Il 15 aprile i bambini danesi sono tornati a scuola e sono stati i primi piccoli studenti europei a riprendere possesso dei loro luoghi e del loro diritto alla condivisione dello studio. Anche tutti gli altri Paesi si stanno muovendo, con calendari e modalità differenti, predisponendo le regole per la sicurezza sanitaria. L’Italia, unica in Europa, non ha neppure preso in considerazione l’idea della riapertura prima di settembre.
Il Decreto Rilancio, che ha destinato alla scuola quasi un miliardo e mezzo di euro, prevede investimenti per la stabilizzazione dei precari e aumenta di 331 milioni il fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche, e per quanto riguarda l’edilizia scolastica mette in campo misure per consentire agli enti locali proprietari degli immobili di operare velocemente, eliminando passaggi burocratici. Cerca cioè di mettere insieme soluzioni di emergenza, che rischiano di diventare permanenti, per contenere un’emergenza temporanea come quella da COVID. Il problema meriterebbe sicuramente di essere affrontato in maniera più radicale. Andrea Gavosti, in un recente articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, evidenzia una serie di criticità, quali per esempio la dimensione delle aule – in media 50 metri quadrati – l’accesso agli edifici, i percorsi nei corridoi, sulle scale e nella mensa che non consentono il distanziamento raccomandato dalle indicazioni sanitarie, se non riducendo la densità di studenti, cioè turnando o diminuendo il numero di allievi per classe.
La priorità sembra essere, unicamente, quella di tenere ragazzi e bambini a distanza e di fargli lavare le mani. Non emergono riflessioni specifiche sui luoghi e gli spazi fisici, fondamentali soprattutto nello stato attuale di stress sanitario che ha imposto la distorsione della socializzazione, per molti mesi affidata esclusivamente al digitale. Come ha affermato il medico e psicoterapeuta Alberto Pellai, ricercatore all’Università degli Studi di Milano, la quarantena prolungata e la mancanza di relazioni sociali dirette possono provocare in bambini e adolescenti ansia, preoccupazione, insonnia, inappetenza, apatia e tristezza. Non si tratta di inventare nulla di nuovo, non è necessaria una task force creata ad hoc per studiare come progettare una scuola. Il Decreto ministeriale dell’aprile del 2013 aveva già stabilito le Linee Guida Miur per “garantire edifici scolastici sicuri, sostenibili, accoglienti e adeguati alle più recenti concezioni della didattica”, rinnovando i criteri per la progettazione dello spazio e delle dotazioni per la scuola del nuovo millennio. Ciononostante non sappiamo come far rientrare a scuola i cittadini-studenti in modo sicuro, privandoli così di un diritto fondamentale.
Lo spazio fisico nella scuola è parte integrante di un’educazione democratica che intende offrire a tutti le medesime opportunità. La capacità progettuale di conciliare architettura e didattica genera luoghi da abitare più che perimetri spaziali per l’apprendimento. La scuola ospita, per vocazione, la mutazione sociale ed è il confronto con l’evoluzione generazionale che crea l’esigenza di aggiornare gli spazi fisici, proprio per garantire lo sviluppo della persona. Riflessione, apprendimento, relazione, gioco, aspirazioni: cinque parole che descrivono un sistema, quello della scuola, pensato per persone reali e non per fruitori anonimi e che, dunque, ha bisogno di luoghi progettati – o ristrutturati – in maniera coerente a questa visione stratificata. L’edificio scolastico, interpretato come spazio attivo di educazione è competenza dell’architettura, ma anche della pedagogia e della didattica. È dal confronto tra le discipline che si delinea un’idea di scuola sincronizzata all’evoluzione sociale.
