La pandemia ha colpito a fondo l’identità delle metropoli. Il distanziamento sociale si è abbattuto proprio su quelle attività che rendono le città i luoghi vibranti che conosciamo: locali, ristoranti, teatri, cinema, club, gallerie d’arte, fiere e showroom, stazioni e aeroporti, e tutto quel corredo di servizi che determinano la capacità di un agglomerato urbano di attrarre investimenti, viaggiatori e nuovi abitanti. Primo approdo per nuovi immigrati, polo d’attrazione per portatori di idee e stili di vita non convenzionali, le grandi città sono i luoghi dove si concentra la produttività e si produce la maggior parte del reddito della nazioni. È stato calcolato che nelle città con più di 1 milione di abitanti la produttività del lavoro sia del 50% superiore rispetto la media e che le 300 maggiori aree metropolitane globali generino da sole metà del reddito e due terzi della crescita mondiale.
La storia insegna che il grado di successo delle città è direttamente correlato alla disponibilità di una risorsa: lo spazio pubblico. Nello spazio pubblico milioni di sconosciuti imparano a tollerarsi, a fidarsi e infine a mescolarsi, una funzione di “miscelatore sociale” che si sviluppa tra piazze e marciapiedi affollati, bar e caffè, vagoni della metro, manifestazioni culturali, marce di protesta, festival, congressi, club, grandi complessi di uffici e così via.
Il Covid ci ha mostrato l’altra faccia della medaglia della vita urbana: gli stessi fattori che decretano il successo delle città, sono anche all’origine dei loro mali. Nei secoli, l’apertura verso le persone che arrivavano dai luoghi più lontani e la vicinanza fisica tra sconosciuti hanno fatto sì che le città diventassero un habitat ideale per batteri, nuovi virus, roditori e insetti parassiti. Nel corso della storia, sulle città si è accanita la furia di epidemie, incendi, sommosse, rivoluzioni, con le conseguenti terribili ondate di miseria, rabbia, crimine e degrado. L’effetto congiunto di queste piaghe ha fatto sì che nelle grandi città la mortalità fosse storicamente più alta rispetto alla media. Ma la maggior parte delle volte le città hanno dimostrato di saper trovare i giusti rimedi ai loro problemi, in modo da riformarsi e continuare a prosperare, in cicli periodici di crisi e rigenerazione.
A metà dell’Ottocento, Londra era arrivata sull’orlo del collasso sanitario ed ecologico. Nessuno a quel tempo misurava la qualità dell’aria e dell’acqua, ma i distretti operai della capitale dell’Impero britannico erano probabilmente i più inquinati e maleodoranti al mondo, fumanti di caldaie a carbone, con fogne a cielo aperto, strade fangose in terra battuta, funestate da colera, tubercolosi, tifo e vaiolo. Ma il disastro aprì la strada al riscatto. A partire dagli anni Cinquanta, filantropi e socialisti britannici diedero il via al movimento delle slum clearance e alla pratica dello zoning, per separare funzioni residenziali, commerciali, industriali e ricreative. Nacquero in quell’epoca le idee progressiste di città giardino, di edilizia cooperativa e pubblica. Organi di governo locale di moderna concezione sostituirono i vecchi consigli di origine medievale, guidati da vescovi, gilde, baroni e proprietari terrieri. Vennero sviluppate nuove reti di trasporto pubblico basate su carrozze collettive (gli omnibus), ferrovie metropolitane, nuovi sistemi fognari e di nettezza urbana (fino ad allora quest’ultima era affidata a bambini di strada, invalidi, maiali e pollame). Fu proprio la volontà di costruire città più salubri, a prova di epidemia, a far da propellente a questo grande momento fondativo dell’urbanistica contemporanea, il cui spirito è ben esemplificato dall’uscita nel 1876 di Hygeia. A City of Health, opera utopica del medico e filantropo Benjamin W. Richardson.
Tra i casi esemplari di crisi sanitarie che hanno dato impulso a movimenti di rinascita ci sono le città italiane del Basso Medioevo. Tra il 1346 e il 1350 la Peste Nera uccise un terzo della popolazione europea: un profondo shock culturale che aprì la strada a una grande stagione di riforme. Strade polverose e case pericolanti fatte di legno, fango e fieno, infestate da topi e pulci, lasciarono il posto a costruzioni in muratura e laterizi, strade pavimentate, dotate di marciapiedi e portici, ben areate, studiate da architetti e ingegneri, regolamentate da leggi urbanistiche: il Rinascimento. Da allora regnanti e borgomastri di tutto il mondo guardarono all’Italia come a un modello. Quando nel Seicento Londra venne colpita dal duplice flagello degli incendi e della peste, gli architetti della Corona, in cerca di idee innovative per la ricostruzione, si rifecero alle città italiane e adottarono la soluzione urbanistica della piazza rinascimentale, che serviva da spartifuoco e da rifugio anti-incendio ma offriva anche ampi spazi per botteghe, mercati, fiere, celebrazioni, feste, musica, con vie di accesso dislocate a raggiera, per flussi ordinati, pavimentazione in pietra, per evitare la polvere (veicolo di batteri) e facilitare lo spazzamento.
