Siamo circondati da oggetti dei quali, nella maggior parte dei casi, non conosciamo niente se non a mala pena la funzione. Non abbiamo idea della provenienza, della progettazione, del funzionamento di una quantità enorme di cose di cui si compone la nostra vita quotidiana. Eppure, gran parte dei gesti che compiamo ogni giorno sono accompagnati da qualche elettrodomestico, device, utensile che ce la rendono possibile: la mattina appena svegli prendiamo la caffettiera e come d’incanto si materializza nelle nostre tazze un caffè, accendiamo un fornello e il miracolo del fuoco prende luogo davanti ai nostri occhi, per non parlare poi dell’aura quasi magica che avvolge lo smartphone con cui leggiamo le notizie e scrolliamo i social, magari in bagno o mentre siamo sul bus. Diamo per scontato che queste cose siano sempre esistite, a meno che il nostro lavoro non sia appunto costruire o inventare oggetti, e ne facciamo un uso talmente spontaneo da averlo interiorizzato e da non considerarlo più un piccolo miracolo.
Tra tutti gli oggetti di cui si compone il mondo domestico, ce ne sono alcuni che non sono nati semplicemente come strumenti funzionali a portare a termine un compito come lavare piatti o stirare camicie, ma hanno dietro studi e ricerche sia artistiche che sociali. Proprio in questo momento qualcuno potrebbe essere seduto su una sedia Wassily senza aver la minima idea di quale sia la storia di questo ammasso di tubi metallici e pelle che a un un occhio distratto sembra non avere proprio nulla di speciale esclusa la sua mansione di luogo dove poggiare il sedere. Eppure questa semplice sedia è uno degli oggetti simbolo di una scuola d’arte, ma anche filosofica e di scienze sociali, nata in Germania cento anni fa, e che ha lasciato un segno talmente forte nel mondo moderno da essere ancora alla base di moltissime correnti architettoniche, di design e progettazione di molti degli oggetti ed edifici che ci circondano.
Il cambiamento nel modo di rapportarci con gli oggetti della vita quotidiana è arrivato nel momento in cui la nascita dell’industria e la produzione in serie hanno consentito a chiunque, nella quasi totalità del mondo, di poterne fare uso. La scuola della Bauhaus, nata esattamente un secolo fa a Weimar, in una Germania in crisi per la sconfitta nella prima guerra mondiale, si interrogava proprio su come si potesse cambiare la direzione dell’industrializzazione ormai incipiente e del consumismo spersonalizzante che ne deriva. L’obiettivo di questa iniziativa collettiva era fare sì che la produzione seriale di oggetti e di abitazioni non perdesse anche l’ultima traccia di umanità in favore della piena industrializzazione asettica, evitando che le persone rimanessero schiacciate dalle macchine e caricando di significato anche gli oggetti più banali di uso quotidiano. Sembra una missione piuttosto folle oggi, considerato il livello di progresso tecnologico a cui siamo arrivati, per cui la soluzione più semplice a un telefono che non funziona perfettamente è sempre comprarne un altro: l’automatismo con cui ci rapportiamo alle cose che utilizziamo presuppone sempre che un oggetto esista solo in quel preciso momento, giusto per svolgere il suo compito. Ed è proprio l’attenzione per lo scopo funzionale che deve tradursi in un’estetica appagante e coerente, una “civilizzazione industriale” che i protagonisti della Bauhaus hanno dato alle case in cui abitiamo e agli oggetti di cui le riempiamo, segnando un punto di svolta nel design e nell’architettura moderna, nonostante la durata molto breve dell’esperimento di appena quindici anni.
Dalla scuola della Bauhaus sono passati tra i più importanti innovatori del Ventesimo secolo, tra cui pittori come Paul Klee e Wassily Kandiskij, architetti e designer come Mies van der Rohe, Walter Gropius, Marcel Breuer. Per farsi un’idea immediata di quali fossero i principi alla base di questo collettivo nato per dare una vera e propria nuova spinta ideologica alla produzione artistica di quel periodo, basta leggere qualche riga del manifesto scritto da Gropius, all’epoca direttore della scuola quando la sede era ancora Weimar (nel 1919 si trasferirà a Dessau e poi a Berlino, prima di chiudere nel 1933). La separazione tra artista e artigiano che aveva avuto luogo con la rivoluzione industriale aveva generato una distinzione classista e ingiusta tra chi crea oggetti e chi invece “fa arte”, come pervaso da qualche illuminazione mistica che rende molto più densa di valore la sua produzione di qualsiasi altra opera. In effetti, la concezione antica del termine “arte” era piuttosto diversa da quella a cui siamo abituati oggi, considerando che derivava dal concetto classico di “téchne” (tradotta con il termine latino “ars”), che significava proprio creare, saper fare, operare. Dal momento in cui le cose non venivano più fatte da un singolo individuo ma da un intero assetto industriale, spersonalizzato e in grado di produrre in serie, il rapporto concreto e ravvicinato tra creatore e oggetto creato svanisce – con tutte le conseguenze che ne derivano, teorizzate da Marx nel suo concetto di alienazione. Non a caso, nella prima versione del manifesto della Bauhaus veniva usata per definire la scuola proprio l’espressione “Cattedrale del socialismo”, che sottolineava, quando ancora la minaccia nazionalsocialista era lontana, quali fossero gli intenti politici oltre che artistici del movimento. Lo schieramento apertamente comunista e socialista degli insegnanti e degli allievi della Bauhaus, ritenuta dai nazisti una scuola degenerata, troppo internazionalista e anti-tedesca, fu la causa principale della sua chiusura nel 1933.
