È il 23 giugno 1988 e James Hansen, astrofisico e climatologo statunitense, parla per la prima volta nella storia di fronte al Senato degli Stati Uniti di riscaldamento globale. Ha studiato il fenomeno per diverso tempo e pacatamente illustra i risultati del suo studio: il mondo si sta surriscaldando. La Terra ha registrato temperature più alte nei primi cinque mesi di quel 1988 che nei precedenti 130 anni e questo fenomeno è da attribuire alle attività inquinanti del genere umano. A partire da questa constatazione, lo scienziato dipinge tre possibili scenari futuri: il primo, il più drastico, prevede un’impennata delle temperature nel caso in cui i livelli di inquinamento fossero aumentati; il terzo, decisamente migliore, si sarebbe potuto verificare solo a condizione di “tagli draconiani” alle emissioni di CO2; infine, lo scenario B è una via di mezzo tra le eventualità A e C, il più simile alla realtà di oggi. L’accuratezza con cui Hansen prevede il mondo in cui ci troviamo è impressionante: con un margine di errore del 20 – 30% – legato per esempio al fatto che non poteva calcolare gli effetti benefici del protocollo di Montreal, che ha permesso di ridurre radicalmente le sostanze inquinanti all’origine del buco dell’Ozono – Hansen ha calcolato un aumento della temperatura di 0,8° C tra il 1988 e il 2017. Oggi possiamo constatare che questo sia in effetti di 0,6° C.
Le affermazioni di Hansen, però, appaiono allora talmente rivoluzionarie che persino l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico fondato quello stesso anno, nel 1990 pubblica un report molto più conservativo. Nel documento si legge che la temperatura del globo è aumentata di 0,3 – 0,6° C nei precedenti 100 anni e che i 5 anni più caldi della storia – da quando esistono i mezzi per registrarli – si sono verificati tutti negli anni Ottanta; con la stessa certezza gli scienziati constatano anche che il livello del mare è aumentato di 10 – 20 cm nello stesso periodo. Tuttavia, a differenza di Hansen, l’Ipcc specifica che il fenomeno, per come è stato osservato fino ad allora, è in linea con i cambiamenti climatici naturali e dunque non è possibile dire con certezza che la causa di questo fenomeno sia l’uomo. Bisognerà aspettare i report successivi perché l’Ipcc si allinei con quanto illustrato da Hansen in quel giorno di giugno del 1988.
Ma anche se può sembrarlo, James Hansen in realtà non è mai stato solo. Già prima che lui si recasse a Capitol Hill, qualcun altro aveva capito che l’innalzamento delle temperature era da attribuibire all’incremento esponenziale delle emissioni di CO2, cominciato con la rivoluzione industriale e legato all’estrazione e allo sfruttamento dei combustibili fossili: le compagnie petrolifere. Impegnate nella ricerca scientifica nel settore – e di certo provviste di risorse finanziarie che molte università possono solo sognare – le grandi società del fossile assoldavano i migliori scienziati per comprendere meglio il settore in cui lavoravano e, sostanzialmente, capire come aumentare i profitti o tutelarsi da eventuali problematiche. Una di queste era proprio l’aumento delle temperature legato alla combustione dei fossili.
Diversi documenti dell’epoca, molti dei quali raccolti su Climatefiles.com, dimostrano la precisione con cui i consulenti di queste compagnie avevano previsto ciò che oggi è una realtà innegabile. Ad aprile dell’anno scorso, il giornalista olandese Jelmer Mommers ha reso pubblici una serie di dossier riservati della compagnia del suo Paese, la Royal Dutch Shell, che dimostrano come già nel 1981 l’azienda commissionasse ai propri scienziati studi sull’effetto serra. Nel 1986 queste ricerche portano alla pubblicazione interna del rapporto dall’omonimo titolo, in cui si apprende che Shell era ben consapevole del ruolo preponderante dell’industria petrolifera nell’incremento delle emissioni di CO2 e che aveva persino calcolato il suo singolo apporto (stimato intorno al 4% del totale, in linea con i dati di oggi). Si apprende anche che gli scienziati sapevano che questo avrebbe causato “Cambiamenti significativi sul livello del mare, sulle correnti oceaniche, sui pattern delle precipitazioni, sulle temperature regionali e sul clima” e delle conseguenze “sull’ecosistema umano, sugli standard di vita e sulla disponibilità di cibo”, oltre che “sulla società, l’economia e la politica”.
