Da Natale su Netflix è disponibile Bridgerton, serie di otto episodi ideata da Chris Van Dusen di cui è da poco stata annunciata la seconda stagione. Bridgerton è prodotta da Shondaland, società di Shonda Rhimes, showrunner che ha firmato Grey’s Anatomy, Scandal e How to Get Away With Murder, in Italia Le regole del delitto perfetto. Si tratta della prima serie realizzata da Rhimes per il colosso dello streaming e rientra in un accordo che, secondo le indiscrezioni, ammonterebbe a circa 150 milioni di dollari e garantirebbe a Rhimes piena libertà creativa sui suoi progetti, oltre a tutta una serie di clausole sulla parità salariale per cast e troupe.
Dal 2004, quando con Grey’s Anatomy rivoluzionò il palinsesto della ABC, Shonda Rhimes ha fatto della sua cifra stilistica un marchio di fabbrica: personaggi femminili forti, molto focalizzati sulla carriera, cast multietnico e storie d’amore sia etero che gay, il tutto raccontato attraverso un linguaggio televisivo popolare e generalista (Grey’s Anatomy, attualmente sempre in onda su ABC, è arrivata alla diciassettesima stagione). Bridgerton, che segna il suo debutto per una piattaforma streaming, ha tutte queste caratteristiche. Si tratta infatti di una combinazione studiata di generi e citazioni pop – da Gossip Girl a Downton Abbey, passando per Marie Antoniette di Sofia Coppola – il tutto all’insegna della diversità, che qui si spinge fino a immaginare duchi e monarchi neri nell’Inghilterra di inizio Ottocento, con buona pace dei “filologi”. Ma più del cast e dei riferimenti pop, ciò che rende davvero contemporanea e interessante questa serie è il modo in cui parla di relazioni e di matrimonio.
Basata sui bestseller di Julia Quinn, Bridgerton racconta la storia di una famiglia abbiente con i suoi otto figli. Nella prima stagione la protagonista è Daphne, la più grande delle ragazze Bridgerton, che sogna il grande amore mentre i suoi parenti vorrebbero per lei un marito ricco. Circa a metà della serie (da qui attenzione agli spoiler) Daphne convola a nozze con quello che sembra l’uomo perfetto, il Duca Simon Basset: bello, nobile e facoltoso. Ma c’è un problema: lei vuole dei figli, lui no. Dopo l’ennesimo rifiuto da parte del marito, Daphne Bridgerton si trova quindi a vagare per il palazzo del marito e a chiedersi se l’amore da solo basti per tenere in piedi un matrimonio, se la sua non sia stata che una decisione troppo affrettata, dettata più dalla pressione sociale che dalle ragioni del cuore e se non sarebbe stato più saggio conoscersi meglio prima di sposarsi.
Il matrimonio non è mai stato solo questione di sentimenti, ma anche di posizionamento sociale che, soprattutto per le donne, incrocia ancora oggi diversi fattori: culturali, sociali ed economici. Secondo quanto riportato dall’Istat, in Europa il divario tra occupazione maschile e quella femminile cresce con l’arrivo dei figli e più il numero dei figli aumenta, più il divario si allarga. Sono le donne, non gli uomini, a dover conciliare lavoro e vita familiare: sempre secondo l’Istat, il 30% delle madri lavora part-time, al fronte dell’8% dei padri. E se a livello europeo si fanno passi avanti verso il congedo parentale egualitario, in Italia, al netto di una cronica mancanza di posti negli asili nido, si fatica a capire l’importanza di introdurre un congedo di genitorialità uguale per madri e padri. Questo significa che oggi, nel nostro Paese, una donna, una volta diventata madre, dipende dal reddito e dalle entrate del marito o del compagno. Per far funzionare un’unione è evidente che i sentimenti non bastino, o meglio, bastino fino a un certo punto, poi inizia il lavoro di squadra. Indipendentemente dall’arrivo o meno dei figli (o dalla volontà o dalla possibilità di farli), arriva per ogni coppia il momento di sostenersi “in ricchezza o in povertà, in salute e in malattia”. Il matrimonio assomiglia più alla maratona che ai cento metri, ed è una prova di resistenza spalmata sul tempo.
Fin da piccoli – e in particolare se si è femmine – veniamo influenzati da un’immagine di coppia idealizzata, in cui, guarda caso, il potere è detenuto quasi sempre dal maschio. Cenerentola, Biancaneve, La bella addormentata, La bella e la bestia e molte altre fiabe si concludono con un matrimonio tra la protagonista e un principe. E chi ha provato a far notare questo aspetto non proprio trascurabile della nostra formazione, viene aspramente criticato. Nella maggior parte dei film e nelle serie tv prodotti prima del #MeToo la morale delle favola è sempre la stessa: le parabole di Vivian di Pretty Woman, Carrie Bradshaw di Sex and the City e Bridget Jones si concludono con “l’arrivo” del principe azzurro che salva l’eroina da una vita di solitudine e, a volte, di perdizione.
Espressioni come “tu mi completi”, “ho trovato la mia dolce metà” sono molto frequenti e tradiscono l’idea che gli esseri umani siano incompleti se non sono in coppia, come se a chi è solo mancasse una parte fondamentale di sé. Eppure, la crisi dell’unione tradizionale è ormai endemica. Secondo uno studio di Euromonitor International, la famiglia composta da madre, padre e figli è un modello in crisi irreversibile ed entro il 2030 le separazioni nel mondo aumenteranno del 78,5%. Sempre secondo questo studio, in parallelo, crescerà il numero di persone che deciderà di non fare figli a causa “del numero crescente di divorzi e dell’aumento del costo della vita”. Al di là dei freddi numeri, questo vuol dire che sempre più persone, a un certo punto della loro vita, si troveranno sole. Ai tempi dei nostri nonni e dei nostri bisnonni, il divorzio e la separazione erano inaccettabili sotto tutti i punti di vista, specialmente per le donne che dipendevano totalmente dai loro mariti. Questo, nella peggiore delle ipotesi, poteva voler dire sottostare a uomini violenti, accettare unioni imposte dalle famiglie e gravidanze non volute, pena lo stigma sociale. Oggi, per fortuna, non è più così e, come è del tutto evidente, donne e uomini sono molto più liberi di gestire la propria vita affettiva. Proprio per questo occorrerebbe rivedere il modo in cui pensiamo al matrimonio e, in generale, ai progetti di vita di coppia: se è vero che il “vissero per sempre felici e contenti” è sempre più raro, più che puntare a trovare la propria metà dovremmo arrivare al matrimonio con le idee chiare non tanto sulla persona che vogliamo al nostro fianco, ma su chi siamo noi, cosa vogliamo e che strumenti abbiamo a disposizione e possiamo affinare in modo da ottenerlo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di essere completi a prescindere, forse solo allora potremmo essere in grado di progettare realmente il futuro con qualcuno, senza illusioni. E se le cose non dovessero proprio funzionare e quella persona non dovesse rivelarsi essere quella giusta, nel momento in cui non sarà più nella nostra vita noi saremo ancora interi.
Alla luce di questa realtà, anche l’intrattenimento generalista si sta adeguando sempre di più. Solo un’analisi superficiale può fermarsi al colore della pelle degli attori, la vera novità delle serie destinate al grande pubblico sta negli archi narrativi, e serie come quelle di Shonda Rhimes non solo non fanno eccezione, ma hanno anticipato i tempi, proponendo al grande pubblico un nuovo canone in cui la parabola delle protagoniste non si conclude con il matrimonio, ma vede nel matrimonio una tappa del viaggio verso la scoperta di sé.
Foto courtesy Netflix