Nell’estate del 1982 durante la guerra civile in Libano, l’esercito israeliano invase Beirut per portare avanti i propri interessi – al pari di altri Paesi che parteciparono indirettamente al conflitto, come la Siria – e in particolare per contrastare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Durante questo periodo, saccheggiò l’intero archivio del Centro di Ricerca Palestinese. L’archivio conteneva documenti storici della Palestina, inclusa una collezione di immagini fisse e in movimento. Partendo da questo presupposto, A Fidai Film, del regista palestinese Kamal Aljafari – che verrà proiettato a Milano al Cinema Godard di Fondazione Prada il 17 novembre alle 16:15 e a cui seguirà una conversazione tra Aljafari e Sergio Fant – mira a creare una contro-narrazione rispetto a questa perdita, presentando una forma di sabotaggio cinematografico che cerca di recuperare e restaurare le memorie sottratte della storia palestinese.
“Questo non è un film sul passato,” ha detto però il regista, “ma sul futuro che è ancora possibile definire. Sto sabotando lo sguardo colonialista. E questo è un lavoro che può iniziare solo mettendo uno specchio davanti agli archivi coloniali. Cosa possiamo vedere, sentire e forse comprendere dai materiali d’archivio presenti nelle istituzioni israeliane, che hanno documentato instancabilmente tutto ciò che è stato possibile in questo paese trasformato in frammenti, anno dopo anno? Questo contro-archivio è ciò che chiamo la videocamera degli espropriati”. Aljafari infatti dispiega un vero e proprio archivio sentimentale attraverso una fusione unica e sapiente di tecniche cinematografiche documentaristiche e sperimentali. Il film utilizza il saccheggio delle pellicole palestinesi avvenuto a Beirut nel 1982 come premessa per rendere visibili materiali nascosti negli archivi israeliani e propone una narrazione alternativa di una storia continua di appropriazione ed espropriazione, non solo appunto territoriale ma anche identitaria e culturale. “Aljafari non ha solo documentato le prove della sua terra rubata, ma ha anche creato un nuovo modo di fare cinema – il cinema dei negativi. Ottiene gli stessi negativi e ne inverte luci e ombre. Ciò che gli israeliani hanno illuminato, lui oscura, e ciò che hanno relegato in secondo piano, lui porta in primo piano; quindi, dove mostrano, lui sabota, e dove nascondono, lui espone,” ha commentato Hamid Dabashi, professore di Iranian Studies e Letteratura comparata alla Columbia, nonché grande esperto di cinema.
A Fidai Film – che ha vinto il Grand Jury Prize Burning Lights Competition al Visions du Réel 2024 e il GNCR/Ciné+ Distribution Support Prize/Premio Renaud Victor al FID Marseille – richiama nel titolo l’inno ufficiale palestinese, Fida’i, appunto, composto da Ali Ismael e adottato dalla Olp nel 1996 e che richiama la parola martire, colui che si sacrifica per una causa più grande, collettiva. E forse è tra le poche opere capaci di trasmettere un senso profondamente intimo di legame alla patria, non coi toni sguaiati, rozzi e anabolizzati che di solito assume il nazionalismo, ma con la cura dello sguardo e dell’ascolto. Il film infatti più che un documentario sembra un collage, o un ricordo sommesso, in cui il contrarsi e l’espandersi dell’immagine e del suono dà ritmo alla percezione dello spettatore, come il battito di un cuore, il respiro. Senza mai risultare violento o brutale, nemmeno quando vengono mostrate le scene più crude o dolorose (tutte d’archivio), come se l’immagine emergesse direttamente da un super-corpo, da una mente collettiva, rizomatica, che condivide sensazioni e ricordi, belli e dolorosi, semplici e intricati. Così anche le musiche che accompagnano le immagini, perfettamente mescolate a esse, che vanno da vecchie canzoni popolari folkloristiche a musiche realizzate all’interno del The Majazz Project, un progetto di ricerca musicale che nato anch’esso da un archivio, incentrato sul campionamento, il remix e la riedizione di cassette palestinesi vintage – da cui emergono il suono di strumenti come l’oud, il liuto, il kanun, la simsimiyya, ma anche il flauto ney.
