La segregazione urbana è spesso considerata un fattore fondamentale della crisi delle città, legato all’idea di ghetto e ai quartieri popolari stigmatizzati. Quei quartieri sono la cosiddetta cintura delle metropoli: le periferie. A forte concentrazione di immigrati, come spiega la sociologa Annick Magnier nel suo libro Sociologia dei sistemi urbani, la mancanza di coesione sociale nel rapporto tra città e periferie si presenta come un ostacolo primario all’integrazione stessa.
La questione italiana interessa ben 15 milioni di abitanti che vivono in quartieri suburbani dove convivono con insediamenti formali e informali: 28mila persone di etnia rom e 600mila migranti a cui è stato negato lo status di rifugiati politici abitano in edifici che per il 20% risultano essere in pessime condizioni. A dirlo è la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza e degrado di città e periferie, che stima inoltre a 650mila le famiglie che attendono un’abitazione pubblica, in ragione delle 49mila case popolari occupate abusivamente o finite nella mani della criminalità organizzata e adibite a luoghi di spaccio e ricettazione. Territori ai margini della società, che negli anni sono stati argomento di discussione nei vari programmi di governo. A partire dall’esecutivo Renzi, la cui “messa in sicurezza” delle periferie – cui alludeva il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie del 2016 – ha messo sì a disposizione delle città metropolitane fondi per tale scopo, ma senza dar vita a una dimensione strutturale, seppur piccola, dei programmi di rigenerazione urbana e di riqualificazione. Un’esperienza estemporanea, legata al tempo del finanziamento, è anche quella che prevedeva un investimento di 25 miliardi in 10 anni per la rigenerazione delle periferie italiane, suggerita dalla Commissione d’inchiesta e mai applicata dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti.
Il pacchetto periferie, durante questi anni, si è trasformato più in un’arma da campagna elettorale che in un punto del calendario politico. Integrazioni in altri progetti di legge, assenza di continuità nell’esecutivo, trasformazione dell’indirizzo politico, hanno fatto in modo che a cavallo tra il governo Gentiloni e il Conte I – con annesso rimpallo di colpe – il Piano periferie messo su dai governi dem e finanziato per 2,1 miliardi dallo Stato, in sede di conversione del Milleproroghe, sia stato messo in pausa per due anni. Tra pregi e limiti del progetto stoppato, emergeva in particolare una mancanza comune a tutte le proposte fatte in questi anni: ovvero l’attenzione verso tutti quei livelli di intervento al di sopra della semplice ristrutturazione urbana e edile. Come ad esempio il coordinamento delle forze di polizia, la lotta alle occupazioni abusive, le demolizioni in alternativa alle ricostruzioni dei vecchi complessi popolari e un ripensamento moderno dell’area nella sua complessità. Aggiustamenti e modifiche delle quali, tuttavia, neanche nella manovra di bilancio per il 2020 si trova traccia. Le risorse che prevede il nuovo Decreto fiscale in termini di riqualificazione urbana, infatti, si rivolgono prettamente al risanamento di edifici e aree degradate. In altre parole: semplici interventi urbanistico-edilizi, mai affiancati a politiche sociali calibrate. Per l’ennesima volta, quindi, ci troviamo di nuovo al punto di partenza.
Il presupposto di queste misure non tiene conto delle sacche di povertà che piegano alcune città italiane più di altre. L’Istat ha calcolato che a livello nazionale, nei capoluoghi abitano più di 9,5 milioni di persone, di cui oltre un terzo alloggia in quartieri dove il disagio economico è più evidente. La forte presenza di famiglie vulnerabili, si deve a molteplici fattori: da quello reddituale, alla presenza di giovani al di fuori dei percorsi di studio, di formazione o lavoro. Tra queste pieghe di disperazione e povertà si infiltra la criminalità organizzata, la quale costruisce contesti relativamente protetti e fornisce occupazione (in settori come droga, prostituzione e ricettazione) in grado di sostituire la presenza dello Stato.
