Abbiamo speso milioni per convertire la Darsena in una location per brand
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Se vi dovessero chiedere di pensare a un grande progetto della Nuova Magnifica Milano del 2017 cosa vi verrebbe in mente? Le piramidi di vetro della Fondazione Feltrinelli di Herzog & De Meuron a Porta Volta? Bravi. Un altro? OMA, Rem Koolhaas: Fondazione Prada? Prevedibile. Vi propongo un nome che invece dovreste tutti conoscere: Jean François Bodin. Nulla? Niente paura. Vi do un altro indizio: spazio pubblico. Ancora niente? No. Non preoccupatevi se non avete indovinato, non siete affetti da demenza senile precoce e la fonte di luce che nutre il vostro prana non si è oscurata per sempre, è molto più semplice: a differenza degli altri colleghi più illustri, Bodin non ha lasciato il segno in questa città. Eppure ha realizzato uno tra gli spazi apparentemente di maggior successo degli ultimi anni: la Darsena, vero e proprio porto milanese, ancora in funzione alla fine degli anni ’80.

Vi ricordate com’era, prima dello street food etnico ed equosolidale, prima delle ragazze con i pantaloni a palazzo sedute sui bordi? Una lunga distesa di spazzatura, topi e vegetazione incontrollata. Sembrava una di quelle discariche in cui i mafiosi dei film di Scorsese gettano i cadaveri, o la Roma di Virginia Raggi.

Dopo quasi vent’anni, nel 2004, la giunta Albertini bandisce un concorso per riqualificare l’area. Un’idea all’apparenza brillante che ovviamente nasconde il vero intento: creare un parcheggio interrato multipiano. Il progetto si arena grazie a comitati di quartiere, ricorsi e problemi tecnici insormontabili, e nel 2009 la giunta Moratti abbandona definitivamente l’idea del parcheggio. I cittadini vincono la loro battaglia. L’impresa appaltatrice prepara il suo ricorso dopo anni di lavori fermi e soldi buttati.

Il progetto prende finalmente forma grazie a Expo 2015, ai finanziamenti che piovono sulla città e alle decisioni politiche volte a ridare lustro a Milano. Perché “Milan l’è un gran Milan”, non vorremmo che qualcuno se lo dimenticasse. È vero che nel quinquennio precedente a Expo si respira un’aria nuova: la città si mette in moto, eccitata, drogata per la prima volta da un ottimismo frenetico e non dalla coca. Tutti allineati: la nuova amministrazione Pisapia sblocca cantieri e termina quello che gli altri avevano iniziato e mai finito, l’incompiuto italiano che bene conosciamo. In fondo, Milano si prepara a ospitare l’evento più significativo dopo i mondiali d’Italia ’90.

Due anni e mezzo di cantiere, 20 milioni investiti in progetti, l’inaugurazione ufficiale della Darsena arriva puntuale, a cinque giorni dall’apertura dei cancelli di Expo. L’euforia dei giochi, la moltitudine di persone e turisti, i pupazzoni steroidei di gomma piuma e i gadget esotici Made in China, nascondono le lacune di un progetto di spazio urbano vecchio, poco interessante e ostile a possibili cambiamenti, per non parlare di evoluzioni. Una distesa rossa di mattoni, un muro di cinta neo-medievale che separa la “circonvalla” dalla zona pedonale, uno spazio statico, muto, che trova il suo unico punto di forza nel contatto con l’acqua – ma quello non è merito del progettista.

Il mercato comunale adiacente a Porta Ticinese è stato decantato, per ragioni di cassetto, da molti politici locali come esempio di progetto di elevata qualità architettonica dal respiro internazionale – frase fatta ormai buona soltanto per le cartelle stampa e per ingraziarsi i docenti dei corsi di storia dell’architettura contemporanea. Infatti, poco tempo dopo l’inaugurazione inizia già a subire il segno del tempo (e purtroppo ci vorrà molto perché si meriti l’etichetta di rovina). Forse perché è nato vecchio, forse perché non tiene conto della possibilità e della diversità d’uso degli spazi, forse perché affida tutto all’immaginazione dei passanti, restando di per sé uno spazio rigido e vuoto, una piazza d’armi.

Nel 2012 a Copenhagen viene inaugurato un parco urbano per dimensioni non molto diverso dalla Darsena, progettato dalla studio danese Big e dai paesaggisti tedeschi Topotek. La piazza – o parco, come viene definito dai progettisti – si snoda per circa 700 metri ed è una versione contemporanea di spazio pubblico pensato non soltanto come transito pedonale, o luogo di sosta tappezzato di panchine, ma come piattaforma aperta a diversi usi ed esigenze. La riqualificazione non avviene tramite una semplice sostituzione di materiali, o dalla chiusura al traffico, ma attraverso dispositivi che si snodano lungo tutto il percorso come episodi puntuali, parte di una storia più articolata e avvincente. Superkilen – questo il nome del parco-piazza, che ricorda una linea di proteine in polvere e steroidi promossa dai campioni di Mr. Olympia – è stato disegnato per ispirare chi lo vive, per essere parte attiva del quartiere. Salti di quota, colline artificiali e tanto colore – che in Italia continua a terrorizzarci, chissà per colpa di quale strano retaggio del dopoguerra.

Lo spazio pubblico dovrebbe essere in grado di interagire con chi lo attraversa, di accogliere, facilitare, sostenere e incoraggiare nuovi modi d’interazione. La Darsena, invece, è una piattaforma che non consente cambiamenti, realizzata per permettere esclusivamente attività “previste”, il cui unico punto di forza è di essere sgombra. Paradossalmente, le poco distanti e vetuste Colonne di San Lorenzo offrono possibilità molto più interessanti di quelle millantate da questo Grande Progetto Contemporaneo. Il fatto è che a Milano, a differenza di Roma, non ci si parla in pubblico tra sconosciuti, e giustamente neanche gli spazi lo fanno.

Qualcuno potrebbe obiettare che questo progetto ha il grande pregio di poter ospitare qualsiasi cosa, essendo uno spazio vuoto. E siamo d’accordo che “Less is more”, ma forse un progetto dovrebbe essere almeno qualcosa. Una piazza d’armi, teoricamente, è il grado massimo di flessibilità e allo stesso tempo il grado minimo dell’architettura. La Darsena manca di significante, cioè di forma che rimanda al contenuto. È un contenitore che accoglie in maniera epilettica eventi autoreferenziali, che non interagiscono con lo spazio che li accoglie. Il risultato è un bazar senza identità.

Ma allora perché ha così tanto successo? La risposta sta nella mancanza di spazi pubblici importanti in città. Se guardiamo la mappa di Milano troviamo centinaia di piazze, ma la maggior parte di esse, escluso Duomo e d’intorni, sono grossi svincoli stradali: Loreto, Baiamonti, Lagosta, Piola, Lambrate, Medaglie d’oro, etc. Per questo la Darsena ha successo, perché come in preda ad allucinazioni nel deserto, quella spianata di mattoni tutti uguali è un miraggio per ogni cittadino alla ricerca di un luogo abbastanza grande dove poter camminare senza essere ossessionato dalle macchine e dalla gente che come lui vuole divertirsi, o fare shopping, o bere. La Darsena, come Piazza Gae Aulenti (sempre a Milano), deve il suo successo, in termini di numero di visitatori, all’essere una specie in estinzione. Questi spazi amorfi vincono perché non hanno concorrenza e perché dopati da fattori esterni che ne migliorano senza dubbio le performance. E vincono facile, perché non hanno concorrenti. Nulla di più.

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