
A Catania la festa di Sant’Agata è l’evento più importante dell’anno. Più attesa del Natale, di Pasqua, di qualsiasi festività condivisa con il resto del Paese, Sant’Agata è, per la città, un vero e proprio delirio di passione e urla. La Santuzza, così chiamata dai fedeli, gira per le strade della città durante i tre giorni di processione, trainata da migliaia di devoti che indossano il cosiddetto sacco bianco, mentre sulle spalle portano ceri che arrivano a pesare fino a cento chili. Il cero rappresenta la grazia chiesta a questa donna vissuta nel terzo Secolo Dopo Cristo, vittima del possesso scellerato di un uomo, Quinziano, che la vuole in sposa a tutti i costi. Agata è una ragazza di quindici anni, bionda, con occhi che “sembrano due stelle” e una bocca che “sembra una rosa”, così dicono i devoti mentre sfilano per ore interminabili trainandola con lentezza, e la sua unica colpa è la fede a cui non ha intenzione di rinunciare, nemmeno di fronte alla morte. Per il suo rifiuto a Quinziano viene così imprigionata e torturata, finché il martirio non arriva al punto che le vengono strappati i seni, un’immagine che fa da simbolo alla città.
Agata è, in sostanza, una donna che non vuole piegarsi al volere di un uomo. Sembra strano che sia una festa cristiana a raccontare la storia di una donna ribelle, testarda, insolente e ostinata, l’opposto di come siamo abituati a immaginare la femminilità in ambito religioso, spesso relegata a ruolo di contorno rispetto alla narrazione centrale. E non è un caso che questa storia sia un sottofondo costante nel racconto di Modesta, la protagonista della serie Sky L’arte della gioia: anche lei, come Agata, è una donna fuori posto, come lo era del resto la scrittrice del romanzo da cui è tratta l’opera di Valeria Golino – regista del tutto all’altezza della complessità del libro – Goliarda Sapienza.
L’arte della gioia, sia come romanzo che nella sua trasposizione seriale, è uno di quei racconti che si intersecano in modo imprescindibile con il luogo da cui provengono e dentro cui sono ambientati. L’Etna dove nasce Modesta, contadina e disgraziata, il convento dove cresce, la villa nella piana catanese dove si sposta e infine la città, tutti posti su cui aleggia la figura mistica di Sant’Agata, protettrice non solo di Catania, che ha salvato dall’eruzione col suo velo – così vuole il miracolo – ma dello spirito incandescente della protagonista.
Del resto, basta ascoltare qualche intervista a Goliarda Sapienza per rendersi conto di quanto la sua visione del mondo, da una prospettiva rivendicata in quanto femminile ma mai passiva, “debole”, come si era soliti dire, fosse originale e provocatoria. Colta, rivoluzionaria, selvaggia, sfacciata, Sapienza trascorse anche un periodo in galera per via di un furto di gioielli a un’amica molto più ricca, gesto che ha rivendicato con ironia e cinismo, tutte caratteristiche che vediamo spiccare anche nel suo personaggio di Modesta, voce narrante di un romanzo che fu un problema anche solo nelle vicende che riguardano la sua pubblicazione – è solo nel 2008, infatti, che Einaudi lo pubblica, trentadue anni dopo la fine della sua stesura. Un testo che editori e dirigenti Rai si sono rimbalzati nel tempo come una patata bollente, immagine che racchiude molto bene la materia di cui è fatto, essendo un’opera a tratti così libera da poter risultare scabrosa, soprattutto per quanto riguarda il modo in cui è trattata la vita sessuale di una ragazza che si prende tutto quello che vuole, compreso il piacere.
Il piacere, infatti, è il vero protagonista de L’arte della gioia, che nel racconto di Valeria Golino prende diverse forme, tutte molto ben riuscite, grazie alla messa in scena supportata da un cast azzeccato e convincente. Prima di tutto, Tecla Insolia, che interpreta la protagonista: al contrario di altre serie recenti in cui la cadenza siciliana sembra una parodia di un film di Coppola – ogni riferimento al Gattopardo su Netflix è del tutto casuale –, l’attrice e cantante nel ruolo di Modesta non solo è credibile nel modo in cui dà voce al suo personaggio, letteralmente, ma è anche in perfetta sintonia con lo spirito contraddittorio della donna che interpreta. Delicata nei tratti e ammaliante nei modi, Modesta, che nasce e cresce nella cosiddetta sciara, la campagna etnea fatta di sabbia nera, ipnotizza lo spettatore per la disinvoltura con cui riesce a essere determinata nella sua missione. Una missione che, senza vittimismo o romanticismo stucchevole da rivincita edulcorata, consiste nell’emancipazione a tutti i costi dalla sua provenienza di totale svantaggio, un superamento che si articola anche nella rielaborazione della sua infanzia violenta e solcata dai traumi, ma da cui eredita, senza mai respingerla, un’innata voglia di piacere, fisico e mentale. Modesta, al contrario di quanto esprime il suo nome, ambisce alla grandezza del godimento, e non ha alcuna intenzione di trovare un compromesso tra la sua origine e lo schema sociale del mondo in cui si muove, quello antico e feudatario della Sicilia di inizio Novecento, o quello piegato dalle epidemie, dalla guerra e dalle imposizioni, metafisiche e fisiche, che il genere femminile ha subito fino a poco tempo fa.
