Credo sia capitato quasi a chiunque di provare la sensazione che certi volti, accompagnati dalle loro rispettive voci, invadano con la loro presenza qualsiasi spazio mediatico. Ovunque ti giri vedi la stessa faccia: accendi la tv ed eccolo là, esattamente dove lo avevi lasciato su Twitter pochi minuti prima; così come sulla copertina di quella rivista che ti è appena capitata sotto agli occhi e sugli schermi che fanno da sottofondo al bar dove vai tutti i giorni. Nella maggior parte dei casi non è la nostra vita che si è trasformata in un numero di Dylan Dog in cui qualche demone si è impossessato di tutti i canali di comunicazione che ci circondano per farci il lavaggio del cervello, ma una nostra impressione dettata magari da un’antipatia verso quel preciso personaggio. Tuttavia, c’è una donna dello spettacolo che, a prescindere dalla nostra percezione, da dieci anni a questa parte circa, dopo una lunga carriera televisiva di successo, ha dei ritmi lavorativi che la rendono in effetti una presenza costante e certa del palinsesto nazionale. Barbara D’Urso – che prima di cercare una soluzione all’eccesso di meridionalità del suo nome per fare breccia nelle reti lombarde si chiamava Maria Carmela – è oggettivamente la donna più presente in televisione, conducendo dalle tre alle quattro trasmissioni nell’arco di una settimana. E non trasmissioni qualsiasi, ma dei veri e propri cult dell’intrattenimento, tanto seguiti quanto criticati.
Barbara D’Urso, dunque, non è solo un personaggio televisivo di successo che si districa tra gli ostacoli dell’oblio mediatico da più di trent’anni e si mantiene sempre appetibile per la rete in cui lavora. La conduttrice partenopea, famosa anche per aver inciso una canzone capolavoro come “Dolceamaro“, è la regina della televisione pop, che negli ultimi dieci anni ha forgiato a sua immagine e somiglianza, creando un genere specifico che si riconosce più che per i suoi contenuti – si tratta di talk, trasmissioni di approfondimento e cronaca come ce ne sono a decine in tv – per il modo in cui questi vengono messi in scena. La cornice patinata che avvolge Barbara D’Urso, unita alla sua immagine curata in ogni dettaglio – dalla mimica facciale alla postura per i selfie di rito a fine trasmissione – ha fatto sì che noi tutti spettatori dei suoi show, sia affezionati che indifferenti o detrattori, siamo in grado di riconoscerne il carattere innegabilmente forte. E quando si parla di comunicazione, spettacolo e intrattenimento, non c’è dubbio che la personalità e la riconoscibilità giochino ruoli fondamentali per rendere un prodotto televisivo duraturo e solido. Barbara D’Urso, infatti, con i suoi vari Pomeriggio Cinque, declinati poi alla domenica o alle edizioni serali speciali come Live – Non è la D’Urso, ha dato vita a un salotto in cui ogni casalinga annoiata può rifugiarsi nella solitudine dei suoi pomeriggi per riprodurre ciò che un tempo era l’atmosfera del cortile nella cucina di casa sua con un televisore a tubo catodico vecchio di vent’anni. Ma limitare il suo pubblico solo alla signora Maria del terzo piano è piuttosto riduttivo, considerato che c’è anche una bella fetta di amanti del cosiddetto trash che nutrono la schiera di audience della sua televisione.