Per fare in modo che questa distanza tra semplicità degli oggetti di uso quotidiano e bellezza non si accentuasse, l’intento della scuola diventò proprio quello di insegnare ai suoi allievi che chiunque ha diritto di accesso all’”abitare felice”: non importano estrazione sociale, stipendio o mansione lavorativa, tutti devono poter vivere in un luogo che sappia assecondare le loro esigenze in maniera funzionale e che non appaia sgradevole, condensando utilità ed eleganza sperimentale in un unico progetto. Questo ideale si è tradotto nella semplicità di un oggetto come una teiera, nella sua forma iconica disegnata da Marianne Brandt nel 1924, fino alle abitazioni popolari pensate e realizzate come luoghi in cui accogliere, nella bellezza accessibile dell’efficienza, gli uomini e le donne che non potevano permettersi ville sontuose, simboli della borghesia e di un mondo ormai lontano, dove la distinzione tra ricchezza e povertà andava ostentata anche attraverso la propria casa. Questo rapporto inscindibile tra artigiano e artista che non prevede distinzioni di classe tra le due figure si traduce nella formazione di studenti che abbiano consapevolezza non tanto di uno stile preciso da replicare, ma di un metodo. Una procedura che parte da una conoscenza pratica e concreta dei materiali che dà a chi li plasma la possibilità di apprenderne le capacità tecniche ed espressive, così da scegliere i più adatti, a seconda del progetto. In questo consistevano infatti tutti quei corsi preparatori, i Vorkurs, che introducevano gli studenti della scuola a tutte le altre materie, dal disegno alla sartoria, per raggiungere sotto il segno dell’architettura – madre di tutte le arti che l’Ottocento aveva separato – la famosa idea di opera d’arte totale, la Gesamtkunstwerk teorizzata anni prima da Wagner.
Oltre agli aspetti più concettuali e astratti su cui si fonda la scuola della Bauhaus, è nell’applicazione concreta di questi principi, nella coerenza tra teoria e prassi, che si manifesta tutta la bellezza della sua missione di civilizzazione industriale. Nel ritorno alle forme elementari, alla geometria, ai colori primari – segno distintivo delle opere di Klee, ad esempio – si articola la complessità di una ricerca formale che oggi potrebbe apparire semplice e scontata, ma che ha cominciato a delinearsi proprio in quel contesto culturale. Ciò che sembra modesto e scarno ha alla base un processo creativo per nulla superficiale o sbrigativo, concretizzazione della massima di Mies van der Rohe per cui “less is more”: è molto più difficile togliere che aggiungere. Il design stesso – inteso come volontà di combinare il pregio di un oggetto con la sua funzione concreta, spogliata dei suoi simboli opulenti e riportata all’essenza del suo significato – il razionalismo, l’architettura sociale: tutte le realizzazioni materiali degli insegnamenti della scuola fondata da Gropius riescono ad avere un aspetto così essenziale e sensato da non avere quasi tempo, come se si trattasse di oggetti e di architetture che hanno superato l’esigenza di comunicare un intento egemonico e di autodeterminazione prevaricante e individualista per lasciare spazio alla semplicità della vita dignitosa che ogni uomo e donna meritano di avere in ogni epoca. Anche l’uso dei materiali come il vetro e il metallo, combinati con il cemento, ha nelle opere architettoniche di Gropius la precisa volontà di fare in modo che lo spazio interno e lo spazio esterno di un edificio si compenetrino, dando luogo a un’integrazione sia metaforica che letterale tra uomo e società.
Quella della della Bauhaus è una di quelle storie che ti fanno pensare che ogni tanto i pianeti si allineano dando vita a una combinazione di bellezza sia interiore che esteriore difficile da replicare con altrettanto successo. Esistono così tanti oggetti che prendono ispirazione dalle loro idee e dal loro modo di concepire il design e l’architettura da perderne il conto. Non sono solo una poltrona come la Barcelona di Mies van der Rohe e Lilly Reich, o la lampada MT8 di William Wagenfeld e Carl Jakob Jucker, due pezzi di design che sarà capitato davvero a chiunque di vedere riprodotti, a offrire quel senso di astrazione dal tempo e di perfetta compatibilità con qualsiasi ambiente circostante teorizzati dalla Bauhaus. È anche la sensazione che questi oggetti abbiano scandito un punto di svolta tra presente e passato, dando l’immagine di un futuro che non può mai diventare obsoleto, perché incarna valori così universali da non poter invecchiare mai.