Per tanti il concetto di social housing di cui ogni tanto si sente parlare non è molto chiaro e spesso rischia di sembrare semplicemente un termine inglese per indicare in maniera elegante e un po’ snob le case popolari. Definirlo in modo univoco in effetti è difficile. Si tratta di una pratica dell’abitare che ha a che vedere non solo con l’edificio, ma che comprende anche una serie di progetti d’inclusione degli inquilini atti a formare una comunità autogestita basata su servizi di vario genere. L’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), in via del tutto teorica, dovrebbe rappresentare una sottocategoria specifica del social housing, rivolta esclusivamente a una fascia di persone meno abbienti. Purtroppo, però, almeno in Italia, non è così. È inutile far finta che il fantastico mondo del social housing, con i suoi rari interventi calibrati, con i suoi Gruppi di Acquisto Solidale e i servizi integrativi per grandi e piccoli, possa comprendere i quartieri popolari degli IACP (Istituti Autonomi Case Popolari) d’Italia, anche se è quello che vogliono farci credere le amministrazioni pubbliche. Da una parte troviamo l’opinione comune che vede spesso i sobborghi popolari come non-luoghi degradati, e dall’altra le amministrazioni, specialiste nel vendere piccoli e timidi tentavi di gestione sociale come grandi eventi rivoluzionari.
Non si può però ridurre tutto alle esperienze di grave emergenza come le Vele di Scampia o lo Zen di Palermo che, anche se ovviamente necessitano di un pronto intervento, non possono rappresentare nell’immaginario comune l’intero patrimonio residenziale pubblico. Attorno a questo tema ruotano molti pregiudizi e false promesse. Gli abitanti “delle popolari” li ho conosciuti, sulle popolari ho impostato tutta la mia carriera accademica e in uno degli IACP ci ho anche lavorato per un anno, e spesso mi sono vergognata delle condizioni in cui versavano gli alloggi che ho visitato, sentendomi quasi colpevole poi nel ritornare nella mia piccola, ma dignitosa, casa la sera dopo il lavoro. Io, che in quel momento, in quanto parte dell’ufficio progettazione, rappresentavo una delle poche figure con cui gli inquilini interagivano, mi sentivo allo stesso tempo responsabile e impotente, parte passiva di un sistema che non ero in grado di modificare. L’Edilizia Residenziale Pubblica è circondata da disinformazione, che scredita prima di tutto gli inquilini. Sembra che tutti i mali del mondo affondino le proprie radici nelle periferie, ma non è così, purtroppo sono a monte, e anche queste ultime ne sono vittime. I problemi relativi al mondo degli alloggi ERP in Italia sono ben noti, ma pochi ne conoscono la reale portata. Morosità, abusivismo, mancata manutenzione, incremento degli alloggi sfitti e supporto sociale inadeguato si alimentano a vicenda nel grande circolo vizioso della pubblica amministrazione.
Federcasa, Federazione italiana per le case popolari e l’edilizia sociale, nel suo dossier dell’anno 2015 parla di 16mila alloggi sfitti che necessiterebbero di manutenzione, a cui va aggiunto il numero imprecisato di tutti quelli regolarmente assegnati ma bisognosi di interventi tempestivi. Circa la metà del patrimonio – 500mila alloggi – è infatti caratterizzato da un alto consumo energetico che obbliga le famiglie all’utilizzo di circa il 10% del loro reddito per potervi vivere in modo confortevole. La situazione non è certo migliore per quanto riguarda l’abusivismo: la media nazionale è del 5,9% e il fenomeno riguarda in particolar modo le grandi città del centro e del Sud Italia (Roma, Napoli, Palermo, Catania), la cui percentuale si aggira intorno al 9%, contro il 2% del Nord. A Milano gli alloggi occupati sono circa 3.500, mentre a Roma si arriva fino a 10mila. Se a questo si aggiunge l’aumento crescente della vendita di immobili a privati da parte degli IACP si comprende la gravità della situazione. In Italia è ancora regolamentata dalla Legge 560/1993, che prevede prezzi ben lontani da quelli attuali di mercato. Dal 1993 sono state vendute circa 190mila unità immobiliari e ciò ha portato ad una diminuzione drastica (22%) del patrimonio residenziale, poiché il ricavato delle vendite non è sufficiente neanche per ricostruire un terzo degli alloggi venduti. La gente si domanda: “Può mai succedere che qualcuno mi dia una casa perché non me la posso permettere? Così, senza niente in cambio?” e ancora “Qual è l’inganno?”