Barbara D’Urso, la stakanovista, è diventata quindi in questi ultimi anni in cui la sua attività lavorativa si è decisamente intensificata, un simbolo della cultura trash, che dovrebbe muoversi con leggerezza in una forma di intrattenimento che informa, l’infotainment appunto. Una formula televisiva che negli Stati Uniti viene dominata dalla regina indiscussa di questo tipo di trasmissione, ossia Oprah Winfrey che, guarda caso, è anche l’unico account che segue D’Urso su Instagram. Tanti sentimenti e tanta confidenza tra conduttrice e spettatori all’ascolto che si manifesta in un costante richiamo alla partecipazione, all’immedesimazione, al patema d’animo condiviso, allo scandalo, a tutto ciò che si contiene in quel famoso meme che circolava agli albori di Facebook e dell’ironia social sul trash in cui c’era il suo tipico volto esterrefatto e la didascalia “Ma quindi lei mi sta dicendo che…”. Perché di base, il motivo per cui piace tanto a chi sguazza in questa eterna soap opera che si nutre di realtà è lo stesso che fa storcere il naso a chi da questo eccesso di pathos ne trae le conclusioni più ciniche, ossia che è tutta una narrazione all’insegna dell’eccesso per fare numeri e ascolti. In teoria, il fatto che una donna fondi il proprio impero televisivo nutrendosi delle sventure e dei fatti degli altri può avere anche una sua legittimità: a tutti piace ascoltare storie, sia che si tratti di un flirt nato nella casa del Grande Fratello sia che si tratti de I dolori del giovane Werther, e le due cose possono anche andare insieme; e chi decide liberamente di prestarsi a questa rappresentazione in tinta rosa shocking è artefice del proprio destino. Barbara D’Urso, tanto abbagliata dagli strati di luci di scena che la rendono quasi una statua del Madame Tussauds in perenne posa plastica, ha però condito questa formula, di per sé innocua, con una componente comunicativa accentratrice che in tempi in cui la verità delle cose è sempre più filtrata dal mezzo con cui si propaga risulta abbastanza pericolosa.
Il caso recente della puntata di Live – Non è la D’Urso che ha ospitato il leader della Lega Matteo Salvini è un esempio piuttosto concreto ed esemplificativo di ciò che nella televisione di Barbara D’Urso c’è di sbagliato, al di là della simpatia e del gradimento che ognuno di noi può nutrire nei confronti di certi format. Il 22 settembre 2019, infatti, l’ex ministro dell’Interno con la passione per le discoteche in spiaggia e il foodblogging è stato presente alla trasmissione serale che prende il nome dalla sua conduttrice demiurga. La formula di questo show, che si struttura su più parti, raggiunge il suo acme quando un ospite – in questo caso Salvini – si trova a dover affrontare una giuria popolare fatta di cinque personaggi divisi equamente tra sostenitori e detrattori. Un tipo di intrattenimento basato sul piacere proibito di vedere la testa di qualcuno cadere in una pubblica piazza, ma tutto sommato niente che vada oltre la pornografia della rissa televisiva in cui D’Urso decide deliberatamente attraverso la rappresentazione che dà dei suoi ospiti chi ha torto e chi ha ragione. Di per sé un modo dittatoriale e univoco di raccontare qualcosa, ma come spiega Barthes ne Il grado zero della scrittura a proposito delle scritture di regime, è proprio in questo tipo di narrazione che sta il senso più puro del discorso, considerato che il significato non è a libera interpretazione ma pilotato dal totalitarismo di chi decide la gerarchia dei significati – non che Barbara D’Urso sia una dittatrice, ma in termini televisivi ha un ruolo piuttosto forte.
Nel momento in cui a essere ospite in questo foro luminescente ed edulcorato non è qualche starlette ma un personaggio politico – già peraltro in diverse occasioni sedutosi sulla poltrona di casa D’Urso – il fatto che il messaggio che arriva a chi guarda passi attraverso la completa riformulazione di chi presenta è quanto di più distante da ciò che dovremmo definire “informazione”. Perché va bene che nella parola infotainment c’è anche il concetto di entertainment, ma non è che l’intrattenimento può oltrepassare i limiti della verità, fornendo a chi guarda immagini di ciò che qualche anno fa avremmo definito con il termine ormai passato di moda “post-verità”. Di fatto, quando a intervenire in una trasmissione che calca la mano su emozioni, opinioni personali e giudizi non proprio razionali è un leader politico di grande impatto mediatico come Salvini, dare l’idea che ciò che sta avvenendo è ciò che è vero e giusto – ossia metterlo nelle condizioni per cui sembra che tutto il tifo vada dalla sua parte e in favore di ciò che dice – equivale proprio all’idea di post-truth per cui non conta tanto ciò che è vero o no, ma ciò che io personalmente ritengo tale. Durante questa simulazione di processo, Salvini è stato dunque messo davanti ad altri