Charlie Brooker è un uomo pieno di rancore e fantasia. Il giorno in cui scopre Siri, l’”assistente virtuale” di Apple, rimane traumatizzato. “Siri è un verme, un servile leccaculo con zero rispetto di sé”, scrive nel 2011 in un articolo sul Guardian per presentare la sua nuova serie TV. “Ora posso aspettarmi di parlare con le macchine per il resto della mia vita. Oggi è Siri, domani sarà un’auto parlante, poi il cartone di un succo di frutta e quando avrò settant’anni terrò conversazioni strazianti con la riproduzione di persone morte. Forse sentirò le loro voci nella mia testa, è così che sarà”. Dall’odio verso Siri nasce dunque quel prodotto televisivo di nicchia, inizialmente trasmesso solo sul canale britannico Channel 4. Tre puntate autoconclusive che arrivano in Italia soltanto l’anno dopo, su Sky. Ricordo nitidamente le sensazioni provate guardandole la prima volta: angoscia, stupore per un futuro che è in realtà già presente e che viene anticipato con un cinismo mai visto prima. Oggi, nel 2023, arrivati alla sesta stagione, Black Mirror però sembra essere stato sorpassato dalla realtà e non ha più motivo di esistere.
In quell’articolo del 2011, Brooker si chiede: “Se la tecnologia è una droga – e sembra proprio una droga – allora quali sono, di preciso, i suoi effetti collaterali?”. Nelle prime due stagioni di Black Mirror, prima dell’arrivo degli artigli di Netflix sulla gallina dalle uova d’oro, Brooker è riuscito in pieno a descriverli. Non rappresenta infatti una semplice distopia, e nemmeno la raffigurazione della tecnologia in modo fantascientifico. Non a caso il primo episodio, “The National Anthem”, non mostra robot, salti nel futuro o elementi fantastici: soltanto noi stessi. È quello il black mirror, lo specchio che diventa uno schermo e che trasforma il nostro modo di vivere e l’approccio alla vita degli altri.
Seguono delle puntate, tra prima e seconda stagione, di una potenza evocativa inquietante e prodigiosa. Entrano in gioco anche la tecnologia del futuro, la registrazione dei ricordi, gli avatar che accumulano punteggio (“15 Million Merits” è un po’ la versione di Orwell nell’era dei reality show), e la sensazione di stordimento nasce dal fatto che il futuro raccontato sia in realtà un’allegoria del presente. L’episodio “Be Right Back”, con una donna a messaggiare con il chatbot del suo compagno defunto, che poi si presenta alla sua porta, è la versione ampliata di ChatGPT dieci anni prima della sua invenzione. “The Waldo Moment” è la storia di un comico che anima un orsetto che decide di candidarsi alle elezioni, ed è praticamente la parabola di Beppe Grillo. “White Bear” è il loop dell’orrore per rappresentare il voyeurismo sadico dei nostri tempi. Tutto funziona alla perfezione, Black Mirror diventa un fenomeno globale proprio perché nella serialità televisiva nessuno aveva parlato di noi e della tecnologia, di questo rapporto spesso malsano in questi termini. Poi arriva Netflix, e qualcosa inizia a scricchiolare.
