Da quando le serie tv sono diventate una cosa seria, giochi di parole a parte, sono stati trattati quasi tutti i temi che la cinematografia e la letteratura offrivano, molti dei quali con grande successo e risultati di ottima qualità. Ma c’è un’area che continua a rimanere scoperta, come se fosse impossibile confrontarsi con questa zona spinosa dell’intrattenimento senza scadere in esiti alla 13 Reasons Why: pare infatti che nessuno abbia ancora capito come rappresentare l’adolescenza non dico in modo credibile, ma quanto meno non demenziale. Forse perché nessun adolescente scrive serie televisive e i cambiamenti generazionali sono ormai tanto veloci che anche se eri al liceo appena dieci anni prima è già diventato tutto troppo diverso, ed è un attimo che hai capito come funziona Snapchat che già non si usa più, o forse perché questa età del genere umano è destinata a essere un’eterna vittima degli stereotipi. Sta di fatto che quasi ogni tentativo di rappresentare questo segmento di vita scade inevitabilmente in una parodia di qualche teen drama da programmazione pomeridiana di Italia Uno. Su questo terreno molto fragile si è avventurata Baby, la nuova serie Netflix uscita sulla piattaforma americana lo scorso 30 novembre.
Da quando si è saputo che era stata girata una nuova serie italiana per Netflix, una delle ragioni per cui ha suscitato molta curiosità era il tema: un riadattamento seriale della famosa vicenda delle baby prostitute dei Parioli. Figurarsi se ci si poteva distrarre davanti a una prospettiva così allettante come quella di potersi focalizzare di nuovo su un fatto di cronaca così succulento. Quando ci sono di mezzo soldi, ragazzine viziate della Roma bene, prostituzione minorile e mariti di eminenti personaggi politici, si potrebbe andare avanti all’infinto con la curiosità morbosa di sapere qualsiasi dettaglio. E in questa atmosfera gli ideatori di Baby hanno saputo muoversi molto bene, montando un hype che divide il pubblico, tra chi negli Stati Uniti accusa la serie di “normalizzare” e rendere glamour la questione della prostituzione minorile e chi invece muore dalla voglia di vedere come questa cosa succeda. Ma superata la fase dei giudizi a priori e risparmiandosi lo spreco di tempo nel prestare attenzione all’indole censoria tipicamente americana che bolla come diseducativo qualsiasi prodotto d’intrattenimento che vada leggermente fuori dallo schema narrativo dei Teletubbies, Baby è una serie che ha un’ammirevole ambizione. Ovvero, quella di andare e riempire un vuoto e di tirare in ballo gli adolescenti provando a parlare anche agli adulti, di fare una serie tv che parli di teenager senza per forza calibrarla sulle capacità intellettuali di una lettrice media del Cioè. E anche se il risultato non è stato pienamente raggiunto, bisogna riconoscere al collettivo di giovani creativi che l’hanno scritta e creata che in Baby ci sono alcune cose riuscite, o perlomeno se ne intuisce l’intenzione. Il resto invece sembra il frutto di un innesto perverso tra O.C., Bling Ring e Un medico in famiglia.
Per evitare di lanciarsi subito in una delle tante invettive contro qualche nuova serie tv, si potrebbe provare un approccio più baconiano e cominciare a dire quello che in Baby c’è di buono. A dare manforte alla pars construens dell’analisi di questa serie che sembra voglia far dirigere a Sofia Coppola un servizio sugli studenti del Giulio Cesare – che però si trovano nell’immaginario Liceo Collodi, con tanto di divise di Hogwarts – c’è prima di tutto l’ambientazione. Dai Parioli al Quarticciolo, i due antipodi di questo universo popolato da “macchinette” e trasgressione, lo scenario che sta attorno ai protagonisti di Baby è ben curato e verosimile. E non parlo solo dei luoghi e delle raffigurazioni di camerette pregne di musiche tristi e lacrime piante per “il tuo lui”, ma anche delle ambientazioni più eteree: il modo in cui i social si intersecano alla vita dei protagonisti non è forzato ma subentra nella realtà in modo piuttosto disinvolto e pertinente. Ma la cosa che meglio viene fuori da tutto questo apparato di pischelli in giacca e cravatta la mattina e in magliette Thrasher la sera sono i volti, le parlate, i toni di voce: il casting di Baby è di certo l’elemento più encomiabile di tutta la serie. Gli attori adulti sono tutti ben assortiti, da Isabella Ferrari, nel ruolo della mamma scapestrata col fidanzato toyboy succhia-soldi, a Claudia Pandolfi, che interpreta la bella prof. di educazione fisica in piena crisi dei quarant’anni, fino a Tommaso Ragno, il preside tutto d’un pezzo, e a Galatea Ranzi, intrappolata a vita nel ruolo della madre o della borghese annoiata come in Caterina va in città e ne La Grande Bellezza. L’unico vero problema del casting è quello di aver scelto di fare interpretare a Biascica di Boris il ruolo del pappone spietato che sfrutta minorenni e gestisce un club di scambisti con atmosfere porno-rococò alla Eyes Wide Shut. Potrai sforzarti quanto vuoi di accettare che Paolo Calabresi è un attore, e in quanto tale ha il diritto di interpretare altri ruoli nella sua vita, ma a un certo punto vedrai quel berretto di lana con su scritto “asshole” materializzarsi sulla sua testa.
