtri culturali, rischiano di essere più esposte di altre all’influenza esercitata dai mass media e da una certa classe politica. Un pericolo che non corre Nicola, l’ultimo membro del terzetto.
Nicola Palumbo è un intellettuale del Sud che non capisce coloro che si rifiutano di guardare avanti in nome di non meglio specificate “tradizioni sociali”. Ha ragione, nel suo celebre sfogo, ad apostrofare certi individui con la battuta: “Nocera è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi”. Il problema di Nicola è però quello di tutta una certa intellighenzia di sinistra, allontanatasi dal popolo che avrebbe voluto emancipare. Questo distacco appare palese nei dialoghi tra il critico e Antonio alla fine del film: Nicola non si identifica più con i proletari ma anzi fa loro la predica, ponendosi a un livello superiore: “Vi accontentate di quel poco che vi danno e che è sempre meno” è il rimprovero fatto all’amico che, nell’ultima scena, si sente dire: “Voialtri non volete ragionare”. L’intellettuale ha fallito perché ha smesso di utilizzare le sue conoscenze per migliorare il contesto sociale. Quando Nicola se ne rende conto pronuncia una delle frasi simbolo del film: “Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi”.
Il personaggio dello sfortunato Satta Flores doveva essere inizialmente l’unico protagonista. La sua ossessione per il Neorealismo sarebbe stata il motore di un film pensato per essere “solo” un grande omaggio al cinema italiano. Anche se poi le cose sono andate diversamente, C’eravamo tanto amati rimane comunque una grande lettera d’amore per quella settima arte che è stata a lungo motivo di vanto per l’Italia. Se è vero che il nostro Paese ha una capacità unica di raccontare i propri difetti senza mai cadere nell’autocommiserazione, è vero anche il contrario: il film di Scola ci mostra come gli italiani abbiano un’abilità unica nel rendere omaggio ai grandi senza scadere mai nella celebrazione trionfalistica. Fellini e Mastroianni, protagonisti di un breve cameo, vengono omaggiati con una sana ironia: il regista riminese viene scambiato per Rossellini mentre Mastroianni è costretto a mettere gli occhiali da sole per risultare di nuovo credibile nei panni del “piacione” Marcello de La dolce vita. De Sica, cui il film è dedicato, viene evocato più volte. Si vede mentre spiega una scena di Ladri di biciclette e viene citato spesso da Nicola. Come se non bastasse, Scola usa le musiche di Trovajoli (già con De Sica in capolavori come La ciociara e Matrimonio all’italiana) e omaggia il maestro anche nella fotografia della parte a colori del film, che ricorda quella delle ultime opere del regista nato a Sora, come Il giardino dei Finzi-Contini. Il mondo del cinema italiano in quegli anni era fortemente interconnesso, formato da artisti che dialogavano costantemente tra loro. Oggi forse questo aspetto si è un po’ perso e, in una delle ultime interviste, era proprio Scola a rammaricarsene ricordando che: “Non c’è questa conversazione tra gli autori. Chiedete a Sorrentino cosa sta facendo Garrone e probabilmente ne saprà poco”.
C’eravamo tanto amati è attuale anche nel modo in cui dipinge le donne. In quella che è diventata involontariamente una delle scene più femministe di tutto il cinema italiano, Gianni, che crede di potersi riprendere la donna a cui ha fatto tanto male con un semplice: “Ti ho sempre pensata, ti ho sempre amata”, rimane spiazzato dalla reazione di Luciana, riassunta in un lapidario “Ma io no”. Anche il personaggio di Elide è estremamente moderno: si tratta di una donna che, dopo essersi emancipata grazie alla cultura, comprende quanto sottomettersi al volere degli uomini l’abbia relegata a un ruolo subalterno. Non è un caso che sia proprio lei a citare L’Eclisse di Antonioni.
Tutti i personaggi principali in realtà ne rappresentano uno solo: l’italiano medio con le sue croniche contraddizioni. Nella stessa giornata tutti possiamo oscillare dall’ingenuo ottimismo di Antonio al cinismo di Gianni, arrivando a pensare che: “Se semo stufati d’esse’ boni e generosi”. Alla fine però la verità è che, in un periodo in cui ci sembra inutile rincorrere grandi sogni, viviamo tutti seguendo la filosofia del malinconico Nicola: “Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro”. Ragioneremo così fino a quando, seduti allo stesso tavolo mentre fumiamo il tabacco appena comprato da un ambulante, non ci troveremo costretti a fare bilanci. A quel punto, come succede ai protagonisti del film, cercheremo di capire se davvero “la nostra generazione ha fallito”.
Non bisognerebbe fidarsi di chi vi parla di C’eravamo tanto amati presentandolo solo come un affresco di trent’anni di storia italiana. Il capolavoro di Scola è un esempio di quanto un’opera possa superare i confini del tempo e restare sempre attuale. Siamo ancora quel Paese perennemente in bilico tra la crisi di nervi e un riscatto mai totalmente compiuto. Un Paese che, come diceva Scola, non ha un’identità ben definita e questa è forse la sua più grande forza. Dentro i film di Ettore Scola e di tanti suoi contemporanei ci sono molti italiani diversi, mostrati in tutte le loro differenti sfaccettature. Proprio per questo, opere cinematografiche come C’eravamo tanto amati non si limitano a raccontarci solo come eravamo: ci dicono anche come siamo e, soprattutto, come rischiamo di diventare.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 29 aprile 2019.