Durante la cerimonia dei Golden Globe Awards 2023, una giornalista incaricata di intervistare gli ospiti della serata che passavano dal red carpet è diventata protagonista di una scena insolita, ossia un flirt in diretta con un attore molto famoso. Amelia Dimoldenberg, host ufficiale dell’evento, ragazza dall’aspetto non particolarmente appariscente ma molto spigliata e divertente, da qualche anno è una figura di spicco nel mondo della cultura pop anglosassone grazie al suo format Chicken Shop Date; Andrew Garfield, invece, è uno dei volti più apprezzati di Hollywood. Entrambi sono cresciuti nel Regno Unito ed entrambi, come notano gli utenti sui social che hanno osservato con grande interesse i loro scambi ripresi dalla telecamera dei Golden Globes, hanno un modo di scherzare – e di provarci, sembrerebbe – molto british. “Sembra l’inizio di una commedia romantica”, scrivono in tanti, e in effetti ciò che succede su quel red carpet tra la giornalista e l’attore, ha l’aspetto dell’incipit di una di quelle romcom inglesi dove tutto nasce per caso, dove la simpatia e la goffaggine della donna, in contrapposizione coi cliché cinematografici della femme fatale o della svampita, smontano lo schema classico del corteggiamento: l’asimmetria tra l’uomo affascinante e la donna buffa si traduce così in una situazione comica per cui il pubblico femminile prova un senso di rivalsa e con cui viene spontaneo empatizzare, perché è un’ode alla normalità, una situazione, potremmo dire, “alla Bridget Jones”. Ma questa semplicità nasconde un meccanismo solo apparentemente diverso dal solito.
Ciò che ci interessa è vedere come una ragazza carina, anche se certo non vistosa come le attrici che partecipano a un simile evento, diventi la protagonista inconsapevole di una situazione in cui tutte noi donne “normali” sogniamo prima o poi di trovarci: l’arrivo del famoso principe azzurro, rivisto in chiave contemporanea, dove al posto di una Cenerentola stracciona c’è una ragazza un po’ sfigata, se così possiamo dire, topos su cui si costruisce molto del cinema e della letteratura recente che mira al pubblico femminile, come in Cinquanta sfumature di grigio o in Mean Girls, giusto per citare due titoli molto popolari. Partiamo dal presupposto che i film non ci insegnano nulla, non sono guide, né manuali di istruzioni per la vita; tuttavia, le storie che raccontiamo, e che raccontano registi e scrittori, hanno una funzione interpretativa del mondo che, fissandole in un certo momento e in un certo luogo, ci consente di avere un’istantanea non per forza su qualcosa di vero, ma sul riflesso di ciò che è una parte della realtà in quel momento. E certe cose non ci fanno del tutto onore. In questo senso, il fatto che ancora oggi il filone romcom sia prolifico, e che un semplice video tra due persone che flirtano come in un film di questo genere diventi così virale, dimostra che questo pattern narrativo è ancora ben piantato nel nostro immaginario, con tutti gli strascichi negativi che dietro la patina porta con sé.
Sono passati oltre vent’anni dal successo enorme che fu Il diario di Bridget Jones, un film che uscì nel 2001 – tratto dall’omonimo romanzo del 1995 della scrittrice britannica Helen Fielding – e che cambiò, in un certo senso, il modo in cui vengono rappresentate le donne nel cinema comico; ma non in maniera sostanziale, semplicemente formale, dando vita a un fraintendimento deleterio. Se dovessimo risalire agli albori di questo modello, la ragazza diversa dal prototipo femminile vincente in un modo che solo in apparenza è negativo, ma che in realtà cela una natura più intelligente e profonda rispetto alla maggioranza, potremmo andare indietro fino a Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany o addirittura a Elizabeth Bennet, protagonista del romanzo di Jane Austen Orgoglio e Pregiudizio a cui le avventure di Bridget Jones sono ispirate. Ma il personaggio interpretato da Renée Zellweger si spinge in una dimensione ancora più ampia della classica “ragazza diversa” – stereotipo che trova poi una sua forma di espressione contemporanea nel fenomeno delle Manic Pixie Dream Girl.
Non solo emarginata e con interessi, vizi e pose non canonicamente femminili; non solo lontana, volente o nolente, dalla convenzione del matrimonio; il nuovo tipo di donna che vuole raccontare Bridget Jones – figlia diretta della fine del Novecento – è incarnato da una persona che vive la sua vita in maniera irrimediabilmente disastrosa e che si sforza di rendere questo stato esistenziale il suo punto di forza. Non è un mistero che questo tipo di ritratto spietato, sventurato e ironico sia diventato presto un modello da riprodurre in serie per molti altri racconti altrettanto banali della condizione femminile nella società moderna, dal momento che la rappresentazione di questo tipo di nuovo cliché – di solito riservato ai maschi – aveva una casella lasciata scoperta sulle donne – ossia quella della “normalità” del fallimento – specialmente in un mondo come il cinema in cui i ruoli di genere, un tempo molto rigidi, iniziavano ad aprirsi.
