Perché in Italia abbiamo bisogno di una legge sull’architettura
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Sole. Un campo di grano della periferia romana brulica di persone, attori, comparse. Un uomo con un taccuino in mano si avvicina ad una figura che siede isolata, stravaccata su una sedia. È un regista, si riposa lontano dalla folla. L’uomo sorride, si fa coraggio, domanda: “Che cosa ne pensa della società italiana?”. Il regista sospira, risponde laconico: “Il popolo più analfabeta. La borghesia più ignorante d’Europa”.

Basterebbe questa frase, pronunciata nel 1963 da Orson Welles nel mediometraggio La ricotta, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, per cogliere il problema principale dell’architettura italiana: la crisi della committenza. Argomento divisivo, ma non banale, dato che a differenza delle altre arti, l’architettura necessita di due fattori imprescindibili per la sua realizzazione: la cultura e il capitale. Senza una classe sociale culturalmente qualificata e disposta a elargire le necessarie – e spesso significative – quantità di denaro per sovvenzionare un’opera, l’architettura semplicemente non può esistere. Se un pittore, uno scrittore o un musicista hanno l’opportunità di vivere di espedienti e produrre le proprie opere nella solitudine delle loro stanze, un architetto non potrà mai alienarsi dalle strutture economiche e sociali caratteristiche del suo tempo.

Il problema dell’architettura italiana è dunque un problema di classe, poiché una committenza culturale che richiederebbe una maggiore centralità dell’architettura, oggi in Italia, ci sarebbe, solo che non è economicamente in grado di sostenerne le spese. Ormai da diversi decenni, cultura e capitale tendono ad allontanarsi verso due ceti differenti: se un tempo il potere economico e quello culturale erano detenuti dalla medesima classe sociale – la nobiltà prima e la borghesia poi – oggigiorno, il radicale abbassamento degli stipendi del ceto medio non permette di soddisfare i consumi culturali che il livello di istruzione acquisito negli anni della propria formazione richiederebbe. La società italiana sembra produrre un vasto numero di cittadini che per istruzione e aspirazioni apparterrebbero a quella che un tempo era definita “borghesia culturale”, ma che per guadagni e possibilità di spesa risultano specchio di un nuovo, crescente, proletariato. In altre parole, chi avrebbe il desiderio e le competenze per investire in architettura, oggi non ha la possibilità economica per farlo, mentre chi ha le opportune capacità di spesa, spesso non ha intenzione di farlo. Il risultato è un’assenza di domanda dovuta al declassamento del ceto di riferimento.

Del resto, come direbbe Thorstein Veblen, l’architettura è tra i “consumi vistosi”, ovvero quei consumi ostentativi che hanno la funzione di posizionarci all’interno di una determinata classe sociale. Consumi spesso immateriali e improduttivi, come quelli culturali (lo studio delle lingue morte, la musica colta, la moda, eccetera). Quest’intuizione vebleniana di spostare l’analisi da una logica di produzione a una logica di consumo, determinata non dai bisogni ma dallo spreco, sarà approfondita, settant’anni più tardi, da Jean Baudrillard nel saggio del 1972 Per una critica dell’economia politica del segno, dove definisce il consumo come il momento di produzione di quei segni differenziali, necessari per la definizione del proprio status sociale, prioritari perfino rispetto alla funzionalità pratica del bene acquistato. In occidente fu proprio quella “classe agiata, descritta con pungente ironia da Veblen, a usufruire in prevalenza dei consumi culturali, mantenendo in equilibrio ingenti capacità di spesa con un elevato livello d’istruzione. Regnanti, papi, cardinali, marchesi, duchi, imperatori e, successivamente, la borghesia, rappresentarono quella committenza che non solo domandava una specifica opera architettonica, ma formava una classe capace di comprenderne le sfumature più profonde.

Nobiltà e borghesia utilizzarono l’architettura come principale strumento narrativo, utile a comunicare le proprie gesta e le proprie fortune. L’architettura, del resto, è da sempre espressione del potere: economico, sociale, politico, religioso, intellettuale. I grandi templi, le piramidi, le cattedrali, i palazzi, le ville, i teatri, furono la rappresentazione di una supremazia economica e culturale da trasmettere ai posteri. Questa narrativa, fondata sulla materia – l’oggetto architettonico – oggi si è scontrata con l’introduzione della comunicazione di massa. Laddove l’architettura è lenta, poiché bisognosa di lunghi processi finanziari e burocratici, la società odierna richiede una comunicazione veloce, per non dire istantanea. Laddove l’architettura si fonda su una narrazione che proietta il messaggio nei lunghi tempi della Storia, la società contemporanea si fonda sull’immediatezza del presente. “Il futuro è adesso” sembrano incessantemente ricordarci le piattaforme virtuali e i social network. La Storia appare finita, sostituita da uno spazio compresso in un eterno presente.

