I social ci hanno resi tutti esperti di architettura. E hanno reso l’architettura una merce.

E se l’architettura contemporanea fosse diventata un “prodotto fotografico” il cui plusvalore è governato dal sistema di comunicazione delle immagini? Pensate allo spazio della vostra quotidianità ridotto in questi giorni alle quattro mura della vostra stanza. Il letto, la cucina, il divano, la scrivania. L’intera vita compressa in pochi metri quadri. La città è distante, rimasta fuori dalla finestra. Eppure mentre cucinate, leggete o chiacchierate con il vostro coinquilino, potrebbe capitarvi di abbassare lo sguardo sullo schermo del vostro smartphone e, senza smettere di parlare, controllare gli ultimi messaggi, organizzare il prossimo video-aperitivo, commentare su Instagram una foto di un’amica rimasta dall’altro capo del mondo. Tutto nello stesso istante. Senza accorgervene, nella vostra vita si sono appena sovrapposte due realtà – quella fisica e quella virtuale – che convivono, influenzandosi a vicenda, senza soluzione di continuità. Grazie alla fotografia 2.0, anche l’architettura vive questa duplice realtà, immersa contemporaneamente nel suo contesto fisico (la costruzione materiale e il paesaggio urbano nel quale sorge) e nel suo contesto virtuale (tutte le immagini e le riproduzioni dell’edificio accessibili in rete).

Il termine fotografia 2.0, mutuato da web 2.0, è stato introdotto nel 2008 da Fred Ritchin nel saggio After Photography per descrivere la possibilità di condividere le immagini su internet attraverso un’interazione diretta tra piattaforma e utente. L’interesse verso questa nuova forma di fotografia di massa, alimentata dalla nascita dei social come Instagram, Facebook, Flickr, non riguarda semplicemente l’aumento esponenziale del numero di immagini, ma anche la modalità di relazione tra lo spazio fisico e quello virtuale, capace, in brevissimo tempo, di rivoluzionare il rapporto economico tra utente e soggetto fotografato.

Frank Gehry, Walt Disney Concert Hall
Zaha Hadid, Dongdaemun Design Plaza, Seoul

La novità introdotta dalle piattaforme 2.0 riguarda, principalmente, la duplice veste assunta dal fruitore, invitato a intervenire in prima persona nel processo comunicativo: ciascun utente, nel momento in cui condivide le immagini all’interno dei social, produce e, al tempo stesso, consuma parte dei contenuti postati, passando dall’essere uno spettatore passivo a un co-protagonista dell’evento. Questa condizione di coesistenza tra l’atto del consumo e l’atto del produrre, definita prosumer (crasi dei vocaboli inglesi “producer” e “consumer”, coniata da Alvin Toffler nel libro The Third Wave), descrive il passaggio da un sistema di comunicazione verticale, dove si riceveva passivamente un’informazione, a un sistema apparentemente orizzontale, dove si partecipa direttamente al meccanismo comunicativo, contribuendo, inconsapevolmente, a parte dell’azione economica. 

Postare un contenuto su Instagram non è difatti un gesto neutro, ma un’attività comparabile a un “lavoro produttivo”, un atto che genera un plusvalore, alimentando un’economia distinta e parallela rispetto alla principale funzione per la quale l’architettura era stata concepita. Attraverso la circolarità reale/virtuale, il capitale investito (a un prezzo spesso ingiustificato se si dovesse tenere conto unicamente dello scopo funzionale della costruzione) si trasforma in profitto: raramente si visita il Guggenheim di Bilbao per guardare le opere d’arte che esso contiene, piuttosto lo si fa per compiere un’esperienza estetica collettiva. Prendendo in prestito la definizione di Thorstein Veblen, possiamo definire l’atto di visitare il Guggenheim un “consumo ostentativo”, ovvero un gesto compiuto per posizionarci all’interno di un determinato status sociale e culturale. Tuttavia, tale posizionamento, non è riconosciuto nel momento in cui l’opera è visitata, ma nel momento in cui l’esperienza viene condivisa e confermata da più persone.

Frank Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao
La Défense, Parigi

Nella società contemporanea, la condivisione dell’esperienza è permessa e promossa dalla fotografia 2.0 che alimenta, attraverso il circuito reale/virtuale la mediatizzazione dell’edificio, influenzandone forme e relazioni urbane. Nel Guggenheim di Bilbao, la “funzione museale” – l’essere un contenitore di oggetti – è dunque apparente, e, allo stesso tempo, necessaria, per giustificarne la costruzione e garantirne il relativo profitto. Attraverso il circuito di condivisione fotografica, l’estetica – la percezione esperienziale di uno spazio – è divenuta parte integrante della funzione, separando l’utilità dell’edificio dal suo principale ritorno economico. Essendo in assenza di consumatori impossibile generare profitto, maggiore risulterà, in tale contesto, la capacità di comunicare l’opera a un vasto pubblico, maggiore si realizzerà la possibilità di ottenere un guadagno più elevato.

