Nonostante nel 2015 le architette fossero il 42% del totale, con un aumento del 10% rispetto al 1998, in Italia il salario percepito dalle donne resta in media il 57% inferiore rispetto a quello dei loro colleghi. Ma se oggi la condizione lavorativa delle donne è difficile, negli anni Cinquanta era disastrosa, aggravata inoltre dalla convinzione progressivamente abbandonata nel corso del tempo che l’architettura fosse un’arte nobile riservata ai soli uomini. Negli Stati Uniti, ad esempio, fino al 1972 la maggior parte delle facoltà di architettura si rifiutavano di accettare donne ai loro corsi di studio, e per avere la prima donna vincitrice del Premio Pritzker – spesso citato come il Premio Nobel per l’Architettura – bisognerà aspettare venticinque anni dalla sua istituzione nel 1979, ovvero il 2004, quando venne attribuito a Zaha Hadid. Nonostante questo, però, Gae Aulenti riuscì ad affermarsi come uno dei più grandi nomi dell’architettura del dopoguerra – grazie al suo talento, al suo coraggio e alla sua indipendenza che le permisero di portare avanti il suo lavoro in autonomia.
Nata nel 1927 a Palazzolo Dello Stella, in provincia di Udine, da una famiglia di origini meridionali, Gaetana Aulenti, in arte Gae, si trasferì poi a Milano a studiare Architettura. Qui ottenne l’abilitazione professionale nel 1953 e dal 1955 iniziò a lavorare come redattrice della rivista Casabella-Continuità sotto il direttore Ernesto Nathan Rogers, architetto e professore di cui divenne assistente presso il Politecnico di Milano nel 1964. Dal 1960 al 1962 fu anche assistente di Giuseppe Samonà all’Università di Venezia, protagonista dell’architettura italiana di quegli anni. Oltre all’attività di redattrice che portò avanti fino al 1965, Gae iniziò a dedicarsi al design, diventando celebre per la lampada Pipistrello, realizzata nel 1965 per lo showroom di Olivetti. E nel corso della sua carriera diventò architetto personale di Gianni Agnelli. Nel 1980 le venne affidato l’incarico prestigioso del restauro e dell’allestimento del Museo Orsay, a Parigi. Il suo lavoro le fu riconosciuto a livello nazionale – con la medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 1994 e la nomina a cavaliere di gran croce della Repubblica italiana nel 1996 – e internazionale: nel 1991 ricevette il premio Imperiale, un premio giapponese consegnato annualmente alle personalità più influenti dell’arte e dell’architettura di tutto il mondo. A riconoscimento del suo lascito, la città Milano le ha dedicato la piazza al centro del complesso della Unicredit Tower, a due mesi dalla sua morte, avvenuta nel 2012.
Aulenti si distingueva per il suo personale stile architettonico, ben sintetizzato dagli allestimenti di Palazzo Grassi a Venezia, nel Museo nazionale di arte catalana a Barcellona, nell’Istituto di cultura italiano a Tokyo e nella ristrutturazione delle Scuderie del Quirinale a Roma, o dell’aeroporto di Perugia. Insieme ad architetti come Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti e Aldo Rossi pose al centro della progettazione gli spazi e il contesto in cui le opere venivano realizzate, in una stretta interconnessione con l’ambiente urbano pre-esistente. L’approccio di Aulenti e degli altri architetti della “scuola di Rogers” al paesaggio urbano fu poi ripreso anche da Franco Purini – tra i più attivi progettisti del panorama italiano dagli anni Settanta in poi – insieme al quale Aulenti, nel 1997, vinse il concorso per la ricostruzione della Fenice, a Venezia.
Cresciuta professionalmente nella Milano razionalista degli anni Cinquanta, Aulenti, si confrontò con il lascito dello stile architettonico fascista e della sua mentalità, che condannava tutte le pratiche sociali connesse all’emancipazione femminile e che promuoveva una poetica machista, marziale e priva di fronzoli. Gae decise così di esprimere la sua opposizione a questa insensibilità verso tutto ciò che veniva considerato negativamente “femminile”attraverso il Neoliberty, una corrente nata in contrapposizione al al razionalismo da cui prendeva le mosse la cosiddetta architettura organica, proposta in Italia da Bruno Zevi. Il Neoliberty era una una tendenza revivalista che tentava di ritrovare una continuità con la tradizione dello stile liberty, a una sorta di rilettura dell’Art Nouveau, che ne riprendeva le decorazioni e il gusto per l’ornamento e per il suo ruolo semplicemente estetico, in contrasto con le idee dei razionalisti che avevano fatto scuola, mettendo in risalto la semplicità delle forme geometriche, e un netto rifiuto per tutto ciò che non era “indispensabile”. Quella di appoggiare e perseguire, nonostante il rifiuto della critica del tempo, uno stile controtendenza, aspramente criticato si trattava di una scelta sicuramente forte e rappresentativa, quasi un’aperta dichiarazione di guerra al pensiero dominante, che infatti diventerà il suo marchio inconfondibile.