personaggi dello spettacolo: Asia Argento, Alba Parietti, Alda D’Eusanio, Iva Zanicchi e il vecchio commentatore sportivo Idris (Edrissa Sanneh), il quale però ha fatto solo alcuni interventi piuttosto scollati. Già solo l’idea di mettere un leader del calibro di Salvini – che di questa formula triviale di comunicazione pop è senza dubbio il campione in carica – contro personaggi dello spettacolo che sebbene preparati appartengono evidentemente a un altro mondo rende subito chiaro quale sarà la direzione del dibattito. E infatti, tutta la querelle tra il politico e i suoi interlocutori – in particolare quella con Asia Argento che poi si è conclusa con un selfie tra i due – è stato uno spettacolo all’insegna della narrazione popolare che Salvini fa di sé attraverso i soliti espedienti retorici come il classico riferimento ai migranti con le scarpe da ginnastica e lo smartphone che “Vengono qua in Italia a fare casino” a cui un pubblico che avrebbe dovuto rappresentare il cosiddetto “Paese reale” reagiva con applausi di approvazione. In sostanza, Barbara D’Urso ha messo il leader della Lega nelle condizioni migliori possibili – fingendo peraltro una dinamica femminista per cui anche le donne hanno diritto a mettersi a tu per tu con lui, ma dimenticando che un dibattito, per essere definito tale, necessita di un reale contraddittorio tra persone ad armi pari – per fare sì che lo show da palco del Salvini Tour si replicasse in studio. Cosa che Salvini ha sempre fatto in televisione, certo, ma è ben diverso vederlo in una casa delle bambole come lo studio di Barbara D’Urso a fronteggiare una Asia Argento della quale si permette con disinvoltura di questionare la natura da “signora”, con immediato supporto del pubblico, e a non avere nessun “reale” avversario di fronte – come potrebbe essere una giornalista come Lilli Gruber, per esempio – ma solo dei personaggi dello spettacolo, lì al solo scopo di offrirgli un palco su cui mostrarsi vincente.
Ciò che è successo in questo episodio di Live – Non è la D’Urso è dunque la prova del fatto che se la televisione e l’informazione – di intrattenimento che sia – si prendono la libertà di pilotare ciò che viene raccontato attraverso mezzi che fanno leva sull’emotività e sulla tifoseria, il risultato è che questa stessa arma si può tranquillamente trasformare in propaganda. Ci è arrivato persino Massimo Giletti a riprendere Barbara D’Urso per spronarla a una maggiore correttezza nel modo in cui tratta le vicende, nel caso specifico riferendosi a tutta quella assurda messa in scena del caso di Pamela Prati e Mark Caltagirone che lei stessa ha alimentato con diversi episodi dedicati delle sue trasmissioni. Ma se questo principio di limpidezza e di correttezza va applicato anche nei casi di cronaca rosa, senza lasciare che sia una sola persona a pilotare l’opinione di chi guarda facendo di tutto per fare prevalere il proprio punto di vista, a maggior ragione una cosa simile non può succedere quando si parla di razzismo, migranti, rom e sinti (tutti “zingari”) e tutti i temi che Salvini ha snocciolato seduto sulla poltrona mentre si godeva le luci della ribalta da bravo padre italiano che adora il salotto di Barbara.
Il fatto di rappresentare sentimenti, vicissitudini personali, pettegolezzi e litigi attraverso il salotto di una conduttrice può essere una forma di intrattenimento che a molti può dare la nausea, così come può appassionare tantissimi altri. Su internet Barbara D’Urso, ad esempio, è stata più volte citata come esempio positivo per la comunità LGBTQ+, avendo lei spesso dichiarato di essere a favore dei diritti degli omosessuali, anche di fronte a Salvini in un’altra occasione in cui lo aveva ospitato. Ma la stessa tenacia non è stata dimostrata quando i temi invece riguardavano altre comunità oppresse e che necessitano di pari diritti, o persone in condizione di difficoltà come i migranti. Personalmente, non credo che ci sia nulla di così assurdo nel ricercare la leggerezza del gossip, né che questo indichi una minore raffinatezza intellettuale; si tratta di storie raccontate, con più o meno cattivo gusto. Credo però che nel momento in cui un personaggio pubblico strutturi il suo modo di narrare mescolando alto e basso su un principio induttivo di realtà allora il rischio di poter trasformare questa formula in qualcosa di molto più pericoloso è alto. Così come i deepfake usati da Striscia la Notizia “per ridere” sono in realtà un mezzo dannoso, come qualsiasi cosa oggi che accentui la confusione tra realtà e finzione, allo stesso modo Barbara D’Urso ha costruito un universo parallelo in cui la narrazione è dominata da lei. Il problema è che sono in tantissimi a volersi calare in questo mondo fatto di “caffeucci”, ma non tutti sono in grado di comprendere dove finisce la realtà e dove comincia la verità che lei ha deciso di raccontarci.