Il genere chick flick, così detto perché fa leva su temi e problemi tipicamente femminili, decolla e con lui anche lo stereotipo di una donna che per quanto diversa dalla rappresentazione classica, di fatto, si risolve nella coppia e che per quanto voglia dare l’idea di star bene nella sua indipendenza, in realtà la vive come una condanna. Bridget Jones è incapace di vivere una vita autonoma se non all’interno di una dimensione patetica, di fronte alla televisione a mangiare il gelato, o sbronza con gli amici per dimenticare il fatto che alla sua età non ha ancora figli, non ha un marito e per questo vive come una reietta. Se ci pensiamo questa narrazione è solo apparentemente sovversiva, in realtà non fa altro che validare gli stessi valori che in teoria dovrebbe criticare e far vacillare. Si innesca così un meccanismo narrativo di salvataggio della sua condizione disperata, incapace di risolversi se non attraverso l’ausilio di un uomo: sia con il personaggio di Hugh Grant, con cui si consuma una delle scene più famose del film – i mutandoni della nonna, in contrapposizione alla lingerie sexy che ci si aspetterebbe da una serata romantica, altro sintomo del suo disagio che di fatto la copre di ridicolo; che con con quello di Colin Firth. Da un lato un uomo fastidioso, infedele ed egoista, ma affascinante; dall’altro un uomo bello e buono, che però non mancherà di trattare Bridget con sufficienza e classismo. Il bivio esistenziale di fronte a cui si trova Bridget non lascia spazio a una terza possibilità: non esiste altro se non una scelta forzata tra due persone verso cui lei stessa prova un immotivato senso di gratitudine per il solo fatto di averla considerata come donna desiderabile.
Entrambi i partner, infatti, in qualche modo, la feriranno, ma nonostante questo, tutti noi, o forse sarebbe meglio dire tutte noi, speriamo che in ogni caso si fidanzi con uno dei due, che trovi il suo compromesso con la società – non attraverso il lavoro, né attraverso la sua soddisfazione personale, ma, anche stavolta, grazie al matrimonio. La realizzazione ultima di una donna moderna, schiacciata dal peso dell’età che per la società avanza come una bomba a orologeria e di un corpo in cui non si sente a suo agio (nonostante l’attrice sia molto più bella di come viene raccontata) e che per piacersi necessita dell’approvazione di un uomo – “mi piaci così come sei”, dice Mark Darcy – è delegata ancora una volta alla sua realizzazione come partner. Bridget Jones, paladina di una nuova femminilità emancipata, vive la sua esistenza in balia di ciò che decide un maschio al posto suo, tradendola nel peggiore dei casi e accontentandosi di lei – quasi fosse un favore – nel migliore; e noi a piangere, commosse dalla forza dell’amore.
Anche quando la donna del cinema chick flick trova nel lavoro e nella carriera un senso esistenziale che vada oltre la riproduzione, infatti, a qualcosa deve rinunciare, come nel caso de Il diavolo veste Prada, altro film fondamentale per il genere, uscito nel 2006. La protagonista di questo cult, esattamente come Bridget Jones, lavora in un settore più o meno creativo, quello dell’editoria – nel filone della chick lit solitamente la protagonista svolge sempre lavori di questo tipo – e si trova vittima di un disagio universale dettato dalla sua fondamentale inadeguatezza. Non si sente bella, né sufficientemente magra – nonostante Anne Hathaway, l’attrice che la interpreta, lo sia – ma soprattutto, per portare avanti il suo sogno, che comprende anche la rinuncia a un fidanzato pressoché inutile ai fini della sua carriera, deve sottostare a regole umilianti che la privano di qualsiasi dignità professionale, eppure alla fine della storia si sente attraente, e realizzata, almeno così parrebbe. Beata lei. Allo stesso modo, proprio come ne Il diario di Bridget Jones, anche Andrea Sachs de Il diavolo veste Prada incarna l’idea per cui soprattutto una donna “di una certa età” nel mondo moderno per essere apprezzata debba fondamentalmente sottostare a un compromesso, che sia l’avere un uomo accanto o entrare in una taglia molto più piccola della sua.