Nemmeno i consulenti di Shell erano soli. Grazie alle inchieste giornalistiche sappiamo che addirittura la statunitense Exxon lo scoprì diverso tempo prima. Attualmente sotto processo nello stato di New York per aver falsificato i numeri sul cambiamento climatico in modo da non scoraggiare gli investitori – ironico che questo avvenga per ripagare il danno economico di qualche milionario e non per l’incalcolabile disastro causato all’ecosistema dal loro negazionismo – la compagnia petrolifera era a conoscenza dei danni ambientali della sua attività già dal 1977. Lo scienziato e consulente James Black li avvertì più volte in quegli anni. In una conferenza del 1978 stimò che in 100 anni i livelli di CO2 sarebbero quadruplicati o addirittura quintuplicati rispetto a quelli preindustriali e questo avrebbe causato l’aumento della temperatura dall’1 ai 3° C, e di 10°C ai poli.
Ai tempi di Black la CO2 era calcolata in 330pm, ma oggi ha superato le 400ppm e non siamo nemmeno a metà del percorso indicato da Black. Seppure lo scienziato fosse cauto, con i dati di allora, a stabilire un collegamento univoco tra attività umane e aumento della CO2, ha dato all’uomo una finestra temporale di 5 – 10 anni per comprendere il fenomeno e trovarvi una soluzione.Simili dati furono ribaditi nel 1979 e poi nel 1981, quando il dirigente Roger Cohen avvertì che le temperature sarebbero potute aumentare talmente tanto che gli effetti sarebbero stati “catastrofici, almeno per una larga parte della popolazione”. Nel 1982 il team scientifico di Exxon, di cui faceva parte anche Martin Hoffert, lo scienziato recentemente sentito come testimone dalla Commissione Diritti civili del Senato statunitense, ancora più nel dettaglio predisse che nel 2060 i livelli di CO2 avrebbero raggiunto le 560 parti per milione e che le temperature sarebbero aumentate di 2°C.
Come hanno reagito i board di queste compagnie di fronte a dati che i loro stessi scienziati definivano catastrofici è ormai storia, come testimoniano i tanti documenti e le testimonianze in merito. Un rapporto scritto da scienziati delle università di Harvard, Bristol e George Mason e pubblicato nell’ottobre 2019 traccia alcuni parallelismi tra la campagna di disinformazione messa in piedi dalle compagnie petrolifere e quella orchestrata dall’industria del tabacco, che per anni ha tentato di sottostimare i danni del fumo di sigarette agli occhi dei consumatori. Quando, verso la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, la comunità scientifica ha cominciato a convergere su un consenso quasi unanime sull’esistenza del cambiamento climatico e sulle cause umane di questo fenomeno (una convergenza stimata tra il 91% e il 100% della comunità scientifica) l’industria ha cominciato a finanziare scienziati, spin doctor e agenzie di comunicazione per mettere in dubbio questo consenso e scoraggiare la richiesta di soluzioni efficaci da parte dell’elettorato, confuso su un tema troppo scientifico per essere compreso dai non addetti ai lavori.