Il budget per la produzione si alza vertiginosamente, le grandi star sono le prime a voler apparire nella serie del momento (che fai, non ce la vuoi buttare dentro pure una Miley Cyrus a caso?) e le aspettative crescono. Le stagioni successive iniziano a mostrare una patina mainstream che prima non avevano. Il cinismo british si trasforma nella grande epopea americana del racconto che deve contenere le emozioni con gli steroidi, qualche esplosione, una messa in scena in pompa magna e tutti i dogmi da grande produzione. Ci sono ancora alcuni episodi grandiosi, ma sembra già un’altra serie. Uno dei più amati dai fan, “San Junipero”, è indubbiamente impattante a livello emotivo, con una regia calzante e la fotografia delle grandi occasioni. Ma non è già più Black Mirror. Ci sono ancora tracce sparse nei restanti episodi, ma tutto è stato pensato per poter diventare un prodotto più che un contenuto, una merce più che una rappresentazione artistica. Con l’uscita, qualche giorno fa, della sesta stagione, si capisce però che il motivo del calo qualitativo della serie non è soltanto attribuibile a Netflix, all’espansione incontrollata del fenomeno o ad altre dinamiche interne. Semplicemente il messaggio che vuole trasmettere non fa più paura, perché abbiamo ormai familiarizzato talmente tanto con quello schermo nero che non rappresenta più una novità inquietante. Nell’articolo sul Guardian del 2011, Brooker scriveva: “Il presente non è meno folle, facciamo abitualmente cose che solo cinque anni fa non avrebbero avuto senso per noi” e in qualche modo profetizza l’inevitabile anacronismo che avrebbe ammantato le stagioni successive di Black Mirror. Un prodotto che funzionava cinque anni fa, nel presente può essere già obsoleto.
Ciò che ci viene mostrato non è più qualcosa di diverso, di inedito. In questa stagione Brooker prende in giro Netflix venendo trasmesso da Netflix. Forse avrebbe funzionato sei o sette anni fa, non di certo ora, quando persino in Italia siamo arrivati a fare lo stesso (con Boris che sfotte la piattaforma e i suoi algoritmi). Brooker ha provato persino a spostarsi su altri lidi, tentando in alcuni episodi la strada di uno pseudo-horror. Come risultato, vedendo le recensioni della critica e la reazione del pubblico, ha ottenuto però solo risate di scherno. Sì, possiamo dire che ha tentato di cambiare strada, forse consapevole anche lui che la vecchia Black Mirror non avrebbe più sortito lo stesso effetto. Quella nuova però sembra non andare da nessuna parte, e rischia di rovinare la reputazione di una serie che ha avuto due stagioni spettacolari, altre due con alti e bassi e, infine, due da cancellare dalla nostra memoria con uno di quegli aggeggi che Brooker un tempo, quando era ancora il momento giusto per farlo, avrebbe inserito in uno dei suoi episodi.
L’annullamento dell’effetto straniante di Black Mirror d’altronde è fisiologico. Oggi, nel 2023, nessuno ha più paura di Siri. Sbadigliando tra uno scroll e l’altro ascoltiamo John Lennon che canta “Yesterday” con l’intelligenza artificiale, guardiamo deep fake video che all’apparenza sembrano veri, assistiamo a senatori al Congresso degli Stati Uniti che pronunciano discorsi scritti da una macchina. Non ha più senso spaventare gli spettatori parlando di un futuro che è già qui, e usare i licantropi o lo sputtanamento di Netflix su Netflix non è un surrogato efficace. Anche perché Black Mirror non è mai stata fantascienza, ma una proiezione dell’oggi in un domani plausibile attraverso una narrazione che faceva leva proprio sulle innovazioni digitali dell’ultimo decennio.
La società si è adeguata, nel bene o nel male, a queste trasformazioni, anche se sono state repentine. Io, nato alla fine degli anni Ottanta, ho assistito alla scomparsa dei floppy disc, delle cassette, di Blockbuster, del DVD, del CD, di MySpace, di Msn, e non mi sorprendo più come quando, da bambino, trovavo nella confezione dei cereali gli occhialini di plastica per vedere i dinosauri in 3D. Siamo arrivati al punto in cui assimiliamo ogni novità con un’ordinarietà quasi distratta. Venendo meno lo stupore, Black Mirror cessa inevitabilmente di funzionare come faceva un tempo. Resta sì un prodotto che, per breve tempo, ha rivoluzionato i canoni televisivi, e questo merito non glielo toglierà nessuno, ma oggi rischia di apparire come un floppy disc che non si è ancora arreso alla sua obsolescenza.