In “L’arbre de l’authenticité” un albero secolare interroga il passato per decifrare il presente - THE VISION
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Nei villaggi africani c’è un elemento che da quando l’ho scoperto mi ha sempre affascinata, l’arbre à palabres, l’albero delle parole. L’albero è un luogo tradizionale di ritrovo del villaggio, o meglio, l’ombra che produce la sua chioma. Lì ci si esprime riguardo a questioni sociali, alle criticità del villaggio, alla politica. Ma è anche il luogo in cui i bambini si ritrovano ad ascoltare le storie degli anziani. Di solito questo albero è un baobab, non sempre. Ma per estensione questa parola oggi designa tutti quei luoghi sociali in cui ci si trova per discutere. È questa la primissima immagine che mi ha fatto venire in mente L’arbre de l’authenticité, esordio al lungometraggio del fotografo e artista multidisciplinare congolese Sammy Baloji, Premio speciale della Giuria al Festival Internazionale di Rotterdam nel 2025 che verrà proiettato a Milano al Cinema Godard di Fondazione Prada il 14 novembre – all’interno della rassegna #Studio, la sezione dedicata alla contaminazione tra cinema e arti visive – e a cui seguirà un incontro tra il regista e Alessandra Speciale.

Nella più grande foresta pluviale africana, seconda solo all’Amazzonia, sulle rive del fiume Congo, a Yangambi un tempo sorgeva la stazione di ricerca agronomica INERA, polo scientifico belga tra i più avanzati dell’epoca coloniale. Oggi questa stazione è un luogo in rovina, inghiottito dalla giungla. Diviso in tre capitoli, il film combina testimonianze dirette e materiali scientifici per indagare l’eredità del colonialismo e l’origine della crisi ecologica nella Repubblica Democratica del Congo. Attraverso le storie di due scienziati attivi nel centro di ricerca tra il 1910 e il 1950, Paul Panda Farnana, ingegnere agronomo e primo funzionario nero congolese al servizio dell’amministrazione belga, inviato sul posto all’inizio del XX secolo per l’estrazione industriale del lattice; e Abiron Beirnaert, ingegnere agronomo fiammingo responsabile della produzione di olio di palma durante la Seconda guerra mondiale; e la voce di un albero secolare, narratore simbolico della storia umana, Baloji costruisce un racconto immersivo e poetico che interroga il passato per decifrare il presente.

Accade in questo film quella sorta di incantesimo per cui il dato si fa narrazione. Ciò che nasce come raccolta di parametri misurabili e scientifici – numeri, grafici, variazioni di percentuali – si trasforma in qualcosa di vivo. Nel tempo, questi frammenti di realtà, al pari di aforismi sintetici che vengono commentati e dunque dipanati, ritrovano forma e consistenza. Diventano racconto, memoria, emozione, esperienza rievocata condivisa, traccia. È come se la somma dei dati restituisse non solo un quadro oggettivo, ma anche la vibrazione soggettiva di chi quei numeri li ha osservati, interpretati, abitati. Così, ciò che era informazione si apre al sentire umano, restituendo al dato la sua dimensione più profonda, quella del significato.

“La vicenda di Yangambi non riguarda solo il Congo. È la storia dell’economia globale e delle sue conseguenze sulle persone e sull’ambiente. La posizione geografica di Yangambi, insieme al suo archivio di dati raccolti mediante l’osservazione climatologica della foresta equatoriale, diventa uno spazio attraverso cui interrogo in modo metaforico le conseguenze delle azioni umane e il nostro rapporto con la natura,” ha dichiarato il regista Baloji. Queste parole restituiscono l’anima più profonda del film che ha realizzato: la consapevolezza che ogni luogo, anche il più remoto, è oggi attraversato dalle forze dell’economia planetaria e dalle loro ricadute ambientali e umane. Yangambi diventa così un punto di osservazione privilegiato, un microcosmo che riflette le tensioni del mondo contemporaneo. Il regista sceglie di collocare la narrazione in uno spazio dove la memoria scientifica – quell’archivio di dati climatologici che registra variazioni e mutamenti – si intreccia con la memoria collettiva e simbolica di una comunità, radicata in un luogo che ha subito a lungo l’impronta colonialista. In questo modo, l’osservazione della foresta equatoriale non è solo un atto di studio, ma un gesto poetico e politico, attitudine che caratterizza tutta la ricerca di Baloji: un modo per interrogare la nostra responsabilità di specie, per misurare la distanza tra l’essere umano e l’ambiente che abita, e per ricordare che queste cifre, questi dati, racchiudono in sé una storia di perdita, adattamento e sopravvivenza.

Le opere di Baloji – che vive e lavora tra Lubumbashi e Bruxelles – sono state esposte in alcuni dei principali contesti internazionali – dalla Biennale di Venezia a Documenta 14, fino alla Tate Modern di Londra e allo Smithsonian National Museum of African Art di Washington – ma ciò che più colpisce del suo lavoro non è tanto la sua diffusione quanto la sua coerenza: la capacità di tenere insieme memoria e politica, poesia e denuncia, rendendo visibile il legame profondo tra le ferite della storia e quelle del paesaggio. Dal 2005 il suo lavoro si concentra non a caso sulla memoria storica e collettiva della Repubblica Democratica del Congo, e in particolare sul patrimonio culturale, architettonico e industriale della regione del Katanga. Le sue opere – che spaziano tra fotografia, video e installazione – interrogano le tracce lasciate dalla colonizzazione belga e il modo in cui le strutture di potere e gli immaginari del passato continuano a modellare il presente e l’attualità. In questo senso, L’arbre de l’authenticité rappresenta una naturale estensione del suo percorso artistico: anche qui infatti il linguaggio visivo viene usato per trasformare l’archivio in racconto, i dati in emozione, il documento in esperienza sensibile e condivisibile, grazie all’arte, al cinema. Ciò che emerge nel film è la continuità tra la pratica artistica e la volontà di costruire un linguaggio critico capace di attraversare il tempo e la materia. L’archivio di Yangambi diventa per Baloji un luogo di passaggio, un punto d’incontro tra la memoria scientifica e quella collettiva: uno spazio in cui i numeri e le misurazioni del passato si intrecciano con la voce sommessa del presente. Il suo sguardo non si limita a documentare, ma a ricomporre: come se l’immagine potesse restituire al dato la sua dimensione umana, ridando corpo e sensibilità a ciò che l’oggettività tende a cancellare.