Se da una parte la riqualificazione della Gare D’Orsay e l’allestimento realizzato del Museo di Arte Moderna all’interno del Centre Pompidou negli anni Ottanta, le valsero riconoscimenti internazionali per il suo lavoro, questi lavori attirarono puntualmente le attenzioni negative della critica: sul Musée d’Orsay, in particolare, venne detto che sembrava una “tomba”, o una “prigione”, o ancora che l’installazione era “fascista”, sotto alcuni punti di vista. Alcune delle motivazioni dietro a queste critiche spietate, però, affondavano le loro radici nell’impossibilità di catalogarla all’interno dei caratteri prestabiliti di uno stile architettonico definito e quindi nella loro sistematica incomprensione e condanna di qualcosa che stentavano effettivamente a comprendere, diventando una sorta di punizione paternalista. Nonostante questo, Gae Aulenti proseguì con sicurezza nel suo lavoro di ricerca, marchiando sempre le proprie opere con quello spirito di “elegante indifferenza” e di bellezza oltre il giudizio critico che le avrebbero permesso, negli anni a seguire, di diventare una delle icone dell’architettura contemporanea. Nonostante la breve durata della corrente Neoliberty, Aulenti vi rimase fedele per gran parte della sua carriera, traducendone il gusto, le caratteristiche e le forme in maniera personale e portandole anche negli oggetti di uso quotidiano. Se questo stile non trovò grande successo in architettura, infatti, si rifece largamente nel design industriale, dove le intuizioni di Aulenti divennero celebri in tutto il mondo: basti pensare al Tavolo su Ruote, un tavolino da salotto realizzato per Fontana Arte.
Il lavoro di Gae Aulenti, oltre che all’indiscusso valore progettuale, ha oggi ancora un valore sociale e mediatico. La sua capacità di andare contro il “formalmente costituito” contribuì a dare un’identità alle lotte per l’emancipazione di genere: se le donne in Italia volevano essere ascoltate, dovevano farlo ribellandosi alla ruolo che la società aveva assegnato loro fino a quel momento, assumendosi i rischi e le responsabilità che una scelta di rottura del genere comportava. Parlando del problema della carenza di donne celebri riconosciute all’interno dell’ambito architettonico, non solo italiano ma internazionale, Aulenti aveva infatti detto, rivolgendosi alle colleghe: “Ci sono un sacco di altre donne architetto di talento, ma la maggior parte di loro preferisce lavorare con gli uomini. Ho sempre lavorato per me stessa, e questo mi ha insegnato molto. Le donne in architettura non devono pensare di essere una minoranza, perché nel momento in cui lo fai, vieni paralizzato da questo pensiero”.
L’ascesa di Aulenti a figura chiave dell’architettura italiana impose all’opinione pubblica la necessità di riconoscere il lavoro individuale di un professionista, indipendentemente dal suo genere. E se questa professionista è stata una delle poche vincitrici della battaglia per il riconoscimento del contributo femminile in architettura, in realtà ci sono state molte altre figure di talento: Lina Bo Bardi, Benedetta Tagliabue e Cini Boeri, sono solo alcune delle donne che hanno lottato per il riconoscimento del loro lavoro, talvolta riuscendovi solo parzialmente, come nel caso di Lina Bo Bardi, che dovette trasferirsi in Brasile per trovare l’ambiente adatto alla sua visione creativa, sintetizzata nel Museo di arte di San Paolo, divenuto poi uno dei simboli della stessa città.
In architettura – così come in molti altri ambiti – l’intelligenza delle donne ha permesso, quando è stata lasciata libera di esprimersi, la sperimentazione di nuove forme e modalità di produzione, rappresentazione e ricerca. Una ricchezza che sarebbe andata perduta se alcune di loro, come Aulenti, non si fossero battute con impegno e costanza per imporre la propria visione necessariamente coraggiosa, che ancora oggi troppo spesso viene ostacolata, svilita e messa a tacere attraverso atteggiamenti che minano giorno dopo giorno l’autorità delle donne non solo all’interno degli ambiti professionali ma in tutti gli aspetti della loro vita sociale, fino a inibirle e a modificarne il comportamento.
La capacità di ignorare le critiche e di scavalcare gli ostacoli di una società che cercava di bloccare in tutti i modi la carriera delle donne, e di procedere con convinzione per la sua strada, permise ad Aulenti di diventare protagonista indiscussa dell’architettura contemporanea, sfidando le convinzioni che sostenevano – e a tratti sostengono ancora – il pensiero comune e facendola diventare un modello per tutte le donne che vogliono liberarsi dai limiti che ancora oggi, seppur in maniera meno esplicita e interiorizzata, pone ancora il sistema.