La prima stagione di Black Mirror andò in onda nel 2011. All’epoca l’opera di Charlie Brooker suscitò reazioni contrastanti: c’era chi era rimasto affascinato dai mondi possibili raccontati dalla serie, e chi imputava alla visione di Brooker un luddismo ingiustificato. In quasi dieci anni la serie ha tracciato le ipotetiche derive della tecnologia in vari modi: a volte immaginando futuri lontani, a volte raccontando un futuro prossimo a un passo dall’avverarsi. Ma Black Mirror è sempre riuscita nel suo intento principale: individuare il punto di intersezione fra l’uomo e la macchina, ragionare su quanto la tecnologia ci cambia e su come influisce nella società. Nel corso del decennio il nostro rapporto con i device elettronici, con i social network, con la pervasività degli schermi si è fatto sempre più stretto, e il futuro che Black Mirror aveva solo accennato è diventato il nostro presente. Ci siamo accorti che la visione di Brooker, che in origine sembrava quasi apocalittica, era in gran parte realistica. Arrivata alla quinta stagione, Black Mirror sembra non più sforzarsi di prevedere il futuro, ma narrare ciò che del futuro è già nel nostro presente.
Il cambio di rotta era già presente nell’episodio speciale Bandersnatch: al di là dell’esperimento sull’interattività, la storia è ambientata negli anni Ottanta, tratta della prima età dell’oro dei videogiochi. È dunque il primo episodio esplicitamente ambientato nel passato. Il protagonista è un nerd che, nel tentativo ossessivo di portare a termine il suo videogioco, sviluppa una psicosi tale da suscitare in lui allucinazioni e paranoie complottiste. A seconda delle scelte dello spettatore la storia si dirama in varie direzioni, ma non c’è mai un vero lieto fine. È chiaro che Brooker vuole ragionare su come alcuni elementi della cultura nerd possano essere declinati in senso reazionario, un tema caro all’autore – ne aveva già dato una parziale lettura nell’episodio USS Callister – e strettamente connesso al fenomeno contemporaneo dell’alt-right.
I videogiochi sono l’escamotage narrativo usato in Striking Vipers, primo episodio della quinta stagione, per introdurre un tema complesso come il rapporto fra virtualità e identità di genere. Danny e Karl sono due amici di vecchia data, in ricordo dei tempi dell’università Karl regala a Danny un picchiaduro in realtà virtuale. Il gioco dà al possibilità di impersonare completamente i combattenti, in modo da avere un’esperienza immersiva. Nella prima partita Danny sceglie un personaggio maschile, mentre Karl si trova nei panni di un personaggio femminile. Lo scontro dura pochi minuti perché, inaspettatamente, i due decidono di esplorare il limite del gioco e le possibilità dei nuovi corpi, e per questo si baciano. Pochi secondo dopo, complice l’imbarazzo, interrompono la simulazione bruscamente, ma sarà solo l’inizio: spinti da un bisogno interiore si ritroveranno più volte all’interno del gioco e, con lo stesso cambio di genere, arriveranno al rapporto sessuale.
Striking Vipers è una delle puntate più interessanti viste sino a ora: attraverso la mediazione del digitale Danny e Karl riescono a superare i pregiudizi che li frenano e scoprire una parte inedita della propria sessualità. Si tratta di una riappropriazione del proprio corpo che passa, paradossalmente, dalla sua perdita, poiché la mente dei giocatori è separata dal corpo nel momento della partita. La tecnologia modella nuovi corpi, nel limbo della virtualità i due amici si trovano liberi dalle consuetudini sociali e possono sperimentare un approccio nuovo, liberando qualcosa che era sedimentato da tempo oppure esplorando qualcosa che non avevano mai provato.
È uno dei rari casi in cui Brooker suggerisce un potenziale liberatorio nella tecnologia e a frenare i due amici sono, al contrario, i ruoli imposti dalla società. Danny si è cucito addosso quello di padre di famiglia, ligio al dovere e fedele alla propria moglie. Un ruolo talmente stereotipato che la coppia segue le indicazioni di un’app sulla fertilità per decidere quando avere un rapporto sessuale, subordinando l’intimità alle indicazioni di un algoritmo, proprio come fanno molte coppie nella vita reale. Karl invece è il tipico scapolo che conduce una vita sessuale attiva: legami brevi, molte partner, cene galanti e rapporti consumati frettolosamente, per soddisfare il bisogno fisico, piuttosto che quello sentimentale, e alimentare una narrazione che lo vede essere uno “sciupafemmine”. I due sono stereotipi della mascolinità, inibiti dall’immaginario a cui appartengono. Il bersaglio di Brooker stavolta non è la pericolosità della tecnologia, ma la nostra contemporaneità che produce modelli di comportamento tossici.