Dall’altra parte rispetto a Modesta c’è la principessa Gaia Brandiforti. Anche Valeria Bruni Tedeschi, così come Tecla Insolia, restituisce agli spettatori una rappresentazione del suo personaggio letterario, ora reso carne e ossa per lo schermo, a dir poco puntuale: snervante, eccentrica, buffa, dispotica, raffinata. L’ostacolo alla felicità della protagonista, che dovrebbe tradursi con un superamento del passato, compreso quello nel convento dove è stata accolta da piccola orfana e dove Modesta ha portato solo caos con la sua personalità spesso bestiale, è la rigidità dell’ancien régime personificato nella principessa Brandiforti. Presente e futuro, per la principessa, non esistono, e nemmeno quando la guerra è finita, concludendo così un capitolo della storia, permette ai suoi contadini e alla sua servitù di tornare a vivere una vita normale, fuori dai confini della contrada, tenendoli con la forza dentro a una bolla in cui il tempo ha il ritmo che decide lei, proprio come vorrebbero i reazionari. Questa forza oppositiva che spinge contro l’incedere irrefrenabile della storia è la metafora perfetta di come l’evoluzione del Novecento si sia scontrata con il passatismo della Sicilia, saldamente ancorata a sistemi antichi in cui l’accentramento di potere è dato per insuperabile, così come la subordinazione delle classi inferiori. In questo senso, lo scontro tra Modesta, che pur non essendo nobile prende un titolo nobiliare, che pur essendo donna non frena nessuno dei suoi istinti passionali non solo verso uomini più grandi di lei ma anche verso donne, e tra la principessa Gaia, custode della tradizione, è un vero e proprio scontro epocale, dove a vincere, per mano della protagonista, è la rottura delle convenzioni imposte. E il fatto che tutto ciò avvenga proprio attraverso delle figure femminili, ingabbiate in abiti scomodi e imposizioni limitanti, quando il racconto della storia e dei suoi cambiamenti ci viene fatto da secoli attraverso lo sguardo maschile, rende L’arte della gioia così peculiare nella sua narrazione laterale ma al contempo molto centrata.
Al di là del racconto e dell’interpretazione dei suoi attori – vale la pena menzionare anche Alma Noce, Jasmine Trinca e Guido Caprino –, la serie L’arte della gioia riesce a condensare nella messa in scena anche un’estetica elegante e misteriosa, non solo nel modo in cui ricostruisce un’ambientazione di un’altra epoca senza fare alcun effetto kitsch e forzato, ma anche nella rappresentazione della nudità. Il sesso, proibito in convento, nascosto tra le pareti della villa Brandiforti, imboscato nelle catapecchie dei contadini, è un elemento di racconto che, al contrario di come succede spesso quando si maneggia la materia, in particolar modo se include promiscuità che rischia di finire per cadere con facilità in una volgarità pruriginosa, riesce a esprimere la forza della carnalità istintiva della protagonista; anche in questo caso, la sua piena volontà. Modesta è seduttiva, impulsiva e al contempo razionale, e queste caratteristiche rimangono sempre a fuoco senza mai scadere in quella morbosità indelicata che fa del sesso, soprattutto quello tra donne, una pura esibizione per chi guarda.
In questo senso, L’arte della gioia si colloca senza dubbio in una categoria quasi del tutto inedita nella serialità italiana, ossia quella che mette insieme la bellezza di un prodotto girato e pensato con grande attenzione ma anche comprensibile, affascinante e scorrevole. Modesta, come Agata, è la protagonista di un tempo che ha richiesto alle donne di mettere da parte il loro desiderio per soddisfare quello altrui, provocando scalpore e violenza. Agata è diventata una giovanissima martire che pur di non abbandonare il suo credo ha preferito morire, Modesta, invece, ha scavalcato ogni limite, anche quelli morali, diventando così ambigua e complessa, per arrivare a poter guardare il mare, quell’universo infinito che si pone di fronte e che può raggiungere, come dice lei stessa, studiando, vivendo e liberandosi degli ostacoli tra lei e il suo futuro. Che siano questi una principessa che fa da metafora del passato ormai sul punto di finire o il fatto di essere nata povera e sporca, tra i cespugli e le piante aspre dell’Etna, come una capra selvaggia.
