“Mi chiamo Guido, ho 19 anni, ma fino ai due mi chiamavo Giulia. Sono una persona intersessuale, il che significa che i miei genitali alla nascita erano diversi da quelli che la mia famiglia si aspettava. Sono stati amputati, “corretti”. Nessuno ha chiesto il mio parere. Si è deciso di intervenire quando ero ancora troppo piccolo per dire la mia. Ero una bambina, ma c’era qualcosa di strano: mio padre e mia madre hanno avuto paura, erano confusi, impreparati. Non sapevano che fare. I dottori hanno promesso di risolvere la situazione in sala operatoria. A due anni hanno appurato che i miei cromosomi erano maschili, così hanno proposto ai miei genitori di operarmi. Il mio corpo è stato devastato da una serie di interventi irreversibili, tutt’ora ho dolori e fastidi che credo non passeranno mai. Tutto ciò che ho nelle mutande mi sembra un’unica, enorme cicatrice. Evito di guardarmi allo specchio, cerco di non pensare a quello che mi è stato fatto. Mi hanno ripetuto più volte che con me la medicina ha fatto miracoli, che i medici erano soddisfatti e addirittura euforici dei risultati, che sono arrivati i giornalisti e si è parlato di me in televisione. Io ricordo solo le garze, le medicazioni, i dolori lancinanti di notte e quando andavo in bagno e la mamma che mi diceva “dai che domani ti passa, porta pazienza”. Mi hanno asportato l’utero e la vagina, hanno distrutto la mia clitoride. Nei pochi rapporti sessuali che ho avuto ho sentito solo fastidio e imbarazzo. I medici avevano consigliato ai miei di non dirmi niente, che col tempo tutto si sarebbe sistemato da sé. Non era vero: la mia natura non è quella che mi è stata imposta col bisturi”.
Guido non esiste, o almeno non si chiama così. Ho provato a immaginare – basandomi anche sulle testimonianze raccolte da The Interface Project, archivio online che riunisce storie di persone nate con tratti intersex o con variazioni nello sviluppo sessuale – cosa potrebbe raccontare, una volta cresciuto, un bambino che si sia trovato a vivere il calvario dei “rimedi” chirurgici inflitti a coloro che sono nati con caratteristiche sessuali insolite, ritenuti malati (la loro patologia è definita con l’acronimo DSD, Disordine della Differenziazione Sessuale), anche se malati, in realtà, non sono. Bambini simili a quello operato, a due anni e mezzo, l’anno scorso a Palermo. Un caso di cui s’è parlato, ma non abbastanza. Riconosciuto alla nascita come femmina, il bambino siciliano aveva però delle anomalie che hanno fatto scattare il protocollo di “normalizzazione”. Vagina e utero sono stati asportati per procedere alla ricostruzione del pene e delle vie urinarie, perché i medici hanno rilevato in lui un corredo cromosomico “del tutto compatibile” (questo recitano i documenti) con l’appartenenza al sesso maschile. L’intervento, anzi gli interventi – visto che si sono rese necessarie due operazioni e probabilmente la vicenda medica del piccolo andrà avanti per anni – sono stati eseguiti dal chirurgo pediatrico Marcello Cimador, al Policlinico Paolo Giaccone. Qualche articolo qua e là per un paio di giorni e poi si è tornati al silenzio che abitualmente circonda questi temi. La differenza viene rimossa, nascosta.
