Quando si cerca di decifrare la cultura di un popolo ci si può infilare nelle biblioteche e negli archivi, si può varcare la soglia dei cinema o dei teatri, si può passeggiare per le città guardando alle piazze e alle statue. Ci sarà però sempre qualcosa che sfugge. Il residuo è la cultura spicciola e comune che pulsa nelle strade e ai tavolini del bar. È l’insieme di pratiche e pensieri che si esprimono nell’intimità delle case dove nascono e si coltivano i rapporti umani. Quando ci si propone di raccontare un Paese può quindi essere utile farlo partendo dalle retrovie, dove non si troverà nulla di solenne, spesso nulla di lodevole o tantomeno decorso, ma ci si imbatterà invece in lingue e modi di vivere e pensare che racchiudono in sé un’altra verità. È proprio nelle vie sgarrupate di una Palermo dimenticata dallo Stato, nell’appartamento stravagante di una coppia di omosessuali o nei locali frequentati dai giovani punk che alla fine degli anni Settanta Luigi Comencini va a cercare l’Italia e gli italiani. E li trova, li interpella e li registra chiedendo loro che cos’è l’amore, come amano e sono amati. Un lavoro simile a quello che portò a termine Pier Paolo Pasolini in Comizi d’amore, ma in un’Italia diversa, dieci anni dopo, e con un ritmo meno frenetico, più lento e aperto. L’inchiesta commissionata al regista dalla Rai verrà intitolata L’amore in Italia e uscirà in sei puntate per la televisione. Comencini non era nuovo al genere. Pochi anni prima aveva realizzato un’inchiesta dal titolo I bambini e noi, di cui dirà: “Non mi sono mai messo nella condizione di colui che vuole ‘illustrare’ le sue idee, ma ho cercato di farmi un’idea attraverso l’esame della realtà”.
In un panorama televisivo e cinematografico che all’epoca aveva Roma come centro, Comencini decide di incamminarsi per la penisola scandagliandola dal più remoto paese agricolo del meridione alle grandi città industriali del Nord, entrando sia nelle case di ricchi che dei poveri, giovani e anziani, per raccontare la complessità di un sentimento che non si esaurisce fra le mura domestiche ma si estende oltre, influenzando la politica e la vita civile, l’economia e la storia, venendone al tempo stesso influenzato. Questa inclinazione a guardare le cose dal basso, a curarsi del particolare prima di ambire all’universale ha a che fare con la capacità di Comencini di porsi in ascolto. Le interviste che compongono l’inchiesta, infatti, si prendono il tempo necessario a dipingere un contesto, riprendendo gli intervistati mentre svolgono le loro attività quotidiane. L’accesso di Comencini alla sfera privata delle persone che gli aprono la porta di casa non è mai intrusione, manca di morbosità. L’indagine sui modi di amare degli italiani che hanno da poco votato per l’approvazione della legge sul divorzio e si apprestano a votare per quella sull’aborto è condotta con discrezione. Il regista incalza ma non aggredisce. Non condanna i suoi interlocutori e neppure li assolve, li ascolta. A volte li rimprovera velatamente, li provoca o li asseconda. Più di tutto: restituisce.
Così, le persone si aprono senza troppe remore o timori. Parlano di sesso, di traumi, di grandi gioie e rovinose sofferenze. La verità che emerge dalle interviste condotte dal regista, insieme a Fabio Pellarin e Italo Moscati, è che l’amore ha sempre avuto mille forme. Con buona pace dei tentativi di semplificazione che vorrebbero l’amore, specie quello del Novecento, come un sentimento ben contenuto dalla famiglia tradizionale e dalla coppia eterosessuale, gli italiani intervistati raccontando una realtà molto più complessa, stratificata e sfumata. Pesa ancora il rigido moralismo di stampo cattolico, ci si inabissa sempre nel concetto di onore maschile o in quello altrettanto stantio che relega la donna alla casa in cui è tenuta a spendersi e a sacrificarsi, ma tutto ciò si scontra in modo imprevedibile con i nuovi e meno nuovi femminismi, la disgregazione della famiglia nucleare, la fluidità di genere, la libertà sessuale e le comuni in cui si pratica, i divorzi, gli adulteri, i rancori personali e le tante altre complicazioni della vita. L’amore non fila quasi mai liscio, si inalbera e si ingarbuglia nei dettami religiosi e sociali, nelle imposizioni del piccolo giardino sociale che si frequenta.
