Erano già passati dieci anni dalla sua uscita quando ho visto per la prima volta L’attimo fuggente e venti quando con i miei amici ne citavo a memoria le battute e discutevo di quale fosse la scena più incisiva. L’attimo fuggente, per la mia generazione (e, credo, non solo), era attuale allora e continua a esserlo, in quanto legato indissolubilmente a quel periodo senza tempo che è l’adolescenza. Penso valga lo stesso per chi ha 17 anni oggi, perché questo è ciò che fa un classico: parlare con la propria voce in una lingua che sembra sempre attuale.
Il film del regista australiano Peter Weir – già autore di Picnic ad Hanging Rock e che nel 1998 regalerà The Tuman Show – esce negli Stati Uniti il 2 giugno del 1989 con il titolo di Dead Poets Society, e in Italia il 29 settembre come L’attimo fuggente, in tempo per l’inizio di un nuovo anno scolastico. La trama è, all’apparenza, abbastanza semplice: si tratta dell’ennesima storia ambientata in un college, incentrata su un gruppo di amici alle prese con gioie e dolori dell’adolescenza e condita da un tono da mélo che lascia presagire risvolti drammatici. Il successo, però, sia di pubblico sia di critica, è sorprendente: al quinto posto per incassi mondiali nell’anno di uscita, ottiene quattro candidature agli Oscar e ne vince uno, oltre a un Bafta nel Regno Unito, un premio César in Francia e un David di Donatello in Italia, sempre come miglior film straniero. Non manca qualche critica negativa, naturalmente, come il giudizio che emerge dalla recensione di Vincent Canby sul New York Times, secondo il quale il film avrebbe “annoiato e confuso gli spettatori più giovani”. E, ancora, la celeberrima recensione di Roger Ebert, che sul Chicago Sun-Times scrive: “Ero così commosso che volevo vomitare”. Eppure la sua presa sui giovani di ogni decennio è innegabile.
Ambientato nel 1959 nel collegio maschile d’élite Welton, in Vermont, New England – lo stesso setting del romanzo di Donna Tartt Dio di illusioni (1992), anch’esso incentrato su un gruppo di studenti privilegiati, e lo stesso Nord Est degli Stati Uniti, negli istituti alto-borghesi de Il giovane Holden (1951) – narra lo stravolgimento della routine scolastica di un gruppo di diciassettenni dopo l’arrivo di John Keating, un docente di poesia inglese ed ex studente della scuola decisamente anticonformista. Grazie a lui, i quattro protagonisti, Neil, Todd, Knox e Charlie, scopriranno la poesia, la chiave per schiudere se stessi e l’età adulta. C’è chi lo fa attraverso la passione per il palcoscenico, chi per una ragazza che trova finalmente il coraggio di avvicinare. I limiti senz’altro ci sono: il film è focalizzato senza eccezione su un gruppetto di maschi bianchi privilegiati e il professor Keating, dipinto come un insegnante eccezionale, procede per citazioni a effetto e non sembra insegnare nulla di critica della letteratura. Non un metodo molto efficace, soprattutto per dei giovani idealisti e facilmente impressionabili come gli studenti di liceo, che colgono fin troppo bene l’insegnamento del carpe diem, affidando tutto all’impulso del momento e dimenticando la necessità dell’impegno.
Eppure la regia tiene a bada il rischio dello scontato, la fotografia maestosa immortala i paesaggi del New England accesi dai colori autunnali. La sceneggiatura originale che si aggiudicherà l’Oscar è di Tom Schulman, autore nello stesso anno di quella di Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, un altro cult dei primi anni Novanta. Il regista, qui, chiese a Schulman pochissime modifiche alla sceneggiatura, una delle quali allontana la tentazione della lacrima facile: i due concordarono di eliminare ogni accenno alla malattia del professor Keating, che nelle intenzioni dello sceneggiatore avrebbe dovuto morire nel finale. Peter Weir trovò che il messaggio sarebbe stato più potente così: il gesto di omaggio di Todd, e dei compagni che lo imitano, alla fine del film è quello di chi si alza in piedi (sul banco) per ciò in cui crede e non il saluto commosso a un uomo che sta per morire.
L’attimo fuggente lancia la carriera di Ethan Hawke, qui nei panni di Todd, e consacra il periodo d’oro di Robin Williams. Il professor Keating è centrale, pur non essendo il vero protagonista: al centro del film ci sono i ragazzi e l’influenza che il professore ha su di loro, come richiamato dal titolo originale, “La setta dei poeti estinti”, la società segreta fondata da Keating studente e ricostituita dai suoi allievi. La narrazione si svolge nell’ambiente protetto del collegio, in cui la vita in comune potenzia l’effetto delle parole di Keating-Williams sui ragazzi che, abituati a farsi scivolare addosso le lezioni con il solo obiettivo del prestigioso diploma, le assorbono inizialmente turbati, poi entusiasti. Lo sceneggiatore Schulman modellò il personaggio di John Keating sul professor Samuel F. Pickering, il suo insegnante di letteratura inglese alla Montgomery Bell Academy di Nashville, e poi docente universitario di fama. A sua volta Williams attinse, per la sua interpretazione, ad alcuni insegnanti incontrati sulla propria strada, e principalmente a John C. Campbell, il suo professore di storia alla Country Day School di Detroit, licenziato nel 1991 per “non aver dimostrato la volontà di aderire agli standard accademici e professionali”, secondo le parole del preside della scuola.
Lo scrittore e docente francese Daniel Pennac, in Diario di scuola (2008), annota che i professori reagirono scettici all’uscita del film, che invece piacque moltissimo ai ragazzi: “Tutti e tutte si identificavano con quei giovani americani della fine degli anni Cinquanta che, dal punto di vista sociale e culturale, erano simili a loro quanto possono esserlo i marziani. Tutti e tutte adoravano l’attore Robin Williams […]. Il suo professor Keating incarnava ai loro occhi il calore umano e l’amore per il suo lavoro […]. Ai loro occhi le lezioni di Keating erano un rito di passaggio che riguardava loro ed esclusivamente loro”. Il rito è l’improvvisa consapevolezza di sé, che si traduce nell’urgenza di sapere, e ancor più di fare: “Carpe diem” è un verso che ha facile presa sui giovani, su chi si trova in quell’età in cui “la giovinezza e il sangue sono più caldi”, come recita To the Virgins, to Make Much of Time, la poesia di Robert Herrick nella parte iniziale del film. Il professor Keating inizia da lì il suo insegnamento: cogliere l’attimo. Quel che, da Orazio in poi, i poeti ci hanno sempre incitato a fare.
Ecco perché il film ha tanta presa sui ragazzi: parla dell’esaltazione di ogni adolescente che, uscito dal bozzolo dell’infanzia, si sente autorizzato dalla figura autorevole di un insegnante a sperimentare il potere liberatorio della trasgressione. Uscire dai ranghi e farlo non in solitudine – come avviene in un altro cult adolescenziale, Into the Wild di Sean Penn (2007), che cita autori e poeti centrali anche ne L’attimo fuggente – ma sentendosi parte di un gruppo, uno dei bisogni primari dell’essere umano giovane. Il rifiuto dell’omologazione qui non è mai violento e alla fine tutto rientra nei ranghi, con il brusco risveglio del triste epilogo e l’allontanamento di Keating. Dopo un’adolescenza turbolenta la vita adulta ha il sopravvento e ci riporta in carreggiata, ma non per questo quello sconvolgimento ha avuto meno importanza.