
Non è facile trovare qualcosa di nuovo da guardare su Netflix ora che che siamo costretti in casa ormai da settimane. Immagino che molti, come me, avranno dato fondo alla scorte di serie arretrate con cui riempire le serate tutte uguali. Nella catastrofe del presente, per fortuna, è arrivata la seconda stagione di After Life, la serie scritta e interpretata da uno dei comici più famosi e acclamati del mondo, Ricky Gervais. Non è facile nemmeno trovare qualcosa che riesca a smontare anche solo per qualche ora la narrazione che ci circonda, un racconto della realtà che in questo preciso momento storico senza precedenti recenti oscilla tra la fantascienza distopica e il romanticismo stucchevole in stile “Andrà tutto bene”. L’evasione momentanea che un libro o un film possono regalarci è preziosa, ancora di più se a sospendere questo senso di prigionia arriva una bella dose di ironia fatta bene come quella che sta alla base di After Life. In sei episodi da poco meno di mezz’ora l’uno, anche questa seconda stagione, come la prima, riesce nell’intento molto ambito – ma spesso fallito – di farci ridere e piangere allo stesso tempo, grazie all’alternanza ben dosata di immedesimazione, cinismo ed empatia, che solo una scrittura umoristica ben strutturata come quella di Gervais può garantire.
After Life è il racconto di una vita normale, di un qualsiasi abitante del Regno Unito che si ritrova inserito nella quotidianità ripetitiva di una piccola città di provincia. Non ci sono grandi eventi, non ci sono effetti speciali né creature leggendarie, non c’è nessuna storia d’amore romanzesca, né bambini che hanno esperienze paranormali: c’è solo un uomo di mezza età che si trova ad affrontare la tragedia di rimanere vedovo prematuramente e di sentire ogni giorno la mancanza della donna che ama e, di conseguenza, del senso della vita. Detta così sembra l’incipit di una serie sulla depressione dell’uomo medio, un racconto che nessuno in questo momento avrebbe voglia di ascoltare, come se non ci fossero già abbastanza motivi per disperarsi da soli. Invece After Life arriva con un tempismo perfetto a mostrarci che il senso delle cose, proprio quando sembra sfumare, in effetti non c’è; o perlomeno, non c’è in quanto tale, se non attraverso il modo in cui possiamo prenderci cura degli altri, nell’apporto infinitesimale che possiamo dare per la comunità di cui facciamo parte, come capisce il protagonista – che è Ricky Gervais stesso – dopo l’ennesimo pensiero suicida: “Vale la pena restare, magari per riuscire a rendere il mio piccolo angolo di mondo un posto leggermente migliore”.
Per certi versi, costruire una serie su un presupposto banale – la narrazione delle “piccole cose”, un tema assai inflazionato e già esplorato da molti – potrebbe essere una scommessa persa in partenza. Intrattenere un pubblico che ha a disposizione cataloghi con centinaia di titoli senza sorprendere con qualche idea geniale e rivoluzionaria è una missione che si impongono tutti gli autori di prodotti audiovisivi recenti, e il risultato non è poi così eccellente. Se fino a qualche anno fa ogni nuova serie che usciva sembrava un capolavoro incredibile, oggi abbiamo fatto il callo al genere e a stento ricordo l’ultima volta che ho provato una sensazione come quella da finale di Breaking Bad, per usare un esempio entrato nella storia della serialità.
Ricky Gervais, in questo, è però un fuoriclasse, essendo un autore – ma soprattutto un comico – che non ha bisogno di nessuna impalcatura scenografica né di idee fuori dal mondo per mettere in piedi un prodotto fatto soprattutto di scrittura e contenuti, con una resa cinematografica ridotta all’osso. Gervais, infatti, è il creatore di una delle sitcom più famose e acclamate di sempre, The Office, celebre sia per la sua versione inglese che per il remake americano, entrambe di enorme successo proprio per la loro scrittura comica di alto livello. In The Office infatti, così come succede in After Life, il set sembra quello di un’opera teatrale tanto è scarno e funzionale ai dialoghi, tutto quello che succede prende forma attraverso un testo denso e articolato che rimbalza tra i vari personaggi della serie. Un modo di concepire l’intrattenimento molto audace, soprattutto se paragonato alle serie di successo degli ultimi anni in cui si investe perlopiù sulla cornice e sulla spettacolarità, che investe sul senso della narrazione in funzione della capacità di creare qualcosa di contenutisticamente rilevante.