Una donna palermitana semianalfabeta ripresa mentre svolge le sue mansioni di orlatrice racconta a Comencini di essersi sposata a sedici anni dopo la “fuitina”, pratica a cui ricorrevano le coppie del meridione che per motivi di censo o di status non potevano sposarsi. Ha avuto undici figli, due dei quali morti prematuramente. Conta però anche quattordici aborti, nascosti al marito che si sarebbe opposto perché, spiega lui in seguito, “l’uomo siciliano ha bisogno di molti eredi”. La donna dice anche ridendo, in un italiano stentato, che se potesse tornare indietro prenderebbe “non una ma dieci pillole al giorno”. Comencini intervista anche la figlia dell’anziana coppia e colpisce vedere come la storia si replichi allo stesso modo, dando allo spettatore la strana e a tratti inquietante impressione di non avere davanti una figlia dei tempi nuovi, ma la stessa anziana signora da giovane, in un eterno ritorno, un tempo che non scorre sugli stessi binari a cui siamo soliti pensare quando parliamo di progresso sociale e culturale. Anche la figlia si è sposata a diciassette anni, anche lei fuggendo per affermare il suo amore. Anche lei fa l’orlatrice – lavora “dentro”, tiene a sottolineare, intendendo che per guadagnare qualche soldo non deve uscire di casa infuocando le gelosie del marito possessivo – e anche lei vorrebbe smettere di fare figli. Il marito difende a spada tratta il delitto d’onore e non ha remore nell’ammettere che un gran numero di figli è uno strumento di controllo dell’uomo sulla donna, che sarà così costretta a spendere la vita fra le mura di casa. Di queste interviste colpisce la lucidità con cui le due donne, seppure semianalfabete, riconoscono la loro condizione di vittime in un sistema oppressivo. “Le femministe hanno ragione,” dice la figlia, “per l’aborto voterei a favore”.
L’esasperazione delle donne italiane, dal più basso al più alto grado di istruzione o estrazione socio-economica è uno degli elementi più trasversali dell’inchiesta. Se una donna salernitana emigrata a Milano e sposatasi in fretta con un uomo che non stima né ama “per fare contenta la mamma” confesserà a Comencini di essere stufa di essere donna (“tornando indietro farei la puttana, piuttosto”), un’altra dirà invece che il suo corpo, dopo cinque figli avuti perché il marito si opponeva alla contraccezione, è diventato un corridoio da cui passavano il marito, i bambini, i medici. Un corpo che non solo non era più suo, ma che assomigliava a quel luogo della casa a cui nessuno presta attenzione perché semplice luogo di passaggio, funzionale e senza una propria dignità. E quando Comencini le chiede perché abbia accettato di raccontare la sua storia lei non esita a dire che se i panni sporchi si lavassero alla luce del sole sarebbero molte meno quelle che affacciandosi su un destino ormai compiuto vedrebbero i segni di una disfatta. D’altronde, “noi italiani non siamo maturi”, viene detto al regista da un uomo che vive in una comune dove si pratica l’amore libero. “Abbiamo subito un’educazione cattolica che è un fardello che abbiamo sulle spalle e di cui non riusciamo a liberarci. Siamo educati troppo rigidamente alla coppia, a donarci completamente a una persona e a pretendere che quella persona si doni completamente a noi”.
Sono gli anni che seguono le rivendicazioni del 1968 e che precedono l’edonismo disimpegnato degli anni Ottanta. Una coppia di giovani intellettuali di sinistra racconterà delle difficoltà di vivere l’amore in maniera armonica, conciliando la libertà e l’autoaffermazione di ognuno senza che questo comporti sacrifici e rinunce. Lui però si dice fortemente vessato dal femminismo di lei: “Mi sono sentito sbattuto a terra con violenza, ho perso le mie sicurezze”. Di uomini insicuri e donne dallo sguardo triste ma risoluto L’amore in Italia è pieno. Una delle interviste più interessanti vede una giovane dallo sguardo sveglio, severo e dolce allo stesso tempo, a confronto con l’ultimo uomo che ha amato e con cui ora coltiva una sana amicizia che, se ancora contiene una qualche forma d’affetto, si è liberata dal senso di oppressione che entrambi provavano nel loro rapporto di coppia che non riusciva a trovare un equilibrio. “Io mi ricordo la frase che tu mi hai detto: ‘la mia autonomia e la mia casa non hanno senso se non sono riempite da qualcuno’ dice lei rivolgendosi all’ex fidanzato. “È così, i ragazzi hanno molta difficoltà a vivere fuori casa da soli, sono abituati ad avere una madre o l’altra parte della coppia. Magari lavano i piatti ma non puliscono mai la cucina. Io soffro molto del fatto che certi uomini, se io sono come sono, si sentono come castrati”.
In questa immagine c’è l’istantanea di un tempo contraddittorio, di relazioni tese verso la libertà e la parità ma ancora incagliate in una tradizione che ha via via perso i suoi riferimenti e non sa più come imporsi sulla società. “Dieci anni dopo il 1968 è giusto che ognuno viva come creda”, racconta un uomo a Comencini mentre il suo compagno è seduto accanto a lui. “Non vedo perché stabilire degli schemi o crearsi il problema se vivere con una donna o vivere con un uomo. Ho provato a vivere con una donna nel modo eterosessuale, nel modo che va bene a tutti e non mi è andata bene personalmente, non era nel mio equilibrio. Per caso ho trovato Paolo e ho provato a piangere sulle sue spalle e ho trovato aiuto”.
L’indagine di Luigi Comencini è un mosaico inorganico di piccole storie che oggi risultano preziose perché rendono evidente che qualsiasi tentativo di ingabbiare l’amore in compartimenti stagni apparirà come un’operazione necessariamente violenta e inconcludente. Ogni forma d’amore porta con sé i vizi e le virtù del contesto culturale dal quale proviene e la cultura che oggi dovremmo preoccuparci di fare dovrebbe tenere a mente la grande lezione di Luigi Comencini, che seppe entrare nelle case degli italiani raccontando le storie che aveva raccolto nelle case stesse, lasciando che la realtà parlasse per sé.