Attraversando l’Italia in treno se ne vedono a centinaia: l’Isola di Pasqua ha i Moai, noi abbiamo i palazzetti dello sport in calcestruzzo armato. L’Italia è il Paese delle grandi opere, secondo il Ministero dei Trasporti sono 647 in totale quelle che devono essere ancora completate. Tra proclami, promesse, fantasie e speculazione si possono tracciare i confini di un atlante che attraversa l’intera penisola. Eppure, nel calderone di progetti irrealizzati e irrealizzabili, esistono dei caratteri storici, estetici e costruttivi che accomunano questi “feticci esoterici”, disseminati principalmente nelle periferie italiane ma non solo, una serie di similitudini che sono i caratteri chiave di un vero e proprio stile architettonico, probabilmente il più prolifico nel nostro Paese, da cinquant’anni a questa parte.
Già nell’estate del 2006, il collettivo artistico Alterazioni Video (fondato a Milano nel 2004) aveva iniziato a fotografare, documentare e mappare queste “rovine contemporanee”, pubblicando un Manifesto, due anni dopo, dell’Incompiuto Siciliano, partendo dalla premessa che, pur trattandosi di un fenomeno nazionale, era proprio in Sicilia che questo “stile” raggiungeva la sua massima espressione. Una ricerca, quella del collettivo, poi concretizzata nel volume del 2018 Incompiuto: The Birth of a Style, in cui vengono identificate 696 strutture (stimandone però oltre 1.000). Un lavoro non indifferente, che a quanto pare non trova però corrispondenza con l’Anagrafe delle Opere pubbliche Incompiute di interesse nazionale – redatta congiuntamente dalle Regioni, alle Province autonome e al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – per cui tali opere sarebbero invece 647, molte delle quali, stando a un confronto incrociato tra i due “registri”, non corrispondenti. La realtà è che, al di là dei numeri e delle raccolte fotografiche, che pure sono indispensabili a identificare il problema (per i ragazzi di Alterazioni Video Incompiuto non è una denuncia, ma un semplice tributo all’immanenza di tali opere) e averne coscienza, basta guardarsi intorno per rendersi conto di come questo fenomeno sia esteso. Il paesaggio della periferia italiana è un cantiere aperto continuo, un’immagine cristallizzata del Bel Paese degli anni Sessanta, l’Italia del Piano Marshall che era stata il vero “motore” di questo stile.
Sono gli anni della speculazione edilizia, de Le mani sulla città di Francesco Rosi, uno dei più celebri film di denuncia e impegno civile di quegli anni nei confronti del fenomeno. I privati acquistano terreni a uso agricolo e fanno in modo che vengano convertiti a uso residenziale dalle amministrazioni comunali, il più delle volte colluse e complici. L’Italia, priva di una legge urbanistica degna di essere definita tale, dà il suo tacito e colpevole consenso alla nascita di queste cattedrali nel deserto. Inutile dire che gli anni a seguire furono ugualmente responsabili di questa involuzione del paesaggio italiano, la cui realizzazione era finanziata principalmente tramite fondi della Comunità economica europea, e il cui scopo era quello di attivare le economie locali, dimenticando il più delle volte le necessità delle comunità che abitavano quei luoghi, nell’ottica di stravolgerli e rivoluzionarli, tra strette di mano, inaugurazioni fantasma e promesse non mantenute, morte annunciata di un Paese incapace di accettare le proprie qualità. Anche quando poi le normative vennero fatte, molte di queste costruzioni rimasero incompiute, sospese nel tempo, a metà tra la pioneristica idea di innovazione, lasciata in carico a queste opere, e la triste realtà della loro mancata realizzazione. Il frutto di quello che fu un vero e proprio fenomeno sociale è un ammasso di manufatti edilizi in calcestruzzo, ed è proprio questa la premessa per la quale l’Incompiuto non è una semplice provocazione, e ha ragione di essere definito un vero e proprio stile, nonostante l’apparente paradosso.
Lo stile è un insieme di caratteristiche che identificano la tendenza artistica di un’epoca o di un autore, esattamente come l’Incompiuto italiano definisce (per numero ed estensione territoriale) la produzione architettonica del nostro Paese dal dopoguerra a oggi. L’insieme delle caratteristiche che lo identificano sono palesi, a partire dal materiale di costruzione: l’utilizzo del calcestruzzo armato come strumento d’elezione dell’edilizia popolare e populista – dato che molte di queste opere sono vere e proprie testimonianze tangibili di promesse politiche non realizzate – scelto dalle ditte appaltatrici per il suo basso costo di realizzazione (ottenuto da scarti di produzione siderurgica con sabbia, ghiaia, acqua e un po’ di acciaio tendenzialmente di scarsa qualità) e la facilità della sua messa in opera. Meno frequentemente si utilizzano mattoni in laterizio, incassati comunque in telai di cemento armato, divenuti un vero e proprio carattere estetico dell’edilizia residenziale, prima ancora che costruttivo. All’utilizzo di questi materiali poveri, ma relativamente duraturi oltre che versatili, è dovuto il definirsi del secondo punto chiave dell’Incompiuto come stile architettonico: la megastruttura. Dighe, palestre, case popolari, viadotti, centri polifunzionali, o anche semplicemente strade sopraelevate, oggetti del desiderio di strafare, del pensare in grande per promuovere lo sviluppo, segno distintivo di queste architetture isolate, che si elevano verso l’alto – sono tristemente imponenti, perché contengono la speranza di elevare la provincia a polo funzionale, solo per poi voltare le spalle a tale proposito, lasciando spazio alle piante infestanti o alle erbe spontanee: tratto estetico di congiunzione tra le varie strutture e in un certo modo di tutte le rovine. Queste ultime sono il segno distintivo del terzo e ultimo carattere dell’Incompiuto, ovvero la stretta relazione di queste opere con il cosiddetto “terzo paesaggio”, rappresentato da quei luoghi in cui l’assenza dell’attività umana ha generato un rifugio per la conservazione della diversità biologica. Una definizione introdotta dal paesaggista francese Gilles Clément per indicare i luoghi abbandonati dall’uomo, su cui la sua traccia è tangibile, ma che sono stati poi lasciati a se stessi, divenendo però, nella sua prospettiva, luoghi privilegiati del cambiamento ecologico.