Declinato al presente è anche il secondo episodio, Smithereens, che riprende il genere d’azione visto in episodi come Metalhead e Men Against Fire. Chris è un tassista che ha perso una persona cara: lo vediamo partecipare a sessioni di terapia di gruppo per superare la perdita, cercare di ricostruirsi una guida. Eppure Chris non ha nessuna intenzione di superare il trauma: una mattina, con il suo taxi, mette in atto il sequestro di un dipendente che lavora per il suo social network preferito, Smithereen appunto. L’obiettivo è riuscire a parlare con Billy Bauer, il capo dell’azienda, il creatore dell’app da cui è ossessionato.
La puntata è il racconto delle ore del sequestro, giocato sulla progressiva rivelazione della vita di Chris in un colloquio telefonico fra polizia e i dirigenti di Smithereen, come a dire che l’azienda, detenendo le informazioni della vita digitale dei propri iscritti, conosce Chris meglio di chiunque altro. Una convinzione che condivide anche il protagonista, deciso a fare di tutto pur di parlare con Billy Bauer, nell’illusione che quello sconosciuto lo capisca nel profondo. Bauer è descritto con i tratti consueti del tech guru della Silicon Valley: intriso di filosofia new age, avvezzo a uno stile di vita minimalista, a prima vista idealista o addirittura ingenuo. Ma al di là di una distaccata e fasulla compassione Bauer non offre nessun aiuto a Chris. Dal suo eremo in California Bauer parla come gli suggeriscono gli psicologi, che grazie ai dati raccolti su Smithereen conoscono alla perfezione il modello di comportamento di Chris, e, mentre la parabola del sequestratore si avvia verso una tragica fine, sostanzialmente se ne lava le mani. La solitudine dell’era dei social network è descritta in maniera radicale, ma non si tratta di una solitudine futura, è il sentimento che pervade il nostro presente.
Lo stesso sentimento che prova anche Ashley O, interpretata da Miley Cyrus nel terzo episodio, costretta dalla sua zia-manager a una vita da popstar che non le appartiene. Ashley è schiava del sistema e di sua zia che la considera una gallina dalle uova d’oro, al punto da farla entrare in coma farmacologico quando la nipote minaccia di ribellarsi. Ad aiutare la cantante saranno Rachel e Jack, due adolescenti in possesso di una bambola difettosa di Ashley. Nella bambola, che originariamente doveva essere una sorta di copia robot della popstar, è stata copiata l’intera personalità dell’artista. Grazie all’aiuto della copia robotica le due ragazze comprendono l’inganno dell’entourage di Ashley ai suoi danni.
Il tema del download di conoscenza su supporti robotici è già stato affrontato in episodi come Black Museum e White Christmas, e in questo caso non costituisce il centro della storia, ma solo un espediente per raccontare il dietro le quinte dello star system. La cifra grottesca della puntata è proprio la vita da prigioniera di Ashley, il suo essere percepita solo come un prodotto, la cui presenza fisica può essere sostituita da una versione olografica. Non conta ciò che Ashley pensa o ciò che compone, conta solo la sua immagine. Per Brooker lo show business è la vera macchina, un’industria dello spettacolo che produce automi come in una gigantesca fotocopiatrice.
Se fino a ora Black Mirror ci aveva messo in guardia dai pericoli di un futuro dominato dalla tecnologia, adesso punta il dito sul presente e cerca di sfumare la propria visione pessimista. Gli uomini utilizzano la tecnologia come strumento di poter e allo stesso modo nel mezzo tecnologico ci sono possibilità di emancipazione. Per questo Black Mirror è diventata ancora più interessante, perché mette a fuoco il contemporaneo con la medesima lucidità adoperata nel racconto del futuro, perché la dialettica fra l’oggi e il domani è diventata troppo stretta per separare gli ambiti. Ed è giusto che ci siano prodotti in grado di ricordarci che uso facciamo, o che potremmo fare, degli strumenti di cui siamo in possesso, prima che finiamo per esserne sopraffatti.