Bisogna tuttavia ricordare che la tendenza dell’architettura a farsi icona non è certo una novità introdotta dai social. Da sempre gli edifici di grande importanza nascono come eccezioni rispetto a un tessuto urbano minore. Mete di pellegrinaggi e turismo, le architetture sono sempre state simboli di un potere culturale, politico, religioso. Tuttavia, se prima dell’avvento della fotografia ogni architettura si rapportava principalmente con il proprio contesto fisico, relazionandosi con la cultura della città in cui era costruita, oggi, attraverso il web 2.0, ha l’opportunità di essere virtualmente conosciuta da qualsiasi persona al mondo. Ampliandosi a dismisura la rete delle sue potenziali relazioni, si è notevolmente ridotta l’appartenenza formale al paesaggio urbano che la ospita: la sua eccezionalità, non deve più confrontarsi unicamente con le opere che le sorgono attorno, ma competere su scala globale, con le infinite architetture costruite nel pianeta. Il suo “divenir icona” non è più un’eventualità della sua storia, ma una condizione del presente. Perfino nei casi in cui l’architetto rifiuta gli strumenti della comunicazione di massa e continua a lavorare come se nulla fosse cambiato, la sua architettura sarà comunque assorbita all’interno del sistema di comunicazione 2.0, diventando, sempre e comunque, un’immagine potenziale.

Rem Koolhaas, Casa da Música, Portogallo
Porsche Design Museum, Stoccarda

Già nel 1967, nel saggio La società dello spettacolo, Guy Debord aveva esaminato il rapporto tra merce e rappresentazione, criticando la struttura mediatica del sistema capitalistico: “lo spettacolo è il capitale,” scrive Debord, “a un tale grado di accumulazione da divenire immagine, è l’altra faccia del denaro, l’equivalente generale astratto di tutte le merci”. L’attuale mediatizzazione dell’architettura è dunque il primo passo verso la sua mercificazione, un processo che vede ogni edificio trasfigurarsi in icona, e ogni icona in bene di consumo.

Questo fenomeno non coinvolge solamente i grandi musei o i principali monumenti delle nostre città, ma anche le architetture minori: negozi, bar, locali, abitazioni. Tra i settori che hanno individuato le potenzialità introdotte dalla fotografia 2.0, dobbiamo menzionare il mondo della moda che ha saputo, con grande efficienza, monetizzare in termini pubblicitari il binomio esperienza=condivisione, progettando, all’interno dei nuovi negozi, degli spazi esperienziali, dove il cliente è costantemente invitato a interagire con l’ambiente che lo circonda. Questi nuovi flagship store, che vedono la collaborazione dei più importanti architetti internazionali – come Rem Koolhaas per Prada, David Chipperfield per Valentino, Norman Foster per Apple – sono luoghi in cui l’estetica del prodotto tende a sovrapporsi a quella dell’edificio in un continuum tra design, spazio e rappresentazione: se l’oggetto che si vende è caratterizzato da leggerezza e trasparenza, anche l’ambiente evocherà le medesime sensazioni, unificando l’atmosfera dell’architettura al design del prodotto. L’utente che passeggia all’interno del negozio è invitato a fotografare e a ri-fotografarsi, diffondendo le immagini sui social, facendosi partecipe del meccanismo di auto-pubblicizzazione del brand e contribuendo alla crescita economica del marchio.

Rem Koolhaas, Rotterdam
Norman Foster, Sky Garden, Londra

Assistiamo, dunque, da un lato ad una iper-virtualizzazione del reale, dove ogni architettura è fotografata e rimessa in circolo nel sistema di comunicazione di massa, dall’altro a una materializzazione del virtuale, nel momento in cui le fotografie e le immagini influenzano il modo con cui ci relazioniamo e comportiamo all’interno dello spazio fisico. La fotografia è dunque passata dall’essere uno strumento subalterno – di rappresentazione e narrazione dell’edificio – a essere uno strumento determinante, capace, non solo di condizionare la percezione, le forme e i linguaggi, ma anche di influenzare le attività economiche a essa collegate, interconnettendo edificio e utente in un mercato d’interazioni globali.

Attraverso il sistema di comunicazione 2.0, la fotografia è diventata parte integrante dell’esperienza estetica, una nuova “forma simbolica” capace di alterare la fruizione e la produzione dell’architettura stessa. Anche se spegniamo lo smartphone e ci godiamo il paesaggio reale, l’influenza che la tecnologia esercita quotidianamente sulle nostre vite non cambierà. Nello stesso modo dobbiamo ricordarci che ogni architettura non è più esclusivamente un oggetto fisico con delle funzioni legate unicamente al suo utilizzo, ma anche un bene di consumo capace di generare una propria economia in base alla fotogenia delle sue forme. Il risultato è un edificio-icona, merce spendibile, come figurina, nell’immenso bazar delle immagini.

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