Le vicende dei bambini intersex, a causa della poca informazione e della fragilità emotiva delle famiglie coinvolte, vengono di fatto gestite dal personale sanitario, che agisce il più delle volte in modo troppo precoce e in assenza di una formazione specifica. Clitoridi troppo grandi o peni troppo piccoli, genitali in ogni caso ambigui: se qualcosa ostacola l’attribuzione sessuale univoca, allora quel corpo deve essere prontamente corretto per adeguarsi allo standard binario. I neonati vengono ricondotti a uno dei due sessi, il prima possibile. Una delle ragioni fornite a sostegno dell’intervento chirurgico precoce è il rischio di sviluppare patologie: in realtà queste correlazioni non sono mai state provate (non ci sono dati precisi che qualifichino l’entità di questo rischio). Vengono chiamate in causa per rinforzare la scelta culturalmente più comoda. Ma, come giustamente dice una mamma in questa intervista: “Non farei amputare uno dei seni di mia figlia perché c’è la possibilità che un giorno le venga il tumore al seno”. E invece viene fatto, perché il timore dell’ipotetica malattia va a sommarsi al travaglio emotivo per un figlio che sembra andare contro natura.
Oggi si sa che questi procedimenti invasivi non sono necessari e, anzi, sono da condannare. No body is shameful, nessun corpo è indegno, dicono quegli attivisti che sempre più oggi trovano il coraggio di venire allo scoperto con la loro identità: i bambini intersex non sono sbagliati, né malati, eppure vengono ancora sottoposti a vere e proprie mutilazioni genitali il cui fine è più estetico e culturale, che medico. Interventi ancora legali nel nostro Paese, anche se la comunità scientifica e le istituzioni internazionali li definiscono apertamente delle violazioni dei diritti umani, dato che avvengono senza il consenso del soggetto interessato (si interviene in genere poco dopo la nascita) e non rispettano il diritto all’integrità del proprio corpo. Queste manipolazioni estreme dell’anatomia dei minori rappresentano per l’ONU una violazione del diritto all’integrità della persona e del principio di autodeterminazione: il 2 settembre 2016 il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ha infatti ammonito l’Italia per le pratiche di mutilazioni genitali intersex (IGM, Intersex Genital Mutilations), chiedendoci di “garantire l’integrità fisica, l’autonomia e l’autodeterminazione ai bambini interessati“. In questa stessa direzione erano già andati l’OMS nel 2015, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) e il Consiglio d’Europa, come viene ricordato in quest’intervista.
Da molti anni ormai sono noti gli effetti di queste pratiche di “normalizzazione” sessuale: effetti irreversibili e spesso tragici, che vanno dalla perdita della sensibilità genitale alla sterilità, passando per l’odio per il proprio corpo e la depressione e che minano alla base l’identità e l’equilibrio delle persone intersessuali. Le storie degli intersex adulti testimoniano di corpi violati e traumi difficili da gestire, che non di rado conducono al disagio psicologico profondo e persino al tentativo di suicidio. Le storie esistono e sono tante, basta farsi un giro in rete, anche solo su Youtube. Ma il dibattito, soprattutto nel nostro Paese, è quasi del tutto assente. Anche perché si tratta di minoranze rese ancor più silenziose dallo stigma. Non esistono statistiche del tutto affidabili, ma soltanto estrapolazioni di dati: le persone con tratti intersex sarebbero tra lo 0,05 e l’ 1,7% della popolazione globale. Non così poche, in realtà, eppure sistematicamente vittime di un sistema che nega loro il diritto di decidere della propria identità.
Il protocollo sanitario che prevede il trattamento chirurgico di default è arretrato, frutto di una cultura ormai superata. Risale alla seconda metà degli anni ’50, periodo in cui si situano le ricerche dello psicologo e sessuologo John Money. Money ha agito combinando al suo piglio avanguardistico alcuni pregiudizi comprensibili data l’epoca. Lo psicologo era convinto che il sesso fosse una costruzione sociale appresa e che quindi fosse possibile, all’occorrenza, educare un bambino, indifferentemente, a essere maschio o femmina. Per anni portò in giro, a sostegno delle sue tesi, il caso di David Reimer: un bambino quasi evirato a causa di una circoncisione maldestra che era stato reso anatomicamente femmina. Ribattezzato Brenda, per circa dieci anni Reimer venne visitat* periodicamente dallo stesso Money. Secondo le osservazioni del sessuologo, il caso dimostrava che, quando serve, è possibile aggiustare l’anatomia e in seguito attribuire con l’educazione un sesso piuttosto che l’altro. In realtà poi, col passare del tempo, quel caso di cui Money tanto si vantava è finito in tragedia. Una volta adolescente Reimer ha infatti manifestato i primi segni di disagio: ha cominciato un percorso di transizione per tornare al suo sesso originario, ma la sua psiche a quel punto era irrimediabilmente compromessa. Nel 2004, a 38 anni, si è suicidato, sparandosi in bocca in un parcheggio.