L’aggiornamento del modello progettuale scolastico si deve confrontare con i numeri: secondo il Miur sono più di 40mila le sedi scolastiche statali alle quali si aggiungono circa 12mila paritarie censite al 2018. Secondo il “Rapporto sull’edilizia scolastica” della Fondazione Agnelli, l’età media delle strutture è di circa cinquant’anni ed è, quindi, legata a schemi progettuali che rispondevano a modelli didattici ed educativi di parecchi decenni fa, ormai superati. E se è vero che negli ultimi anni è stata dedicata grande attenzione all’efficienza energetica e quasi il 60% delle scuole ha adottato soluzioni per il risparmio energetico, non si può dire altrettanto per il ripensamento dei layout distributivi. Persa l’occasione di mettere in campo interventi coordinati che integrassero efficientamento energetico, sicurezza antisismica e, in parallelo, aggiornamento architettonico, sarebbe auspicabile che almeno l’epidemia di SARS-CoV-2 attivasse una revisione del modello di scuola, che entri tra le altre cose in relazione con l’intorno urbano.
Da progettista penso che i punti fondamentali per il progetto della scuola (non solo) post pandemia siano tre: il luogo ideale dell’educazione dovrebbe essere un edificio cellulare (non un singolo edificio) con aree organizzate per diverse funzioni, con un intorno colonizzato – piste ciclabili, spazi dedicati se ci sono parchi pubblici di prossimità – e filtri verdi ad assolvere a funzioni di rapporto con la città nei diversi momenti della giornata.
Storicamente, le prime riflessioni su una scuola inclusiva e aperta sono basate sulla corrente pedagogica dell’attivismo e risalgono agli inizi del secolo scorso. Si trattava di un metodo educativo che riconosceva il ruolo centrale del bambino, attribuendo pari importanza alle diverse attitudini, agli interessi e alle motivazioni personali, sviluppando formule di apprendimento a partire dalla realtà che circondava l’allievo e incentivando la socializzazione. Il movimento delle Scuole Nuove fu creato alla fine dell’Ottocento dal pedagogista inglese Cecil Reddie , che fondò la prima scuola nuova nel Derbyshire, in parallelo, ispirandosi agli stessi principi vennero fondate altre realtà simili Stati Uniti da John Dewey , e in Italia da Maria Montessori e dalle sorelle Agazzi.
Sul modello pedagogico dell’attivismo a Milano, nel 1922, venne inaugurata La Casa del Sole (ancora esistente), nel parco Trotter. I padiglioni nel verde erano l’edificio scolastico “diffuso” che consentiva ai bambini di stabilire un rapporto diretto con l’ambiente e l’intorno. La sperimentazione proseguì fino agli anni Settanta ma, anche nel periodo successivo, conservò lo spirito innovativo con il quale era nata, riferendosi al concetto di scuola-laboratorio di Bruno Munari e sviluppando, per prima, l’integrazione interculturale.
Lontano dal voler essere una riproduzione acritica del modello nordeuropeo delle scuole all’aperto – la Danimarca, per esempio, conta 700 “scuole nella foresta”, con un clima decisamente più severo del nostro – e facendo riferimento a studi che dimostrano come il contatto con la natura renda i bambini meno inclini a contrarre malattie, più socievoli e dotati di maggiore capacità di concentrazione, oggi, l’obiettivo è che la nuova scuola sia un ecosistema composto da spazi di relazione, grandi corti e luoghi aperti anche per la didattica e non solo per l’intervallo. Nelle aree verdi si possono disegnare padiglioni semi-coperti o con protezioni rimovibili a seconda delle stagioni e dell’attività, piccoli spazi attrezzati per laboratori, ma anche per lavori di gruppo, e come spazi riservati per gli insegnanti, dunque multifunzione.