. Quasi non ci si crede, ma invece può succedere, accade regolarmente in altri Paesi, perché la casa è un diritto, nonostante gestioni immobiliari inadeguate e corruzione. L’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, come spesso succede è piuttosto indietro. Housing Europe, network delle federazioni europee che si occupano di edilizia popolare, cooperativa e sociale con sede a Bruxelles, ci restituisce un quadro disastroso. Nel report “The State of Housing in the EU 2017” viene stimato che nel nostro Paese solo il 3,7% del patrimonio residenziale è adibito a edilizia sociale. Se contiamo che questa percentuale va poi divisa tra edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata possiamo immaginare a quanto ammonti il numero di alloggi ERP in Italia. Giusto per fare un confronto, in Inghilterra la percentuale è del 17,6%, mentre in Francia si aggira intorno al 16,8%. Solo la Germania con il 3,9% ci si avvicina numericamente, ma non effettivamente, poiché il Paese tedesco è caratterizzato da un mercato in cui gli affittuari superano il numero dei possessori e in cui non si professa la “religione” della casa di proprietà: esattamente il contrario di quello che avviene qui.
Le case popolari in Italia sono poche. Attualmente il settore pubblico ospita 750mila abitanti, mentre sono 1,7 milioni le persone che chiedono di accedere a una casa. In base a queste stime solo circa un terzo di quelli che ne avrebbero necessità riceve effettivamente un alloggio ERP. Si delinea sempre di più una fascia di persone con un profilo economico troppo “alto” per accedere alle popolari ma contemporaneamente troppo “basso” per sostenere l’affitto di una casa dignitosa o accedere a un mutuo. Non può essere esclusivamente colpa dei soldi mal gestiti, di razzismo latente (e non) o della criminalità organizzata. Queste sono le conseguenze di un problema più profondo, che trova le sue radici nel modo in cui concepiamo il sistema residenziale pubblico: un’incuria generalizzata che ha effetti disastrosi sia sulle amministrazioni, che preferiscono vendere gli immobili piuttosto che riqualificarli perché non conviene economicamente; sia sugli inquilini, diretti interessati del crescente calo di alloggi disponibili. Nel 1954 Martin Heidegger scriveva il saggio Costruire, abitare, pensare e, attraverso un’analisi etimologica, rifletteva sul significato dei termini costruire e abitare ponendosi principalmente due domande cardine della riflessione architettonica: che cos’è l’abitare? In che misura il costruire rientra nell’abitare? Il filosofo, seguendo una visione fenomenologico-esistenzialista, cercava di oltrepassare il rapporto di fine/mezzo che lega convenzionalmente l’abitare al costruire, asserendo che “Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito; ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo”. Heidegger inizia la sua analisi partendo dalla parola tedesca “bauen” che significa sì costruire ma che originariamente era intesa anche come “custodire”, “coltivare”. Essa, quindi, racchiude due significati: quello del costruire, relativo a un creare dal nulla, e quello del coltivare, centrato sul preservare, sul proteggere. Entrambi questi aspetti per il filosofo sono così parte integrante dell’abitare, che è il modo in cui i mortali sono sulla terra, il nostro modo d’esserci, il “dasein”. Secondo Heidegger “la crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni” ma “nel fatto che i mortali […] devono anzitutto imparare ad abitare. […] Come possono però i mortali rispondere a questo appello se non cercando, per la loro parte, di portare da se stessi l’abitare nella pienezza della sua esistenza? Essi compiono ciò quando costruiscono a partire dall’abitare e pensano per l’abitare”.