Per quanto riguarda invece la parte giovani emergenti, anche la scelta delle due protagoniste è piuttosto azzeccata: da un lato Benedetta Porcaroli (che interpreta Chiara), reduce da anni di Tutto può succedere da cui continua ad attingere per il suo stile recitativo, dall’altro Alice Pagani (che interpreta Ludo, e guai a sprecare fiato con tutte le sillabe del suo nome), finita sotto ai riflettori grazie alla sua parte in Loro di Sorrentino. Le due attrici incarnano bene quel concentrato di adolescenza, tormento e irrefrenabile voglia di diventare una bad girl, perché si sa quella storia del paradiso e delle cattive ragazze che vanno dappertutto. Attorno a loro i ragazzi del liceo Collodi sono pariolini senza scrupoli, facce da schiaffi impareggiabili, e se viene voglia di dare due sberle un po’ a tutto il cast under 18 della serie vuol dire che il risultato è riuscito. Unica eccezione Damiano, l’outsider del Quarticciolo che alla faccia di culo da pischelletto di Roma Nord sostituisce uno sguardo tenebroso e truce da borgataro problematico ma sensibile. Questa carovana di adulti incasinati e adolescenti ribelli si districa tra una molteplicità consistente di topoi narrativi, tratto distintivo di questa serie che fa da ponte tra i suoi aspetti positivi e quelli negativi, perché la pars destruens prima o poi doveva arrivare.
In Baby, infatti, ci sono tantissimi temi che si intersecano nella trama, tutti molto attuali e di rilievo, specialmente nel mondo dei teenager. Il problema è che se decidi di mettere in sei puntate da quaranta minuti circa tutto lo spettro dei disturbi psicologici contemporanei probabilmente qualcuno te lo perderai per strada. Abbiamo infatti episodi di slut shaming, quando Ludo viene apostrofata con il simpatico termine di “secchiello” per via di un episodio di revenge porn; abbiamo il coming out di Fabio e la sua scoperta di Grindr, e il femminismo sbandierato di Camilla, che non perde occasione per dare lezioni sulla parità di genere – forse in modo un po’ troppo scolastico, confermando il luogo comune che al ruolo di femminista corrisponda quello della ragazza acida. C’è la droga, Damiano e il suo passato tormentato da figlio abbandonato che soffre dei rigurgiti del Quarticciolo, ci sono i drammi borghesi familiari dei genitori di Chiara che recitano la classica parte della coppia che non si ama più, e ci sono Ludo e i suoi genitori a tratti invisibili a tratti troppo immaturi e il tema della madre che vuole fare la ragazzina. Non manca il risvolto alla Dawson’s Creek dell’alunno che si invaghisce della prof., e della prof. che per sentirsi di nuovo viva si lancia in questa folle avventura negli spogliatoi del liceo; c’è tanto bullismo, gente che spinge altra gente nelle piscine per pura vendetta, gente che picchia altra gente dal finestrino di una macchinetta. E poi, ovviamente, c’è il grande tema della prostituzione minorile, quello che avrebbe dovuto essere il centro di questa serie ma che di fatto diventa solo un velato sfondo, un dettaglio di questa storia che preferisce raccontarci i perché di questa avventura sconsiderata piuttosto che i dettagli della professione in sé – e di questo possiamo solo complimentarci. Ma la carne sul fuoco è davvero tanta e il vero problema di Baby non è certo lo scandalo al quale gridavano gli indignati ma sono la rappresentazione e la caratterizzazione di tutti questi personaggi che devono fare fronte a così tanti problemi in così poco tempo.