Ma Ricky Gervais, come già detto, è prima di tutto un comico – su Netflix sono disponibili i suoi spettacoli, per chi non li avesse mai visti – che si districa nel genere più audace di umorismo, quello della stand-up, dove non ci sono travestimenti, montaggio né espedienti esterni al palcoscenico ma solo tu, il tuo microfono e il testo che hai scritto. Una volta che diventi uno dei nomi più grandi di questo genere nel mondo, cosa che è Gervais, tradurre questa capacità di scrittura brillante e serrata in dialoghi per una serie diventa un piacere per chi guarda, specialmente se l’autore – noto per il suo cinismo spietato – si mette in gioco con un tema tanto triste e doloroso come quello del lutto.
Per rendere possibile questo connubio di dialogo serrato, battute e riflessioni complesse, Gervais ha creato un piccolo universo, quello della cittadina di After Life, in cui i personaggi sembrano dei prototipi del genere umano, come se ognuno di loro fosse un rappresentante della società di oggi, una sorta di commedia plautina con umorismo inglese in cui al posto delle maschere i protagonisti indossano un account di Twitter, dispensando modi di pensare, di fare e opinioni che si ripropongono nella nostra vita di ogni giorno. C’è la collega fissata con l’oroscopo e con i tabloid, lo psicanalista uomo alfa che fa branco con altri simili per prendersi gioco di cose come la “toxic masculinity”, la nuova arrivata giovane e speranzosa che crede ancora nel futuro, il pazzo maniaco egoriferito che dà della puttana all’ex moglie, il maschio insicuro che non vuole adeguarsi agli standard di virilità, il tossicodipendente considerato come uno scarto umano e molti altri. E poi c’è lui, Tony, il protagonista, che soffre come un cane per la perdita di sua moglie e pensa che non avendo senso la vita senza di lei tanto vale fare quello che gli pare, rispondere male, lasciarsi andare, magari suicidarsi.
Questa piccola comunità – composta anche da personaggi che appaiono come dei fantasmi dei Natali passati per dare una mano al protagonista, nonostante la sua acidità, la sua cattiveria e il suo disprezzo per la vita – è però comunque un sistema che funziona se ognuno fa la sua parte. Niente può riportare un morto in vita, non esiste una procedura da seguire per stare bene, nonostante le persone reagiscono spesso così di fronte al dolore altrui, fornendo guide di know-how, come se esistesse un manuale di sopravvivenza per l’esistenza umana. Può qualcosa dare senso alla vita, allora? Tutta After Life ruota attorno a questo interrogativo: dal momento che non credi nell’aldilà né in Dio, qual è il motivo per cui dovresti stare al mondo, se non sei con chi ami. Il senso di tutto, forse, senza fare spoiler sulla trama, è in una frase che viene detta nella serie, “Solo perché sei triste, non hai il diritto di rendere infelici tutti gli altri”, il valore delle piccole cose è l’unico che possiamo cercare anche quando sembra tutto perduto, senza smettere di soffrire, ma provando a fare stare bene qualcun altro, senza dimenticare il proprio dolore con un negazionismo emotivo alla “Andrà tutto bene”. Non sempre le cose vanno bene, esiste il male, esistono le brutte notizie, le tragedie, piccole e grandi, ed esiste anche la perdita di qualsiasi impulso vitale, così come la voglia di continuare a vivere. Ci si può arrendere di fronte a questi stati d’animo senza per forza apparire come dei perdenti, perché non c’è nessun discorso motivazionale, nessun consiglio, nessun nuovo capitolo della vita che può salvarci da certi dolori impossibili da rimarginare. Ricky Gervais con After Life non ha voluto raccontarci la rivincita di un uomo sofferente, né qualche forma di negazionismo del dolore: Tony, l’alter-ego di Gervais, è un uomo che soffre e forse continuerà a farlo per sempre, ma ciò non significa che non possa essere felice, in modo diverso, ma comunque reale.