In definitiva, solo chi è realmente capace di abitare può costruire. L’essenza dell’abitare è proprio questo “aver cura delle cose”, un concetto talmente semplice da risultare disarmante, poiché riesce a descrivere in breve e a pieno il nostro modo di stare al mondo, l’unico che realmente conosciamo: l’occuparci con rispetto e devozione delle cose che ci circondano. E ripensare all’importanza di questo “aver cura”, mi ricorda la necessità di un’educazione volta al senso civico, che ha tra i suoi obiettivi il raggiungere un dignitoso standard abitativo comune. Non si può pensare di arrivarci riempiendo esclusivamente di articoli restringenti i nostri regolamenti edilizi, bisogna impegnarsi in un lavoro culturale costante. Nell’ottica degli alloggi ERP possiamo facilmente capire quanto sia centrale questo concetto di cura: da parte delle amministrazioni e da parte degli inquilini, che spesso non sentono l’appartenenza agli alloggi a cui vengono assegnati. “Cosa me ne frega di occuparmi di questi muri se non sono miei?” è il pensiero ricorrente dell’abitante medio, figlio della convinzione che in Italia se non hai una casa di proprietà non sei nessuno. Con la riqualificazione di questi immobili, a volte organizzati in grandi complessi, ci si gioca la rivitalizzazione di interi quartieri, con la possibilità di dar vita a veri e propri laboratori urbani preziosissimi per le sorti dell’intera città. Costruire “luoghi” e non semplicemente “edifici”, “blocchi”, formare comunità forti ancor prima di pensare di assegnare abitazioni. Non si sta parlando solo di gestire il patrimonio immobiliare, ma di attivare comunità solide, perché vivere in alloggi adeguati è certamente necessario ma non sarà mai abbastanza per raggiungere uno stile di vita dignitoso che permetta la reale integrazione e realizzazione degli abitanti all’interno del tessuto sociale. È necessario offrire un servizio invece di limitarsi ad assegnare quattro mura; formare gli inquilini invece di abbandonarli all’uscio, per costruire un reticolo di assistenza e informazione che dia il via a una rete di cura, e quindi di manutenzione efficiente, che li sostenga fornendo al contempo un ritorno economico per le amministrazioni. Inoltre sarebbe importante studiare un preciso mix sociale in base a cui assegnare gli alloggi, in grado di prevenire la ghettizzazione e incentivare non solo l’integrazione ma anche l’interazione tra varie fasce d’età e di reddito. In altri Paesi europei, in cui non vi è una netta separazione tra social housing e Edilizia Residenziale Pubblica, trovano applicazione pratiche che a noi appaiono come utopie. In Germania, per esempio, una parte degli alloggi popolari di nuova costruzione è destinata anche alla vendita privata – non svendita, attenzione – così da rifinanziare l’investimento iniziale. In questo modo si ottiene contemporaneamente sia un ritorno economico adeguato che la creazione di condomìni socialmente diversificati. L’Italia, per tutta risposta, con l’articolo 23 della L.R. 16/2016 stabilisce il 20% come soglia massima di famiglie in condizioni di indigenza che possono accedere agli ERP, in maniera da limitare le perdite e aggirare palesemente la domanda abitativa. Il nostro Paese ha assorbito alcune di queste buone pratiche ma le applica solo agli interventi di social housing, raramente a quelli strettamente di Edilizia Residenziale Pubblica. Questi progetti, anche se spacciati per accessibili a tutti, sono rivolti a inquilini con reddito medio-alto e richiedono affitti proibitivi per l’abitante tipo degli ERP. L’operato di organizzazioni come Fondazione Housing Sociale – che ha seguito a Milano con buoni risultati comunità come Cenni di Cambiamento e Borgo Sostenibile – ha alle spalle colossi come Cariplo. Queste iniziative rappresentano certamente una buona via per chi vuole intraprendere uno stile abitativo solidale e per questo vanno encomiati, è giusto che continuino a crescere interessando un numero sempre più alto di cittadini, però, non sono in grado di rispondere all’attuale bisogno abitativo di chi non riesce ad accedere neanche agli ERP. Il supporto sociale non può essere applicato escludendo gli abitanti delle popolari, proprio perché sono questi a necessitarne maggiormente.