Ogni grande epidemia ha lasciato la propria impronta duratura sulle città e sul pensiero urbano. Quale segno lascerà SARS-CoV-2 sulle città del Ventunesimo secolo? Gli scenari sono ancora aperti. Potrebbe tornare tutto come prima, o potrebbe aprirsi una fase di rigenerazione come è successo altre volte nella storia. Ma potrebbe anche essere l’inizio di un’inversione di tendenza verso un processo di deurbanizzazione duratura come quella che interessò l’Europa dell’Alto Medioevo, non a caso proprio dopo una delle più terribili epidemie di peste bubbonica della storia. Dipende da noi. Individualmente, in quanto cittadini, lavoratori, consumatori e utenti della città, e collettivamente, in qualità di imprese, associazioni e istituzioni.
Prima di tornare a testa bassa a fare tutto come prima, prendiamoci un po’ di tempo per fare ricerca e per pensare. Abbiamo i soldi del Recovery Fund da investire, cinque volte tanto il Piano Marshall, potrebbero nascerne nuove opportunità, nuove vocazioni produttive, per città più belle, vivibili, sane. Con questa pandemia le società hanno dimostrato di saper prendere decisioni complesse nell’arco di pochi giorni, in modo tutto sommato coordinato, guardando ai comportamenti di altre società, misurarandone i risultati e riproducendoli, in un esperimento sociale senza precedenti. Che 4 miliardi di persone cambiassero temporaneamente il proprio modo di usare lo spazio pubblico, di lavorare e di muoversi, all’unisono, in tutti i continenti, è un fatto che non ha precedenti nella storia.
Durante il lockdown ci siamo accorti che tanti comportamenti che avevamo ereditato dal Novecento forse non hanno più così tanto senso di esistere, vanno rivisti. È il caso dei grandi complessi di uffici, con il loro indotto di milioni di pendolari. Un retaggio del modello fordista di città-fabbrica, in cui gli impiegati – come gli operai prima di loro – lavoravano in batteria, pagati a tempo. Tutto questo stava già cambiando, la pandemia ha solo accelerato il processo. Il boom del lavoro in remoto e il calo della domanda (e quindi dei prezzi) degli immobili può essere una buona notizia per soggetti fino a ora marginalizzati dal mercato immobiliare. I casi storici in cui bassi prezzi degli immobili hanno favorito una rigenerazione di lungo termine non mancano, primo fra tutti il caso della Berlino degli anni Novanta.
La gestione di questi cambiamenti non sarà semplice. Cambiamento vuol dire incertezza, dubbi, riorganizzazione, errori, conflitti, una situazione non sempre facile da gestire, soprattutto per i soggetti più deboli e meno attrezzati da un punto di vista economico e culturale. Le ripercussioni colpiranno in modo asimmetrico i diversi settori, ci saranno sperequazioni e per questo è importante che ci sia una visione coordinata. Certo, le cose potrebbero anche andare molto male, per esempio con la diserzione in massa del trasporto pubblico e un nuovo boom automobilistico, con la fine degli spettacoli dal vivo, o con un fenomeno hikikomori di massa, milioni di persone disabituate alle relazioni umane, prigioniere di un lockdown mentale depressivo. Non mancheranno tensioni. Ma se ci organizziamo bene, potremmo uscirne con città meno frenetiche, più armoniose, salutari, più verdi e meno inquinate, dove ci si può spostare senza rischi in bici e a piedi, dove c’è il tempo per farlo, dove si fa più sport all’aperto o magari in casa propria, con una fioritura di nuovi spazi pubblici accessibili e piacevoli. Città alla lunga più prospere e vivaci, che assomigliano meno a grandi shopping mall. In parte è questa la città post-pandemica che stiamo già vivendo.
Nel giro di qualche anno anche il ricordo di questa pandemia sfumerà, come si dileguò la paura della Peste Nera, cento volte più letale del Covid-19. Probabilmente torneremo a fare molte delle cose di prima, tali e quali a prima, in parte sta già succedendo. Sarebbe bello, però, se nel frattempo avessimo sperimentato nuove e positive abitudini, in modo da avere allargato il corredo di opzioni esistenziali offerte dalle nostre città. I vantaggi sarebbero molti anche in termini di emissioni di CO2. Come la pandemia, l’emergenza climatica è un problema globale che richiede soluzioni globali. Le città possono guidare il cambiamento. L’Italia del Trecento, tra i Paesi più colpiti dalla peste, fu tra le regioni del mondo più reattive nel trovare le soluzioni per uscirne, grazie a personalità e professionalità illuminate. Chissà che anche con il coronavirus il nostro Paese non possa tornare a guidare il pensiero socio-urbanistico come in passato.