La storia di Yangambi non è un caso isolato, ma riflette una dinamica più ampia che ha attraversato gran parte dell’Africa: lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali a vantaggio di interessi esterni, spesso a discapito delle comunità locali e dell’equilibrio ambientale. In Congo, terre ricche di minerali, foreste pluviali e biodiversità sono state sistematicamente depredate, prima durante il periodo coloniale e poi nei decenni successivi, con conseguenze devastanti per il suolo, le acque e gli ecosistemi. L’essere umano ha trasformato queste risorse in merci, trascurando il fragile equilibrio naturale e sociale: foreste abbattute, fiumi inquinati, terre impoverite. È un processo di predazione che mostra quanto l’economia globale possa sovrapporsi alla vita dei luoghi e delle persone, riducendo paesaggi millenari a semplici mezzi di produzione, e trasformando l’ambiente stesso in un testimone silenzioso delle scelte e delle violenze del passato e del presente. Le rovine del centro di ricerca di Yangambi si mescolano al paesaggio che doveva essere il suo oggetto di studio, e diventano il simulacro stesso della crisi climatica. E questi resti rivelano il peso del passato coloniale e i legami inestricabili che lo uniscono ai cambiamenti climatici che segnano il presente, così come all’attuale sfruttamento delle risorse naturali.

Alla fine la voce del maestoso albero tricentenario divenuto simbolo nazionale si fa sentire, è un linguaggio fatto di vibrazioni e ritmi, scricchiolii, è la voce della foresta, che sembra silenzio eppure significa. Per la scienza è un Pachyelasma Tessmannii, ma chi vive nella foresta lo chiama Lileko. La Pachyelasma è un genere di piante da fiore appartenente alla sottofamiglia delle leguminose Caesalpinioideae. Contiene una sola specie, Pachyelasma tessmannii, originaria dell’Africa centrale. Un albero sempreverde che può raggiungere i 60 m di altezza, con un tronco dritto e cilindrico del diametro fino a 2,5 m. I fiori sono di colore rosso, mentre i frutti sono baccelli neri a quattro spigoli che possono arrivare fino a 37 cm di lunghezza. Questo albero si trova nelle regioni tropicali umide di Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Gabon e Nigeria. Il frutto viene talvolta utilizzato dai pescatori in zone remote del Camerun e della Repubblica Democratica del Congo per la pesca con veleni. Alcuni coltivatori di cacao in Camerun mescolano la corteccia con altri materiali vegetali ed estratti per creare un pesticida naturale.

Ma questo albero è molto più di un albero. È un testimone. Forse l’unico. Ha visto l’umanità lottare per la supremazia, costruire gerarchie basate sul potere, sulla razza, sulla discriminazione, sulla violenza. Ha visto scienziati andare e venire, guidati da ambizione, rabbia, frustrazione, desiderio di migliorare e desiderio di controllo, ma con ben poco tempo per ascoltare davvero gli alberi. Il re del Belgio si fermò ai suoi piedi, e così l’albero fu conosciuto come l’albero del re. Poi diventò il simbolo della nuova nazione, dopo l’indipendenza, e così fu battezzato l’albero dell’autenticità. Per gli operai che lavoravano nell’industria del legno e manifestavano per i propri diritti divenne l’albero della resistenza ancestrale. Gli esseri umani lo hanno sempre usato per glorificare un passato mitico, e mai esistito. Si vantano perché il suo è il secondo tronco più grande in tutta l’Africa, come se avesse una qualche importanza. È simbolo di virilità. Gli uomini chiamano così i loro figli maschi. La sua corteccia fa abortire le donne e uccide i pesci. Le persone abbattono la foresta che lo circonda per usarla come carburante per il futuro, la modernità, lo sviluppo. Altre vengono a prendere i suoi semi per costruire nuove foreste in cattività, monitorate, e ridurre le emissioni. Mentre questa, vera, viene distrutta. Ma il fato degli esseri umani non riguarda gli alberi.

Malgrado tutto, la foresta continua a respirare, continua a esistere finché può ben oltre le prevaricazioni dell’essere umano. La sua chioma si muove con il vento, i rami scricchiolano come parole sospese, e la luce che filtra tra le foglie racconta storie che nessun grafico o archivio potrà mai contenere davvero. In questa voce antica, che non giudica ma semplicemente osserva, c’è la misura del tempo, la persistenza della vita e la resilienza del mondo organico. E forse è proprio qui, tra radici, corteccia, linfa e foglie, che possiamo capire qualcosa di noi stessi: che la storia non è solo ciò che abbiamo scritto, ma anche ciò che non ha voce, è ciò che scegliamo di ascoltare, di vedere, di tramandare. E per questo dobbiamo fare grande attenzione.

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