In termini assoluti, Roma contiene quasi 900mila persone che vivono nelle zone della città di cui sopra. Seguita da Milano e Napoli, nelle quali sono circa 400mila i residenti, e Torino a 343mila. Il dato che più ricalca la situazione reale, però, è la quota di abitanti nei quartieri disagiati sul totale della popolazione. Cagliari, ultima in termini assoluti (67mila persone), è la città dove si registra l’incidenza maggiore (44,8%). Così per Napoli (41,1%), Catania (40,4%) e Palermo (40%). Periferie in cui si rischia di alimentare un conflitto sociale tra ceti deboli, fra cittadini impoveriti e migranti senza certa collocazione. A Roma stringe il nodo dei trasporti, nella cintura milanese quello del controllo nei comuni ad alto rischio, mentre a Napoli il detonatore di questa polveriera sono realtà centrali come Forcella, Rione Sanità e i Quartieri Spagnoli.
La maggiore possibilità di penetrazione della criminalità organizzata in questi quartieri è ben nota all’immaginario comune e dalla narrazione che ne fanno i media. Nel concorso di interessi, per giunta, come sottolinea il report “Illuminare le periferie” ideato da Cospe onlus, Usigrai e Fnsi, un posto in prima fila spetta ai diversi volti della povertà in Italia raccontati nelle edizioni dei telegiornali Rai, Mediaset e La7 nel 2018. La televisione sembra poter influire negativamente sulle condizioni delle periferie italiane. Il taglio con cui viene decifrato il fenomeno dai media spesso è l’unico filtro d’interazione con cui i poli dei centri urbani riescono a interagire. I risultati dell’analisi notificano 706 notizie sul tema, l’1,4% del totale (48.936 notizie), una media di due notizie al giorno all’interno dei 7 telegiornali esaminati, equivalente a una notizia ogni circa 4 giorni a notiziario. La parte preponderante (67,1%) è stata declinata per illustrare le politiche di contrasto della povertà, a seguire alle statistiche relative alla povertà (9,3%) e infine una finestra sulle storie e i casi (9,1%) di persone in difficoltà. Ma a lacerare la coesione e stigmatizzare le diverse comunità non sono tanto i servizi televisivi in sé ma le chiavi di lettura che propongono: nei telegiornali di Mediaset, ad esempio, si tende a dare un taglio di guerra tra poveri , mentre la Rai punta sul riscatto di chi si rialza dalla caduta e La7 sul ruolo del volontariato.
Tutto questo parlare però non sembra portare a effettivi cambiamenti sull’isolazionismo assistenziale per gli abitanti dell’hinterland, sia fisico che culturale. L’annuncio del ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, dello stanziamento di 1 miliardo per il piano casa (che è comunque la metà di quanto stabilito in precedenza) punta a riconoscere dignità alle zone degradate della città più in chiave estetica che strutturale.
È sicuramente positivo che la questione sia rientrata negli obiettivi di governo, ma è anche vero che non basta riqualificare gli edifici secondo le più aggiornate norme energetiche, creare spazi comuni e migliorare un po’ i trasporti, per rendere realmente più vivibili quei quartieri. Le politiche sociali dovrebbero coinvolgere e includere gli abitanti riducendo il rischio che i sociologi chiamano “effetto del vicinato”: cioè del vivere, andare a scuola, frequentare solo persone in condizioni di svantaggio, con un impoverimento del capitale umano e sociale. La risposta a questi bisogni si compie con servizi di qualità e una compartecipazione dei privati, non solo per la parte edilizia. La crisi del welfare ha inciso sulla geografia delle disuguaglianze, facendo riaffiorare un disagio sociale che si pensava superato: riqualificare seriamente le periferie italiane significa anche abbreviare i ritardi burocratici sulla mancanza di spazi, intervenire sulle questioni ambientali e su quelle abitative. Un primo grande passo in questa direzione può essere il completamento delle operazioni di abbattimento delle Vele di Scampia, grande emblema della periferia italiana.