Lo sappiamo bene come funzionano le serie nel 2018: alcune rimangono confinate all’archivio Netflix e alla visione di pochi fan, altre invece diventano una vera e propria ossessione fino al punto di farmi domandare “Ma di cosa parlavamo prima?” Quando tutta la mia filter bubble sembra non avere altro scopo nella vita se non quello di commentare una nuova stagione di qualcosa, io cado sistematicamente nella trappola del giudizio a tutti i costi e comincio a guardare la serie in questione. Penso che funzioni più o meno così per tutti, e per fortuna non è sempre un male. Ci sono show come BoJack Horseman, ad esempio, che ho iniziato a guardare per questo motivo, e non me ne sono affatto pentita. Poi ci sono fenomeni come 13 reasons why che invece ti catapultano in un dibattito tra partigiani di Hanna Baker e detrattori della serie – categoria alla quale scelsi di appartenere all’epoca della querelle. Di recente è successo di nuovo: un’altra serie Netflix che si impone con prepotenza nel mio feed di Facebook e alla quale sento di dover fare attenzione, The end of the f***ing world.
Era l’ottobre del 2015 quando Netflix decise di colonizzare l’Italia. All’inizio, c’era un sentimento comune che si potrebbe descrivere come una sorta di timore reverenziale per il portale di streaming americano. Sembrava quasi che qualsiasi cosa ti proponesse fosse automaticamente investita di una certa autorità (e qualità) solo per la sua provenienza in qualche modo certificata. Col tempo, abbiamo cominciato a capire – o perlomeno, io ho cominciato a capire – che non era così, e che le schifezze circolano pure su una piattaforma che ha la presunzione di farti sembrare tutto incredibilmente bello. Mi riferisco appunto al caso di 13 reasons why: inutile riaprire una vecchia ferita e tirare fuori tutti i motivi per cui reputo questa serie un fiasco su più livelli – dalla trama morbosa all’assurdità dell’epilogo, tra stereotipi e pretese pedagogiche. Passata la rabbia per la consapevolezza di non potere riavere mai più indietro quelle ore della mia vita trascorse davanti alla faccia di Clay Jensen, mi sono resa conto di una cosa sulla quale non avevo riflettuto mentre ero in preda all’ira indignata da sedicente appassionata di serie tv: ma non è che forse il problema sono io?
Ho trascorso la mia adolescenza a guardare serie televisive in una modalità ormai obsoleta: non c’era il binge watching, ma solo l’interminabile attesa del palinsesto di Italia Uno o al massimo di MTV. Scaricavo poco e con difficoltà, almeno fino al 2006 circa, e non nascondo che il fatto di provare un brivido di terrore all’idea di essere colta in flagrante – sì, lo so, non succede mai, ma se fosse successo? – mi portasse a guardarmi dal farlo. Di conseguenza, sembrava che l’unica soluzione per trovare qualcosa che mi piacesse fosse vedere tutto: dall’abisso pacchiano di Paso Adelante alla comicità di Scrubs, fino a The O.C., Buffy la cacciatrice di vampiri, Dawson’s Creek e Gossip Girl, mettendoci in mezzo anche quegli scarti televisivi come Blue Water High o 15/Love. Escluso il miracolo di Malcolm in the Middle, una serie che a mio parere riusciva a essere una sintesi perfetta tra contenuto e forma, la maggior parte degli altri show erano perlopiù prodotti adatti a una ragazzina di tredici anni. Il teen-drama, infatti, dominava l’immaginario adolescenziale e imponeva canoni estetici ben precisi: la vita bassa di Marissa Cooper o la tastiera qwerty del telefono Blair Waldorf ne erano una prova. Nessun adulto – se per adulto intendiamo una persona che abbia finito il liceo e superato l’età degli ormoni impazziti – si sarebbe sognato di buttarsi in una nottata di binge watching di O.C. per poi passare le successive giornate a commentare con toni critici e concitati gli sviluppi della vita a Newport Beach su Facebook. Anzi, consiglio a tutti di fare questo esperimento: ritirate fuori un episodio della prima stagione di O.C. e provate a guardarla con qualche amico, vi assicuro che ne apprezzerete una comicità inedita se l’ultima volta che lo avete visto è stato un mercoledì sera su Italia Uno.