Chiara e Ludo sono rispettivamente una Sofia Viscardi e una Greta Menchi che scoprono il brivido della criminalità di lusso: la prima è il ritratto della perfezione – o della noia – bella, delicata, eterea, la protagonista perfetta di una canzone di Tommaso Paradiso che, guarda caso, si diletta pure a intonare in una scena degna del miglior Moccia; poi c’è Ludo, la dark, la ragazza col caschetto à la Matilda di Leon o à la Valentina o à la qualsiasi personaggio femminile problematico e tenebroso. Tra le due, Ludo è la vittima della cattiveria adolescenziale, dei disastri familiari, è quella che si avventura nei club di scambisti per scroccare cocktail ed esercitare il suo potere di mangiatrice di uomini. Ma attenzione, perché dietro questa corazza di spregiudicatezza si nasconde un animo ferito che in fondo vuole solo essere accettato, e la prostituzione diventa un ottimo strumento non solo per sopperire alla mancanza di una figura paterna – che si intravede appena mentre la definisce una figlia degenere – ma anche per pagarsi la scuola privata che non vuole assolutamente lasciare nonostante i dissesti familiari. Insomma, Ludo, che di Greta Menchi ha non solo l’aspetto ma anche l’abilità fonetica di trasformare qualsiasi parola in un ammasso di vocali aperte, si caccia in un brutto guaio ma lo fa in fondo a fin di bene. Chiara invece è tutta un’altra storia: lei è un angelo che vuole giocare a fare il diavolo, vuole vedere che succede se ci si spinge così in là, vuole sentirsi viva perché che noia i Parioli, le macchinette e Tommaso Paradiso. Non ha bisogno di soldi, e ha anche la fortuna di vedersi spuntare un affascinante trentenne come primo cliente. Chiara, in pratica, è una Belle de jour che vuole dare una svolta alla sua vita noiosa e conformista, vuole tagliare i ponti con la sua ex migliore amica, Camilla, vuole scappare via da quell’attico opprimente dove due genitori borghesi e ancora più annoiati di lei si divertono a mettere su drammi e disperazione. Chiara è, in sostanza, una ragazzina viziata che vuole solo un altro giocattolo. E il nuovo divertissement della pariolina non può che essere Damiano, un trastullo proletario che incanta il liceo Collodi con la sua rozzezza e la sua pericolosità. Come sempre, il personaggio povero non può che essere un finto plebeo che come in un romanzo di Dickens scopre che in realtà fa anche lui parte di quel mondo sfavillante, solo ancora non se ne era accorto. In pieno stile Ryan Atwood, Damiano arriva e semina il panico, oltre che droga e nasi rotti. E in pieno stile teen drama americano, anche Damiano è solo un duro che in realtà vuole solo essere amato.
Baby, dunque, ricalca senza nessun particolare sforzo di fantasia le trame, i dialoghi e i personaggi di qualsiasi prodotto sugli adolescenti. Chiara e Ludo si ritrovano in questa spinta verso la trasgressione, chi per noia chi per esigenza, e si comportano esattamente come ci aspettiamo che si debbano comportare. Damiano, Niccolò, Fabio: ognuno di questi ragazzi incarna un cliché, dal povero ma affascinante allo stronzetto redento fino al gay sensibile amico delle donne. Baby si accomoda sul letto comodo e rilassante del luogo comune, si mantiene sulla superficie di una trama potenzialmente interessante e quasi addirittura inedita. Sembra però preferisca lasciare che la prevedibilità faccia il suo corso, nonostante l’aspetto e l’ambiente che ha creato siano potenziale teatro di una rappresentazione tutt’altro che scontata. Baby appare così come un Tre Metri Sopra il Cielo che incontra l’atmosfera rarefatta e seducente di un film sulle adolescenti problematiche, un Ragazze Interrotte che viene girato a Cinecittà. E invece di preoccuparci di quali potenziali messaggi negativi possa lanciare una serie simile, che invece si distanzia a ben vedere da questo rischio rappresentando molto più i lati negativi dell’esperienza al limite delle due protagoniste che quelli positivi, dovremmo chiederci perché sembra ancora impossibile slegarsi da certi cliché narrativi e fare muovere i protagonisti di un teen drama nel mare aperto dell’originalità. Forse è colpa degli adolescenti che sono molto più noiosi e scontati di quanto si possa sperare, o forse è colpa di chi non è più adolescente e crede che questa categoria umana sia una sceneggiatura già scritta negli anni Novanta da riformulare per l’occorrenza.