Questo tipo di racconto ha generato tante epigoni quante copie sbiadite: pensiamo, per esempio, solo negli ultimi anni e solo in Italia, alla serie televisiva Guida astrologica per cuori infranti, uscita su Netflix; Sbagliata, podcast uscito per Spotify – “Emma è l’amica disperata che tutti abbiamo”, spiega la sinossi; e Odio il Natale, sempre di Netflix, dove la protagonista va fiera della sua indipendenza, ma si prende puntualmente della zitella. In tutti e tre questi prodotti il tema principale è la storia di una donna non più adolescente, ma nemmeno del tutto adulta, che si barcamena tra le disgrazie della sua esistenza, dettate dalla mancanza di una relazione stabile, dalla goffaggine con cui affronta questo stato esistenziale, dal suo essere sì carina ma anche incapace di apprezzare la sua femminilità e di esprimerla come vorrebbe. Tante piccole Bridget Jones che, nei vent’anni in cui il film è diventato una colonna portante della cultura pop occidentale, anche grazie ai suoi capitoli successivi, hanno dato spettacolo della loro inadeguatezza dettata dal semplice fatto di non avere un posto nel mondo e di provare a cercarlo sempre negli stessi luoghi: matrimoni, relazioni, o – al massimo dell’indipendenza – una carriera che ti umilia e ti chiede di rinunciare a tutto il resto, benessere psicofisico compreso.
Per fortuna, in questi primi decenni del Ventunesimo secolo in cui le donne e i personaggi femminili si fanno largo nelle narrazioni universali, non solo confinate agli scaffali “rosa” delle librerie e alle sottocategorie cinematografiche, esistono anche esempi di come si possa raccontare in modo realistico quella fase della vita femminile che i film chick flick tendono a schiacciare sotto ai cliché. Pensiamo a Phoebe Waller-Bridge e alla sua serie Fleabag, uscita tra il 2016 e il 2019, che pure aveva tutti gli elementi per essere una sorta di Bridget Jones versione millennial e che invece è diventata un piccolo capolavoro della serialità britannica. Anche lei vive a Londra, anche lei ha più di trent’anni, anche lei non è una bellezza “conforme”, anche lei è single e disperata: tutto sembra perfettamente in regola con il filone Bridget Jones, eppure non è così.
La bravura di Waller-Bridge è stata quella di rendere la sua protagonista non solo sfigata in senso più “poetico” e divertente, ma anche in modo cinicamente repellente, portando gli spettatori a un punto di quasi-odio nei confronti della sua anti-eroina. Le due stagioni di Fleabag raccontano infatti anche la bruttezza squallida delle responsabilità di questa giovane donna che, a differenza dello stereotipo dominante, non si nasconde dietro alla semplice questione della sfortuna, ma ci sbatte in faccia anche tutto ciò che lei stessa ha portato avanti per arrivare a quel punto di tristezza. L’ironia, in questo caso, non è un meccanismo del racconto per far compatire o provar pena per la protagonista, come succede ne Il diario di Bridget Jones, al contrario è un modo per tenerci sempre lontani da Fleabag, fino al punto in cui sarà lei stessa a capire che scherzare su di sé è un modo per difendersi, ma è anche un modo per non affrontare la realtà.
Al di là di come andrà a finire tra Amelia Dimoldenberg e Andrew Garfield o tra qualunque coppia cinematografica che, pur cavalcando uno stereotipo, racconta una storia d’amore divertente e leggera, ciascuno di noi ha il diritto di sognare, anche nei modi più semplici, canonici o superficiali che esistano. La letteratura per ragazze, ossia la chick lit, così come i film sfacciatamente fatti per dare questa sorta di comfort narrativo, per cui anche le bruttine, sfigate e disastrate alla fine trovano il loro principe azzurro, non è nociva di per sé, né deve essere una vergogna godersi un po’ di sana banalità o leggerezza. Non possiamo dire, però, che Il diario di Bridget Jones abbia cambiato la vita delle donne, anche se ha avuto un successo enorme e un’eredità ancor più grande, con tanti personaggi che si sono ispirati più o meno apertamente a questa donna inglese di poco più di trent’anni alle prese con una vita allo sbando, molto alcol e sigarette. Tutto ciò che crea uno stereotipo così duraturo ci dice sicuramente qualcosa rispetto al tema che tocca e al modo in cui lo fa, ma non per forza qualcosa di positivo: non è difficile immedesimarsi in Bridget Jones, sentendo il peso dei compromessi, l’angoscia del tempo che passa, con il terrore di essere brutte, di non piacere e la paura di non riuscire a intraprendere la carriera che sogniamo, perché sono tutte cose vere, con cui purtroppo la maggior parte di noi è ancora costretta a fare i conti ogni giorno, ma dovremmo essere più consapevoli del fatto che il senso della nostra vita di donne, a prescindere da quanto sia complicata, non si può ridurre alla scelta tra un Marc Darcy e un Daniel Cleaver, perché no, non saranno loro a darci la felicità.