Questa netta differenza che intercorreva un tempo tra cose per grandi e cose per teen-ager non è più così tanto palese, e il colpevole numero uno di questo fenomeno è, come sempre, internet. L’ennesimo esempio che da un grande potere derivano grandi responsabilità, e tutte quelle retoriche ormai trite e ritrite sulla libertà del web: quando si ha accesso a tutto è più difficile discernere cosa vada effettivamente bene per la propria fascia d’età – e per il proprio gusto – e cosa no. Così, ci ritroviamo a guardare un teen-drama che parli di ripicche tra gli armadietti di qualche high school e lo confondiamo con una serie che dovrebbe rivolgersi pure a chi nelle high school non ci mette più piede se non per lavorarci. O dedichiamo molto spazio ad azzuffarci sulla banalità di una serie come The end of the f***ing world, solo perché Netflix vuole convincerci che è una serie adatta a tutti.
Dal mio punto di vista The end of the f***ing world è un’accozzaglia di riferimenti estetici che vogliono mirare a un pubblico preciso – il fatto che Sofia Viscardi condivida foto della protagonista direi che renda abbastanza l’idea del pubblico a cui mi riferisco. La serie sembra una messa in scena della copertina di un disco dei Sonic Youth girato da Wes Anderson, con qualche tocco di Juno e un bel po’ di ribellione. Al di là di una trama che ho trovato abbastanza noiosa e una scenografia inglese inspiegabilmente americanizzata, è chiaro che il punto centrale sono i due protagonisti, Alyssa e James. La prima affetta dalla sindrome della ragazza cattiva che dice solo parolacce e guarda tutto con espressioni di impassibile disprezzo – oltre ad avere un perenne atteggiamento da I don’t give a fuck – e il secondo che si crede uno psicopatico perché, incredibile plot twist, nella trama un personaggio tutto matto che vive nel suo mondo ci sta sempre. Un cliché dopo l’altro vestito da prodotto indie, The end of the f***ing world è, a mio parere, una serie che non lascia davvero nulla se non un profondo fastidio verso i moti adolescenziali in stile Rebel without a cause. Ma l’avrei pensata così da tredicenne, tra una puntata di Dawson’s Creek e l’altra?
Non so dire se una decina di anni fa, in effetti, sarei comunque rimasta immune al fascino di un’estetica simile – anche se ho i miei dubbi considerato che Wes Anderson non l’ho mai sopportato, nemmeno da adolescente, ma quello magari è un problema mio. È evidente però che il punto non è tanto capire se The end of the f***ing world sia poi tutta questo capolavoro o meno: il punto è che è inutile guardarlo pensando di trovare qualcosa di diverso da un semplice teen-drama che fornisca foto profilo alle coetanee di Sofia Viscardi. Non è che se guardo un cartone animato mi aspetto di trovarci l’intimismo della Nouvelle Vague, semplicemente so che sto guardando un prodotto audio-visivo destinato ai bambini, ma che comunque posso apprezzare. Forse andrebbe fatto questo esercizio anche con tutte quelle serie Netflix o simili che ci vengono proposte – come dei grandi fenomeni e poi in realtà altro non sono che una versione più evoluta e più contemporanea di una stagione di Gossip Girl, un prodotto da vendere a una certa fetta di pubblico, e se poi in mezzo ci tiriamo pure qualche altro spettatore, ben venga.
Dunque, The end of the f***ing world è davvero questa schifezza gigantesca? Magari dovremmo provare a chiederlo a un liceale invece che a un critico cinematografico di trent’anni.