Se a questo aggiungiamo che il numero di architetti italiani è notevolmente superiore rispetto a quello dei vicini Paesi europei possiamo renderci conto di quali siano le cause principali della crisi della disciplina: alla 14° Biennale di Architettura di Venezia, curata da Rem Koolhaas, fece scalpore il grafico presentato da OMA all’interno della sezione “Monditalia”, nel quale si evidenziava il rapporto tra il numero di abitanti e il numero di architetti in 36 differenti Paesi del mondo. L’Italia si aggiudicava l’ultimo posto con il maggior numero di progettisti rispetto al totale della popolazione: ogni 414 cittadini italiani, uno di loro è un architetto. Questo eccesso di offerta è un dato che, se sommato alla crisi della committenza, fotografa la gravità della situazione italiana e l’esigenza di affrontare al più presto il problema.

Basterebbe però guardare all’esempio della Francia per capire come sarebbe stato e forse è ancora possibile affrontare la questione. A seguito della rivoluzione francese, una volta ghigliottinato il Principe, ci si chiese chi dovesse essere l’erede del suo potere economico e culturale. Alla questione rispose il rivoluzionario Nicolas de Condorcet, sostenendo che è “il popolo sovrano l’erede del Principe”. Tuttavia per popolo non si intende la somma delle singole pulsioni individuali, ma un’entità più vasta, rappresentata dallo Stato della neonata Repubblica. Se il Re era morto e la nobiltà declassata, spettava allo Stato subentrare, divenendo il principale committente di riferimento delle arti e dell’architettura. Questo passaggio dal Principe alla collettività, è oggi rintracciabile per le strade di Parigi, dove le grandi opere architettoniche portano il nome del Presidente della Repubblica che durante il proprio mandato si è speso per promuoverne la costruzione. Non a caso il grande centro d’arte contemporanea parigino si chiama Centre Pompidou, perché voluto e progettato durante il settennato del Presidente George Pompidou, a seguito di un concorso pubblico vinto dagli allora giovanissimi e sconosciuti architetti Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini; così come la Bibliothèque Nationale de France Mitterrand, progettata dall’architetto Dominique Perrault, prende il nome dal Presidente François Mitterand che si spese in prima persona per la sua realizzazione organizzando il concorso durante il suo mandato.

Bibliothèque Nationale de France Mitterrand
Centre Pompidou

Nel sistema francese il politico si assume la responsabilità di promuovere l’architettura per la collettività, favorendo una competizione aperta e internazionale attraverso concorsi pubblici. Ed eccoci arrivati a una seconda, importante, differenza con il sistema italiano: in Francia esiste una “Legge per l’architettura” emanata nel 1977, che pone l’architetto al centro del processo di creazione e definizione del progetto, mentre in Italia le opere sono concepite come attività di servizio e non come opere di ingegno: in tale contesto l’architetto è sottratto dal suo ruolo principale, divenendo un mero tecnico, intercambiabile con figure prive di una cultura progettuale. La Legge per l’architettura, oltre ad aver promosso in Francia concorsi trasparenti e aperti, ha anche permesso di adeguare la disciplina ai cambiamenti sociali, aggiornando, di volta in volta, il ruolo della committenza: se fino agli anni Novanta il principale promotore dell’architettura era rappresentato da una committenza pubblica, nell’ultimo ventennio si sono avviate importanti iniziative di rigenerazione urbana che hanno visto il coinvolgimento della committenza privata. Un modello che si è tradotto in imponenti progetti, come il Grand Paris e Réinventer Paris, capaci di riqualificare vaste aree di territorio riconnettendo centro e periferia. La mancanza in Italia di una “Legge per l’architettura” ha impedito di affrontare il problema in maniera sistematica: gli episodi di buona architettura nel nostro territorio negli ultimi decenni rimangono purtroppo isolati e marginali se paragonati alla scala delle trasformazioni urbane attuate negli stessi anni nel panorama europeo.

A fare le spese dell’eclissi dell’architettura italiana – parafrasando il saggio di Giuseppe De Rita – non è certo la sola classe media, che forte dei capitali familiari riesce comunque a trovare un proprio equilibrio sociale, declassandosi o ricollocandosi all’estero, ma è il ceto più povero della popolazione costretto a vivere in periferie che attendono una rigenerazione urbana che stenta ad arrivare. La mancanza di una classe politica sensibile al tema e la perdita di valore dell’architettura come “bene posizionale” si traduce in una crisi della disciplina impossibilitata nel trovare una committenza sufficientemente preparata con cui dialogare. Qual è il dramma dell’architettura italiana? La risposta la suggeriscono, ancora oggi, le parole profetiche di Pasolini: Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”.

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