Volendo stare al suo pensiero, non dovremmo né distruggere né completare queste opere, ma fare semplicemente in modo che vengano riconosciute come elementi di land art, un intervento artistico sul territorio naturale a opera di autori ignari e ignoti, il cui motivo d’essere sta nel suo stesso significato estetico, monito alla mediocrità di un passato neanche troppo remoto. Il concetto espresso da Gilles Clément, per il quale l’uomo dovrebbe essere “complice” di questa battaglia svolta dalla natura, nel suo tentativo di riappropriarsi dei territori intaccati dall’uomo è sicuramente interessante, ma si tratta di un’immagine romantica e per certi aspetti provocatoria, che non tiene in considerazione il presente delle realtà in cui il terzo paesaggio si è andato effettivamente a instaurare. L’Italia dell’Incompiuto ha bisogno che queste opere siano più di semplici monumenti alla corruzione, al mal governo delle amministrazioni, all’avidità dei costruttori e alla ristrettezza di vedute e all’egoismo dei privati: almeno una parte di quelle strutture ha il diritto di essere ridistribuita alle comunità per le quali è stata pensata, o semplicemente di liberare il territorio da tale giogo estetico, passando per la demolizione.
Ovviamente queste operazioni hanno un costo e delle tempistiche non indifferenti, ma lasciare in sospeso queste strutture, o peggio, pensare di dar loro un senso artistico, premette una controproducente accettazione del brutto ed espone costantemente al brutto la sensibilità di chi ci vive e cresce intorno, aprendo riflessioni che potrebbero muoversi in parallelo ad esempio a quelle delle banlieu. Il rischio, in questo processo di mitizzazione dei ruderi da parte di accademici, critici e intellettuali, mi sembra simile a quello che si è visto fare per la Castel Volturno di Dogman, il film di Matteo Garrone del 2018 che aveva inquadrato in modo estremamente lucido la realtà della periferia campana, senza però riuscire nel suo ruolo di denuncia: quelle immagini sono rimaste la scenografia triste di un luogo fisico non meglio identificato dove le cose vanno male ed è impossibile cambiarle. Questo processo mentale è lo stesso per il quale dovremmo accettare che tali opere rimangano monumenti all’abbandono, set cinematografici di un futuro distopico, nei confronti del quale, irrimediabilmente, ci abbandoniamo. Ma questo è un meccanismo rischioso, magari filosoficamente necessario, ma di cui forse non ci dovremmo accontentare.
L’Incompiuto italiano non è né un feticcio da idolatrare, né un problema da ignorare, è una questione che ci appartiene, e definirne i tratti stilistici, mettendo in luce la sua importanza negli ultimi decenni rispetto alla nostra produzione architettonica, potrebbe essere il primo passo per affrontare questo fenomeno. Non esiste uno stile architettonico in Italia che abbia mutato tanto radicalmente il nostro paesaggio negli ultimi decenni come l’Incompiuto, esso è, che ci piaccia o meno, il segno distintivo della nostra contemporaneità. Il nostro bagaglio culturale e artistico ci impone di prendere una netta posizione nei confronti di questo fenomeno, demonizzarlo, una volta per tutte, se necessario anche accettando di riconoscere i propri sbagli nell’aver permesso che corruzione e speculazione prendessero il posto della nostra tradizione artistica, dando modo a questi antagonisti del bello di decidere dell’unica cosa che non avremmo mai pensato potesse esserci negata in un paese come l’Italia: il nostro paesaggio.
Qui si pone il problema cardine, la vera genesi dell’Incompiuto: l’accettazione. Il popolo italiano ha accettato questo stile come tale, e si è abituato alla sua presenza nel panorama urbano della sua realtà territoriale – quello stesso elemento che in altri luoghi è un’anomalia momentanea, in Italia – così come in altri Paesi – è diventato parte integrante del vivere di ogni giorno, un’architettura ostile che abbassa lo standard di tutte le altre. L’Incompiuto, quindi, è prima di tutto un fenomeno sociale, prima ancora che architettonico, e parte dalla rassegnazione dell’italiano nei confronti del brutto, fuori dalle vetrine artistiche dei centri storici e delle grandi città (ma a volte neanche questi se la sono scampata) qualsiasi cosa è concessa, qualsiasi sopruso è accettato.
Far finta di niente è il modo più facile per fare in modo che qualcuno ne approfitti, se ci assumessimo la responsabilità di far cambiare le cose, le nostre periferie potrebbero riacquistare quella dignità che meritano, una consapevolezza urbanistica e paesaggistica. Siamo tutti responsabili di questo cambiamento, basta smetterla di accettare il brutto come fenomeno spontaneo e iniziare a difendere il nostro territorio, dato che è tutto quello che abbiamo.