In Italia i tentativi in ambito pubblico sono sporadici e di piccole dimensioni, non riguardano tutto il patrimonio residenziale e non seguono un piano di gestione ben organizzato. Spesso l’amministrazione sociale degli immobili viene affidata a cooperative e organizzazioni no profit che assistono gli inquilini con grandi sforzi e poche risorse, il cui operato però non è sufficiente al raggiungimento di un livello di consapevolezza ed emancipazione tale affinché siano gli stessi abitanti ad autogestirsi. Il loro aiuto, che solitamente si traduce in saltuari progetti di portierato promossi dagli IACP, può rappresentare un punto di partenza, ma non è abbastanza per dare una svolta al sistema. In Italia il bisogno di un forte sostegno sociale nei quartieri popolari esiste e non può essere ignorato. L’abbandono da parte delle amministrazioni, spesso dirette responsabili dell’alto numero di alloggi sfitti e del degrado generalizzato, coincide spesso con una comprensibile ma assurda autogestione da parte degli inquilini. Queste iniziative sono forti perché rispecchiano logiche bottom-up, dal basso verso l’alto, ma nonostante i buoni intenti spesso risultano ai limiti della legalità, o del tutto illegali, sottolineando ancora una volta le gravi carenze procedurali delle amministrazioni. Si arriva così al paradosso del quartiere romano Laurentino 38 in cui sono gli abusivi stessi che, dopo aver occupato per anni alloggi sfitti, chiedono all’ATER di essere regolarizzati scavalcando le graduatorie di assegnazione; o all’esempio del Comitato Giambellino-Lorenteggio, a Milano, i cui esponenti sono stati recentemente definiti dai media i “Robin Hood” della città, poiché si sarebbero sostituiti alle autorità nell’assegnazione, senza scopo di lucro, di appartamenti sfitti. È necessario citare anche l’iniziativa guidata dall’attore romano Mirko Frezza, recentemente raccontata dal programma Rai I dieci comandamenti, e precedentemente dal film Il più grande sogno, diretto da Michele Vannucci e presentato al Festival del Cinema di Venezia nel 2016. Dopo essersi lasciato alle spalle un passato burrascoso trascorso per lo più in carcere, Frezza è stato nominato presidente del comitato di quartiere di Casale Caletto, alla periferia di Roma, e ha deciso di mettersi al servizio della comunità nel suo centro polivalente realizzato occupando abusivamente una scuola abbandonata. A questa lista andrebbero poi aggiunte le molteplici associazioni criminose, ampiamente affrontate dal giornalismo contemporaneo, che offrono alloggi in cambio di denaro. Eppure quella dell’illegalità non è l’unica via percorribile, lo dimostra il resto d’Europa.
A volte sono le stesse amministrazioni a incentivare indirettamente questi fenomeni che, seppur vitali, rimangono comunque non regolamentati. Gli IACP non possono essere vittime di un continuo ricambio dirigenziale che segue le vicissitudini politiche e non favorisce prospettive di crescita a lungo termine. In questo modo tutto si traduce in una campagna elettorale di cui gli inquilini pagano il prezzo. Con questo non intendo avere la presunzione fantascientifica di credere in possibili enti pubblici apolitici, ma voglio sottolineare l’impellente necessità di stabilire criteri gestionali che poco lascino alla fantasia della classe dirigenziale nella scelta degli interventi da eseguire e che quindi riconoscano il ruolo chiave della priorizzazione e del sostegno sociale concreto secondo modelli ripetibili di autogestione delineati da esperti del settore. Nel resto d’Europa i diritti sociali non sono cose per i più fortunati, e gli ERP non rappresentano gli scarti del patrimonio che gli altri sono riusciti ad accaparrarsi. Basta dare un’occhiata al progetto delle Savonnerie Heymans a Bruxelles, o agli interventi realizzati nel distretto Carabanchel a Madrid, dove gli enti pubblici sono riusciti a dare vita a progetti competitivi. La cooperazione tra l’Edilizia Residenziale Pubblica e gli interventi privati di social housing potrebbe fare miracoli: l’una risponderebbe ai bisogni dei meno abbienti e l’altra al resto della comunità, così da azzerare il fabbisogno abitativo totale, sempre in un’ottica di creazione di comunità autogestite miste e solidali. In un futuro, che si spera sia prossimo, l’insieme di questi patrimoni e il loro operato congiunto potrebbe essere costituito da così tanti alloggi di qualità da scoraggiare le persone a mettersi sulle spalle mutui e inutili alti affitti, fino a scuotere il mercato immobiliare e, perché no, ripensarlo completamente. In un’era in cui vendiamo servizi prima che prodotti tangibili, è impensabile non adattare questa logica alle nostre case. Forse sto fantasticando, ma magari un giorno diventeremo tutti “gente delle popolari”, in un mondo in cui questo termine non ha più nessuna accezione negativa.