L’esigenza di adeguare gli spazi dell’educazione alle esigenze delle nuove generazioni in modo coerente all’evoluzione complessiva del contesto urbano ha messo in campo, negli anni passati, iniziative che confermano come il problema dell’architettura scolastica non sia solo legato alle necessità post pandemiche. A Torino il progetto “Torino fa scuola”, finanziato per 11 milioni di euro dalla Fondazione Agnelli e dalla Compagnia di San Paolo con Fondazione per la Scuola e Città di Torino, ha interessato due scuole medie ripensate in funzione della nuova didattica (uso della tecnologia, laboratori, lavoro di gruppo, personalizzazione dei percorsi) e dell’inclusione del quartiere negli edifici, nonostante i vincoli delle strutture esistenti, inaugurate ad agosto 2019. Quattro anni fa, nel 2016, L’Ordine degli architetti di Milano aveva, invece, avviato l’ambizioso concorso #ScuoleInnovative, attraverso un bando internazionale per acquisire idee progettuali per la costruzione di 52 scuole sul territorio italiano. Inail (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) aveva messo a disposizione un fondo di 350 milioni di euro e la garanzia a realizzare le scuole, ma gli esiti concreti, nonostante il concorso avesse proclamato dei vincitori e prodotto un testo di sintesi, sono stati deludenti, non sotto il profilo progettuale, ma per l’assenza di una seria volontà politica che sostenesse le fasi di avanzamento del percorso concorsuale. A queste iniziative virtuose va ad affiancarsi anche la realizzazione di opere significative, orientate a criteri innovativi, quali, per esempio, la scuola per l’infanzia di Guastalla (Reggio Emilia) “La Balena”, progetto di MCA architects; la scuola dell’infanzia, primaria e asilo nido, a Cernusco sul Naviglio, nei pressi di Milano, firmata da Consalez Rossi; il polo per l’infanzia composto da asilo nido, scuola per l’infanzia e centro famiglia, a Bolzano, di MoDus Architects Attia-Scagnol e, sempre a Bolzano, la scuola provinciale professionale Hannah Arendt di Cl&aa Claudio Lucchin & Architetti Associati; la scuola elementare Romanina di Herman Hertzberger e Mario Scarpinato, a Roma..
Nel mio percorso professionale ho realizzato scuole in Italia e in Francia, scegliendo come chiave di sviluppo delle architetture la generosità degli spazi, non solo per quanto riguarda la loro dimensione, ma soprattutto rispetto alla capacità di trasformarsi secondo i diversi usi possibili: da piazze, a cortili di gioco, a luoghi che accolgono eventi e momenti per la comunità, ponendosi come affaccio di tutte le attività della scuola. Questi ambienti sono caratterizzati da parametri progettuali che li rendono compatibili a diversi sviluppi e danno la capacità di accogliere il futuro. Penso sia importante che la progettazione – in particolare quella degli edifici scolastici – porti con sé responsabilità e visione, rapporto con il tempo e senso di appartenenza, che costruisca una dimensione reale che però ospiti sempre l’immaginazione delle persone che la vivranno. Le scuole sono ambienti fondamentali per la formazione degli individui e i loro spazi influenzano profondamente la loro vita e la loro percezione. Anche per questo vanno pensati con estrema cura.
In altri Paesi questo è chiaro da tempo. Per la Francia, ad esempio, l’istruzione è una priorità politica e sociale, gli investimenti e l’attenzione all’architettura scolastica si rivelano nei progetti all’avanguardia come per esempio la scuola dello studio francese Chartier-Dalix architectes che è diventata un polo di inclusione della comunità e un modello di sensibilità sul tema della biodiversità come momento costruttivo e formativo. Quello che deve essere chiaro è che fare edifici con grandi giardini non è il nuovo paradigma progettuale e non è la soluzione a tutti i problemi, può esserlo in alcuni casi, ma non sempre, e non sempre è possibile. La cosa più importante è creare relazione tra la scuola e il quartiere, attraverso posizioni e percorsi protetti che consentano un’interazione tra gli studenti e i luoghi limitrofi, questa è la sfida da affrontare e il vero traguardo da raggiungere. Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel libro Sfere / Schiume volume 3 afferma “La costruzione di isole è l’inverso dell’habitat non si tratta più di collocare un edificio dentro l’ambiente, ma di installare, creare, realizzare un ambiente nell’edificio” e questa è probabilmente la miglior rappresentazione concettuale della scuola post COVID.