Contro le mutilazioni genitali femminili dell’Africa si organizzano – com’è giusto che sia – raccolte, fondi e campagne internazionali: il destino dei neonati e dei bambini intersex si compie invece nel silenzio e nell’indifferenza. C’è una legittimazione culturale dietro a questi abusi della medicina, che avvengono per assecondare il bisogno di mantenere al sicuro il nostro immaginario. È bene che ci siano in giro maschi e femmine – dice la mentalità comune – il resto sono scherzi della natura, deformità da raddrizzare. Ciò che non può essere controllato, inquieta, destabilizza e va tenuto nascosto: l’invisibilità delle persone intersessuali è alla base del perpetrarsi della vergogna. Ogni bambino intersex che viene al mondo è un po’ come se fosse il primo, e l’unico: le famiglie hanno la sensazioni di vivere una situazione senza precedenti e disperata. Ma le testimonianze ormai ci dicono che non che è così: la modella Hanne Gaby Odiele di recente ha deciso di fare coming out e di parlare della sua storia. Nata con la sindrome di Morris (detta anche “femminilizzazione testicolare”) ha dichiarato, a proposito della sua condizione e dei trattamenti chirurgici subiti: “Non sarebbe stato un problema, se fossero stati onesti con me fin dall’inizio. Invece quello che mi hanno fatto si è trasformato in un trauma”.
È il tabù che alimenta la discriminazione: di fronte alla paura dei genitori, ai loro eventuali limiti culturali e all’ambizione tecnico-scientifica dei medici, sono le istituzioni e la politica che possono (e devono) intervenire. A dire il vero qualche anno fa qualcosa di importante stava per succedere: nel 2013 il senatore Sergio Lo Giudice (PD) aveva presentato una proposta, il ddl 405, che è rimasta da allora ferma in Parlamento. Si trattava di un provvedimento che sarebbe stato importante discutere perché, tra le altre cose, chiariva il principio dell’autodeterminazione e vietava gli interventi sui bambini intersessuali “tranne che vi siano pericolo di vita o esigenze attuali di salute fisica che escludano la possibilità di rinviare l’intervento”.
Gli ermafroditi nell’antichità erano ritenuti esseri divini e fatti oggetto di miti e leggende per la loro eccezionale compresenza in uno stesso corpo di due nature. Nella modernità sono invece diventati corpi scandalosi e imbarazzanti, da violare in modo automatico e meccanico in sala operatoria, senza che il diretto interessato abbia il tempo di dire la sua. Anche grazie alle possibilità comunicative offerte dalla rete, però, oggi i segnali di un cambiamenti arrivano, persino nel nostro lentissimo Paese: lo dimostra, ad esempio, l’associazione Intersexioni, nata sempre nel 2013 ma sotto una stella migliore di quella del decreto Lo Giudice, per rivendicare la dignità e la bellezza della diversità.
Non esistono né due, né tre, né “cinque sessi”: è la natura stessa che offre molte, moltissime combinazioni diverse e tutte meritano considerazione e rispetto. Quando qualcosa non viene accettato è arrivato il momento di prendere in considerazione che a essere sbagliato possa essere, in realtà, chi emette il giudizio: il nostro bisogno ideale di proteggere la tradizione non può più avere ricadute che sfregiano la vita, il corpo e la mente di chi ha l’unica colpa di essere in minoranza.