Uno dei prodotti più esemplificativi – e a tratti inquietante – di questo enorme sforzo di disinformazione è un cortometraggio del 1992 prodotto dalla Western Fuel Association, un consorzio statunitense che unisce produttori di carbone e di macchinari alimentati a carbone – e che ironicamente sul suo sito si descrive come un’organizzazione no profit. La teoria esposta nel corto è basata su un assunto finora contraddetto dalla stragrande maggioranza delle prove scientifiche: la combustione dei fossili farebbe bene al pianeta. The Greening of Planet Earth, sostiene che un tempo nell’atmosfera sarebbe stata presente molta più CO2 rispetto all’inizio degli anni Novanta e per questo il Pianeta sarebbe stato verde e lussureggiante. A un certo punto, però, la vegetazione ha cominciato a perire e la CO2 intrappolata nelle piante si sarebbe trasformata in carbone, gas e petrolio, la cui combustione servirebbe a liberare l’anidride carbonica e riconsegnarla al suo ambiente naturale, l’atmosfera.
Un’altra tattica utilizzata dalla lobby del petrolio è quella di screditare i cosiddetti “ambientalisti”, ovvero chiunque, con mezzi scientifici o meno, riesca a raggiungere l’opinione pubblica con informazioni dannose per le loro attività. Riferendo di fronte al Senato statunitense durante i lavori per la firma del protocollo di Kyoto, nel 1998 il climatologo Patrick Michaels mistificò il lavoro presentato in quella stessa sede dal collega Hansen 10 anni prima. Finse infatti che gli scenari B e C non esistessero, bollando il lavoro come esagerato. Ha poi ammesso in diverse interviste che il 40% delle sue entrate è frutto dei finanziamenti dell’industria petrolifera. Un altro caso, più recente, è una campagna pubblicitaria delirante finanziata dall’Hearthland Institute, un think tank conservatore statunitense noto per la reticenza ad accettare il cambiamento climatico come una realtà. I pannelli, affissi lungo una superstrada di Chicago, mostrano i volti di personaggi come Charles Manson, un terrorista omicida, Ted Kaczynski, noto serial killer, e Fidel Castro, da loro definito “un tiranno”, accostati alla frase “Io credo nei cambiamenti climatici, e tu?”. Nel comunicato i promotori dell’iniziativa hanno spiegato candidamente che i nomi sono stati scelti perché sono personaggi “cattivi” che hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche in favore della lotta al cambiamento climatico non dissimili da quelle dei giornalisti e degli scienziati “mainstream”, che per deduzione logica sarebbero dunque dei criminali.
A fine ottobre, come anticipato, si sono tenute negli Stati Uniti le audizioni di diversi testimoni da parte della Commissione parlamentare per i diritti e le libertà civili. Hanno parlato scienziati, consulenti delle compagnie petrolifere, attivisti e professori, tutti concordi su quanto emerso negli ultimi anni: le compagnie petrolifere conoscevano alla perfezione i danni che l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili stavano arrecando all’ambiente, ma non solo non hanno fatto nulla per allarmare la pubblica opinione e la classe politica, ma hanno fatto sì che queste informazioni venissero celate e ridicolizzate il più a lungo possibile per continuare ad ingrossare i propri profitti. E ci sono riusciti, tanto che oggi, quasi mezzo secolo dopo, i passi avanti nella lotta al cambiamento climatico sono stati pochi e del tutto insufficienti.
Sono tanti i casi nella storia in cui un’informazione resta celata a lungo e, quando viene resa pubblica, genera un’eco talmente forte da cambiare in qualche modo il corso della storia stessa. È, o quantomeno dovrebbe essere, il caso di cui si è parlato fino ad ora, che molti giornali hanno definito come “il più grande insabbiamento della storia”. Eppure, le conseguenze che la notizia ha generato non sembrano affatto commisurate all’entità del danno. È apprezzabile che se ne parli in una delle aule istituzionali più importanti al mondo, ma la sede corretta per questo tipo di dibattimento dovrebbe essere la Corte penale internazionale. Aver lavorato perché queste informazioni non fossero rese pubbliche o venissero considerate inattendibili è forse il peggior crimine contro l’umanità mai commesso e, oltre a invertire la rotta in fatto di emissioni ignorando la propaganda del fossile dovremmo anche far sì che chi ha sbagliato paghi.