Anche la musica è resistenza culturale, ovvero come la definì Stephen Duncombe nel 2002, “la pratica di usare [..] la cultura per contestare e combattere il potere dominante, spesso costruendo una visione diversa del mondo da quella ufficiale”, coinvolgendo la dimensione sociale, storica e antropologica. La cultura, infatti, intesa nel suo senso etnografico più ampio – che come sottolineava l’antropologo britannico Edward Tylor comprende conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società – è una forma di memoria contro l’oblio. E non a caso il famoso scrittore palestinese naturalizzato statunitense Edward Said disse che la resistenza ideologica è “l’insistenza di vedere la storia della società completa e integrata e di cercare un metodo alternativo per vedere la storia umana che cancelli le barriere tra le culture”. La cultura, e peraltro ce lo hanno insegnato gli stessi ebrei di tutta Europa sopravvissuti ai campi di concentramento tedeschi, è un mezzo fondamentale per resistere a qualsiasi tipo di tentativo di cancellazione e rimozione.
Una forma tipica della canzone popolare palestinese – e comune a tutto il mondo arabo – è il mawwal. arabo, una forma che mischia l’amore, la nostalgia, l’attaccamento alla propria terra d’origine. Ma ci sono anche gli ataaba e i mijana, e sono tutte forme di poesia improvvisata, utilizzate in particolar modo dai palestinesi a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, per esprimere lo sdegno e il dolore per la demolizione dei loro villaggi da parte degli israeliani. È con forme simili che si apre e si chiude il film, che ripetono formule, come cammina cammina, e parlano della notte che si avvicina, e di cavalli, e di innamorati. E anche il montaggio delle immagini sembra riprendere le caratteristiche formali di questa musica, la ricorsività, e la prossimità delle diverse voci, così verso la fine ricompaiono le immagini dell’inizio, che con sorpresa percepiamo in maniera differente, con un’altra consapevolezza istintiva, come quando si rilegge lo stesso libro dopo molti anni, o si torna a fare visita dopo un lungo periodo a un luogo che ci è stato caro, che è diventato parte di noi.
Così appare forte il richiamo a una memoria collettiva ancestrale, vedendo donne che mietono il grano, uomini che zappano, cavalli e asini e pecore e buoi, e paglia, e fieno, e colline semidesertiche, e ampi terrazzamenti coltivati, ma anche insediamenti scavati nella roccia. La Samaria, la regione montuosa tra la Galilea, a nord, e la Giudea, a sud, nel nord della Cisgiordania, il cui nome deriva probabilmente da shâmar, “guardare”, e significa qualcosa di simile a “prospettiva”, “osservatorio”, proprio come questo film, intimo, calmo anche nell’osservare la distruzione più brutale, la paura dei bambini, la disperazione di fronte a un arto amputato, al dialogo continuo con un fantasma, un amore perduto, a un futuro perduto, alle bare, ai sudari, agli edifici sventrati, ai neonati rimasti orfani, alle pietre, al pane, nella sua semplicità, all’acqua (il cui suono per tutto il film si alterna come un controcanto al crepitio delle fiamme, la musica alle detonazioni dei fucili, delle esplosioni), ai corpi accatastati per le strade (e non quelli dell’ultimo genocidio a Gaza, di quelli archiviati, ma mai dimenticati, la lunga serie di vittime, di martiri, che da quasi un secolo ricorda il popolo palestinese).
Uno dei passaggi che più condensano il messaggio di A Fidai Film è un frammento di una pellicola che sembra quasi richiamare la nouvelle vague, un dialogo tra una delle tante irresistibili coppie di Godard. Un uomo e una donna sono seduti a un tavolino, circondati da delle rovine di pietra, e ampliano lo sguardo dal deserto montuoso. Lui le chiede: “Pensi che attireremo la loro attenzione?”. Lei risponde: “Non lo so, dipende”. E lui: “Ma devono prestarci attenzione”. E lei: “Perché dovrebbero prestarci attenzione?”. Lui: “Perché dopotutto siamo qui”. Lei: “Qui dove?”. Lui: “Qui”. Questo dialogo si ripropone in voice over mentre quelli che sembrano coloni israeliani ballano e cantano, ignorando l’enorme non detto della fondazione del loro stato, dell’espropriazione violenta delle terre per i loro insediamenti, e non c’è molto da aggiungere. Il film si conclude con il rumore del mare, le onde, con una canzone d’amore triste e gli scuri di un piccolo balcone che si chiudono. Un uomo sembra tornare a casa da un lungo viaggio tenendo nella mano una valigia, ma oltrepassa la soglia di una rovina, al cui interno bruciano le fiamme.